Il futuro della scienza e la scienza del futuro. Conversazione con Roberto Paura

I Futures Studies secondo Roberto Paura si occupano di futuri plausibili, possibili o preferibili. Sempre comunque al plurale perché la scienza che ha sostituito la religione e forse la fantascienza dipende dalle scelte che emergono dalla società per quanto riguarda il suo futuro.

L’Italian Institute for the Future è un’associazione no profit con sede a Napoli che nasce otto anni fa con lo scopo di studiare, beh.. il futuro, anzi i futuri al plurale perché il tempo che verrà – come recita la scheda istituzionale –  è sempre aperto alle scelte individuali e collettive che verranno prima di lui. In particolare, l’IIF si interessa attraverso progetti di ricerca internazionali e per conto di enti pubblici e privati di tre tipi di futuri: quelli plausibili, quelli possibili e quelli preferibili. Si chiamano Futures studies e non vanno confusi. “Futuri” è anche , manco a dirlo, il nome della loro pubblicazione.
Il fondatore Roberto Paura,  35 anni, è l’autore di diversi libri che spaziano dalla Singolarità alla Cosmologia quantistica, dall’Antropocene alla Speculative Fiction. Essendosi il futuro oggi praticamente  autoinvitato alle nostre congreghe sotto forma di crisi ambientale, pandemica, sistemica ed essendo la risposta a tutte le nostre domande invariabilmente una – “la scienza” – sembra anche la persona giusta per confrontarsi. E per riprendere il filo di un discorso sui saperi e le nostre società cominciato qualche tempo fa con questa conversazione con Pietro Greco, decano del giornalismo scientifico italiano,  nel frattempo purtroppo scomparso,  e con questa riflessione sul pensiero della filosofa femminista Isabelle Stengers, che recentemente ha fatto sentire chiara e forte la sua voce su scienza e politica nell’età del Covid.


PULP: La prima domanda è un po’ ingenua, ma arriva spontanea. Ti occupi di futures studies, hai dato vita a un istituto di futurologia, hai scritto diversi libri che parlano del futuro (Segnali dal futuro, 2016;  Futuro in Progress, 2014), in breve: sei un futurologo, un termine che a me richiama invariabilmente alla memoria Roberto Vacca, il primo a definirsi tale in Italia, molti anni fa. Cosa vuol dire oggi essere un futurologo? 
RP: Sul termine, di recente in Italia abbiamo proposto di sostituirlo con “futurista”, anche se è una soluzione non proprio felicissima, perché la traduzione dell’anglosassone futurist qui da noi si scontra con particolari connotazioni. Per cui utilizziamo entrambi i termini un po’ come viene. Nei fatti, un futurologo o futurista si occupa di studiare i megatrend e i fenomeni emergenti, i cambiamenti che potrebbero avvenire nel futuro, e di produrre scenari sulla base di questi elementi: scenari di plausibilità o di preferibilità, a seconda della situazione, che possono essere utilizzati poi da enti e aziende per rafforzare i loro processi di lungo termine e renderli “a prova di futuro”.

Roberto Paura (Italian Institute for the Future)

PULP: La narrazione del presente rivelato attraverso il futuro una volta era una prerogativa della SF, con il cyberpunk questo diaframma temporale è diventato sottilissimo, poi la SF è piombata nel nostro percepito quotidiano sempre  “più tecnologico”,  con metafore come il cyberspazio, la realtà aumentata, etc Oggi la narrazione del futuro è apparentemente monopolizzata dalla scienza che in questo sembra diventata del tutto autonoma. Penso a Kauffman, Rovelli, Sean Carroll, Merlin Sheldrake, etc.  Da quando lo stato delle cose ha assunto questa configurazione?
RP:  È un monopolio tecnologico primo ancora che scientifico, vale a dire che la prima cosa che viene in mente quando si usa la parola “futuro” è qualcosa di tecnologico: una volta erano le auto volanti, oggi le megalopoli fatte di grattacieli (come appunto nell’immaginario cyberpunk), l’intelligenza artificiale o la realtà virtuale. La tecnoscienza rappresenta, per il mondo contemporaneo, ciò che era la religione nella Cristianità medievale: il dominio che forgia i nostri processi sociali e culturali, i modelli di pensiero e, in breve, l’intera civiltà. Ciò dipende dal fatto che la scienza ha successo, nel senso che è ciò a cui facciamo affidamento per risolvere ogni nostro problema. All’epoca della peste, si attendeva che il flagello passasse pregando e facendo penitenza. Oggi, si sviluppano terapie e vaccini con cui debellare la pandemia; il confronto è impietoso. Da questo punto di vista è sbagliato dire che viviamo nella post-modernità, se per post-modernità intendiamo un’epoca in cui le “grandi narrazioni” sono venute meno: il successo della scienza come grande narrazione è innegabile, nonostante spesso sia contestata, ma da frange del tutto minoritarie. Questo spiega anche il successo della divulgazione scientifica come genere letterario, poiché esso di fatto contribuisce a diffondere la grande narrazione della scienza. La fantascienza ci aiuta d’altro canto a percepire i lati oscuri del progresso tecno-scientifico: prima del cyberpunk lo hanno fatto altri, che hanno direttamente influenzato il modo in cui i futures studies riflettono sulla tecnoscienza, con un approccio cioè attento alle conseguenze sociali e agli effetti di lungo termine.

