Il “Guerra e pace” proletario di Vasilij Grossman

La vicenda editoriale della pubblicazione del romanzo-simbolo del Novecento russo. Composta da due parti monumentali Stalingrado e Vita e destino l’opera di Vasilij Grossman è scampata fortunosamente alla censura sovietica e solo ora pubblicata integralmente in Italia.

Città, città di fuoco, resisti finché un giorno arriveremo

 

 

P. Neruda, Canto d’amore a Stalingrado, 1953

Quando Vasilij Grossman consegna alle stampe Stalingrado, ha già in progetto di scriverne il seguito. La storia raccontata si interrompe infatti a inizio autunno 1942, quando la fortuna dei tedeschi comincia appena a tramontare nella martoriata città sul Volga. Il seguito, Vita e destino, già quarant’anni fa è stato tradotto in diverse lingue, ed è conosciuto in tutto il mondo come un capolavoro — tuttavia il fatto che sia soltanto la seconda parte di un ciclo con i medesimi personaggi e situazioni, che anzi inizi esattamente dove il primo s’interrompe (l’ultima pagina di Stalingrado termina con le parole “Fine del primo libro”) e che porti a termine vicende altrimenti rimaste in sospeso, è una notizia tenuta quasi nascosta ai lettori per tutto questo tempo. Addirittura anche la nuova edizione tascabile Adelphi, data alle stampe dopo la pubblicazione di Stalingrado, non cita questo fatto.

D’altro canto, ciò significa, da una parte, che Vita e destino può essere apprezzato come romanzo autonomo, e dall’altra che è bene domandarsi cosa abbia sinora ostacolato la pubblicazione e la diffusione di Stalingrado. Le vicissitudini rocambolesche che hanno preservato il secondo volume dalla distruzione disposta dal Kgb trovano riflesso nell’altrettanto travagliata storia editoriale del primo: tanto è vero che solo con il rinvenimento di copie autografe del manoscritto di Stalingrado scampate e custodite nell’archivio letterario RGALI a Mosca, è stato di recente possibile ripristinare l’integrità del romanzo originale, prima delle modifiche e dei tagli apportati su disposizione della censura sovietica.

Vasilij Semënovič Grossman nasce nel 1905 in Ucraina, da famiglia ebraica. Durante la seconda guerra mondiale è corrispondente al fronte per conto di “Stella Rossa”, il quotidiano dell’esercito sovietico. Un’ottima selezione di suoi pezzi relativi a questo periodo, integrata da brani dei suoi diari personali, è stata pubblicata da Adelphi nel 2015 con il titolo Uno scrittore in guerra (qui la recensione). Già scrittore famoso per i suoi reportage dal fronte, popolare soprattutto fra i soldati di linea, Grossman intervista i comandanti più famosi dell’Armata rossa: grazie a questa conoscenza personale molti di loro entrano come personaggi in questo suo potente, magnifico romanzo sulla battaglia di Stalingrado.

Alla sua uscita, data la mole, la quantità di personaggi, il vastissimo respiro storico e l’ambizione epica, che doveva essere all’altezza del “mito di Stalingrado”, è naturale che il libro venga accolto come un Guerra e pace del ventesimo secolo: in entrambi i casi, protagonista centrale è la storia di come i russi siano riusciti a respingere una rovinosa invasione delle loro terre, la nazione più vasta del globo. Ma se davvero Grossman si immedesima in un Tolstoj sovietico, è con l’intento esplicito di sostituire il brillante mondo della nobiltà zarista con i personaggi di estrazione proletaria dell’Unione Sovietica: professoresse, scienziati, infermiere, contadini invece di principi e contessine.

Questo intento gli costa diciassette anni di lavoro, censura, ostracismo e attacchi personali: ma il risultato è forse la più straordinaria opera del Novecento, quasi senza paragoni nella narrativa di lingua russa del Novecento per complessità, significato e valore letterario.

Grossman inizia la stesura del primo romanzo subito già durante la guerra, nel 1943; semplicemente Stalingrado, il nome della città, e della colossale battaglia durata otto mesi, è il titolo che ha scelto, però il romanzo esce con il titolo Per una giusta causa nel 1952, a puntate, sulla rivista “Novyj Mir” (il titolo proviene da un discorso di Molotov alla nazione, nel giorno in cui la Germania scatena l’Operazione Barbarossa). Il successo è immediato, la critica entusiasta; ma la calorosa accoglienza svanisce in fretta, perché in questi anni, gli ultimi di vita per Stalin, si scatena una violenta repressione antisemita.

Il precedente lavoro di Grossman, quell’impressionante Il libro nero scritto insieme a Il’jia Ėrenburg, resoconto del terrificante genocidio ebraico nei territori dell’URSS, è bloccato dall’alto; il Comitato ebraico antifascista viene decapitato, i suoi dirigenti processati in segreto e fucilati. Quindi, se da una parte l’Unione degli scrittori candida Per una giusta causa al Premio Stalin, dall’altra inizia una campagna contro l’autore, a partire da una virulenta recensione negativa sulla Pravda nel febbraio 1953.

Il comitato editoriale di “Novyj Mir” è costretto a “riconoscere il proprio errore”, cioè la pubblicazione del romanzo; la casa editrice militare Voenizdat chiede a Grossman di restituire l’anticipo che gli ha pagato per ristampare l’opera in volume dopo l’esordio a puntate.

Per fortuna di Grossman, dell’URSS e di tutto il mondo, Stalin muore poche settimane dopo, il 5 marzo 1953. La campagna antisemita si arresta immediatamente. Voenizdat accetta di ripubblicare Per una giusta causa, che esce finalmente il 26 ottobre 1954, sebbene in una versione epurata.

La presente edizione Adelphi riprende invece la successiva edizione critica a cura di Robert Chandler e Jurij Bit-Junan, uscita in Gran Bretagna nel 1919, che reintegra passi tagliati grazie a un attento esame dei dattiloscritti originali di Grossman rivenuti allo RGALI.

La vastissima epopea segue le vicende di un quantità di personaggi (a fine volume appare un utilissimo specchietto riepilogativo, otto pagine di nomi e relazioni) e inizia nel mese di aprile 1942, quando Hitler e Mussolini si incontrano a Salisburgo, e decidono di infliggere il colpo di grazia all’URSS dopo lo stallo dell’offensiva nell’inverno precedente. Anche se racconta di intere famiglie, non è possibile inquadrare l’opera nella saga familiare postmoderna che abbraccia più generazioni, alla García Márquez per intenderci: per Grossman il nucleo del racconto non è la singolarità dei personaggi, che pure sono caratterizzati in punta fine, ma il loro carattere collettivo di popolo, cementato nel sangue dalla volontà di resistere — o dalla mancanza di alternativa alla resistenza.

È di conseguenza difficile individuare una gerarchia di protagonisti che si alternano nei capitoli del primo volume, con episodi intervallati da riflessioni politiche, considerazioni belliche, questioni sociali che apparentano ancora di più il romanzo al capolavoro di Tolstoj. Alcuni tra i personaggi arrivano nella città sul Volga per combattere, altri vengono sfollati a mano a mano che le armate tedesche, romene e italiane superano il Don e si avvicinano; altri ancora muoiono sotto le bombe. Ci sono i presupposti per una grande storia d’amore, quella tra Ženja Šapošnikova, moglie separata del commissario politico Krymov, e il colonnello Pëtr Novikov, che aspira a essere trasferito dallo stato maggiore al comando di un corpo corazzato. La relazione si sviluppa compiutamente solo nel secondo volume, nel quale assume un ruolo centrale anche il fisico teorico Štrum, cognato di Ženja, al punto che la lettera scrittagli dalla madre poco prima di essere eliminata in quanto ebrea (esattamente come la madre dell’autore) diventerà un punto centrale di Vita e destino: trascritta nei primi capitoli, segna il punto in cui il secondo volume si distacca dal precedente, vola ancora più in alto del precedente, conferisce al ciclo lo status di romanzo-simbolo del Novecento russo.

La storia di come Vita e destino sia arrivato alla pubblicazione potrebbe già, da sola, essere un romanzo.

Vasilij Grossman muore nel 1964; tre anni prima, il Kgb aveva sequestrato tutte le copie in suo possesso di questo secondo volume sulla battaglia di Stalingrado, persino la carta carbone usata per riprodurre il testo in più copie e i nastri inchiostrati della macchina da scrivere, con impressi i tasti premuti dalle dita dell’autore. Tutto il materiale costato dieci anni di lavoro fu naturalmente distrutto. Per fortuna Grossman aveva provveduto in precedenza a distribuirne alcune copie a due scrittori, amici fidati.

Grossman arriva a protestare perfino con il segretario del PCUS, Chruščëv, senza esito; “Il suo libro corre il rischio di non vedere la luce prima di due o trecento anni” è la risposta del Comitato centrale del partito. Quando Grossman muore, non sa neppure che una copia del dattiloscritto è nascosta in casa della figliastra dell’amico Lipkin. Dieci anni dopo, Lipkin decide di salvare il testo microfilmandolo per intero. Il fisico nucleare Sacharov e la moglie Bonner, divenuti dissidenti e supportati dall’Occidente, fotografano i fogli uno dopo l’altro in un laboratorio fotografico clandestino che hanno allestito in bagno. Il materiale viene portato all’estero nel 1978 da una slavista austriaca, Ziegler. Nel 1980 Vita e destino viene stampato da una casa editrice svizzera, di proprietà dello jugoslavo Dimitrijević, e così anche la censura sovietica scopre che il romanzo si è salvato malgrado il tentativo di totale distruzione.

Nel 1989, con la glasnost dell’epoca Gorbačëv, l’opera viene finalmente pubblicata anche in URSS, in una nuova versione elaborata da un secondo microfilm, più recente, che contiene anche correzioni di pugno dell’autore: è quest’ultima la versione tradotta da Claudia Zonghetti per Adelphi nel 2008, dopo una prima edizione Jaca Book (1984) basata invece sul testo apparso in Svizzera.

La narrazione di Vita e destino riprende immediatamente dopo la fine di Stalingrado, con gli stessi personaggi e continuando le linee narrative del primo. C’è però un vistoso cambiamento di tono, di argomenti, di valore complessivo. Se nel primo volume c’erano solo alcuni cenni a grandi questioni sovietiche (la collettivizzazione, le purghe staliniane, la resistenza dei vecchi bolscevichi al totalitarismo), nel secondo diventano argomenti centrali. C’è la vita nei ghetti nazisti e nei campi di sterminio, ma anche quella nei gulag sovietici. Ogni uomo, ogni donna, ogni soldato, ogni operaio resiste alla bestiale invasione e la respinge non in virtù della forza che Stalin infonde nella nazione sovietica, ma malgrado Stalin. La Russia profonda reagisce alla minaccia di sterminio, di asservimento, anche di genocidio nonostante ciò che ha dovuto subire da uno Stato totalitario, onnipresente, da un potere paranoico che ha prodotto le cause stesse della propria debolezza con i processi-farsa e la fucilazione dei migliori comandanti dell’Armata Rossa prima dell’inizio dell’invasione.

Pur nella complessità spaziale, geografica e sociale di un’epopea sterminata, il secondo volume vede spiccare soprattutto tre protagonisti giganteschi, a loro modo rappresentativi di un tempo e di un modo di vivere: come già detto, sono Ženja Šapošnikova, il fisico quantistico Štrum e il comandante Novikov. Nessuno dei tre riesce a sottrarsi al condizionamento della politica, che domina su ogni aspetto della vita sovietica, a volte persino con un effetto più pervasivo della necessità di combattere il fascismo (in URSS non si parla di guerra contro il “nazismo”).

La scrittura di Grossman è vivida, alterna descrizione e azione, è estremamente realistica nelle scene di battaglia, mai retorica. I suoi personaggi sono umani, incredibilmente vivi; anche i tedeschi sono convinti di agire per motivi validi, e c’è un tentativo di immedesimazione pure in cui ha un ruolo totalmente negativo. I dettagli militari sono accurati, estremamente precisi, tutti gli ambienti sociali, lavorativi, scientifici sono resti con conoscenza tecnica inoppugnabile — pensiamo solo alle questioni di fisica teorica negli episodi dedicati a Štrum. Tuttavia, dall’insieme si percepiscono con dolorosa intensità le ragioni e i torti di chi combatte per la propria vita e chi per la morte degli altri, russi, tedeschi o ucraini che siano.

La lettura dei due romanzi è davvero paragonabile a Guerra e pace. Offre la stessa sensazione di completezza, di abbracciare un’epoca e un modo di pensare, una fetta di storia, un risultato che neppure il più accurato, il più documentato saggio storico potrebbe ottenere.


  • Vasilij Grossman, Stalingrado, trad. di Claudia Zonghetti, Adelphi 2021, pp 896 euro 28,00 stampa, euro 19,99 ebook
  • Vasilij Grossman, Vita e destino, trad. di Claudia Zonghetti, Adelphi 2022, pp 982 euro 16,00 stampa