PULP: In effetti il rapporto tra scienza e tecnologia da qualche decennio sembra invertito rispetto al senso comune. L’agenda è definita direttamente dal progresso tecnologico, ad es.  le reti neurali e il deep learning – resi possibili negli anni ‘00 dalla legge di Moore e dalla crescita della potenza di calcolo – hanno prodotto un gold rush intorno all’AI, con una fiorente letteratura di studi cognitivi, neuroscienza, filosofia morale, etc., e con i media che annunciano come in un talent show  l’imminente, spettacolare resa dei conti tra opposte teorie sull’ origine della coscienza, ITT (teoria dell’informazione integrata) contro GWT (Global Workspace Theory). Ad esempio, a leggere Nick Bostrom o anche Susan Schneider, il mondo di Skynet o almeno l’upload della mente sembrano dietro l’angolo.  Il transumanesimo è il sintomo o la prospettiva verso cui siamo incamminati?
RP: Il sintomo più che la prospettiva, nonostante il parere di molti futurologi, secondo i quali la fusione con le Macchine sarà il nostro destino. È indubitabile che una delle priorità di questa prima metà del secolo sia quella di individuare nuove forme di “dialogo” tra umani e macchine, vale a dire strumenti attraverso cui l’interazione diventi win-win e non completamente sostitutiva della capacità umana. Pensare però che l’unica soluzione consista nell’affidarci ciecamente alle macchine, al punto magari da trasferire la nostra coscienza nei computer (qualsiasi cosa significhi, dal momento che qui siamo nel reame della fantascienza più radicale), è ingenuo. Il transumanesimo svolge una diagnosi corretta, ma sbaglia completamente la terapia: questo è il sogno dei tecno-utopisti della Silicon Valley, che non coincide con quello del resto dell’umanità.

PULP: In un articolo di qualche anno fa, “L’era della scienza iperreale”,  osservavi che la divulgazione scientifica  – con quello che ne consegue anche per la cultura pop e fenomeni tipo Big Bang Theory  – era diventata il soft power di qualsiasi teoria scientifica, con una ricaduta anche in termini di visibilità, investimenti, etc.  In che misura pesa oggi? Per fare un esempio scherzoso, nel caso di un’interpretazione della fisica quantistica, quella di Bohm è stata penalizzata dalla mancanza di showrunner  o di buoni autori come Rovelli rispetto a quella relazionale o ai multiversi?
RP: Mi sembra un’ipotesi plausibile. Qui non siamo nel novero delle teorie empiricamente verificabili, ma delle proposte di natura principalmente filosofica. È difficile ipotizzare esperimenti che possano dimostrare che la meccanica bohmiana è sbagliata o che l’interpretazione relazionale sia quella corretta. Di recente è stato svolto un test sull’ipotesi di Roger Penrose del ruolo della gravità nella riduzione quantistica (ipotesi che ne è uscita parzialmente confutata), ma è stato possibile solo perché Penrose si era perlomeno sforzato di immaginare prove sperimentali per verificarla. La maggior parte dei fisici teorici che opera nei settori di frontiera delle teorie di gravità quantistica, per esempio, non si pone affatto questo problema, e ha anzi aderito a una proposta provocatoria, quella della “scienza post-empirica”, per mettersi al riparo dall’accusa di avanzare teorie indimostrabili. In tale contesto, la divulgazione scientifica diventa uno strumento potente, perché veicola queste idee nel grande pubblico proponendole come reali e senza rendersi conto che in tal modo si finisce per sfumare quel confine già di per sé labile tra scienza e pseudoscienza che è la nostra barriera contro l’irrazionalismo.

PULP: Nello stesso articolo rispetto alla fisica che chiami iper-reale o, diciamo,  “post-popperiana”, che produce teorie non falsificabili, osservavi citando Baudrillard che il mondo scientifico se da un lato doveva distinguersi dalla pseudoscienza e dal relativismo dall’altro doveva comunque fare i conti con la condizione postmoderna, rassegnarsi a essere a sua volta un simulacro.  Nell’intreccio dell’oggi sembra una distinzione per lo meno sottile..
Rispetto ad allora ho cambiato in parte le mie idee. Non credo che la scienza debba rassegnarsi alla condizione postmoderna, ma certamente comprendere di esserne parte integrante, ossia prendere coscienza di una situazione che chi fa parte della comunità delle “scienze dure” spesso rifiuta di accettare: non è possibile distinguere tra “noi” e “loro”, dove “loro” è il pubblico, l’insieme dei non addetti ai lavori, pensando che sia possibile distinguere tra un contenuto scientifico pienamente valido e uno “distorto” dal processo di trasferimento e adattamento di quel contenuto nella cultura di massa. Piuttosto, ci troviamo di fronte a un continuo processo di co-creazione della conoscenza scientifica che, nell’attuale contesto postmoderno, produce non poche storture, tra cui quelle citate prima. Ma l’opzione un po’ nichilista che suggerivo (accettarlo e andare avanti) mi sembra oggi errata: i fatti recenti ci mostrano che è possibile contrastare efficacemente la post-verità e quel cortocircuito tra fatti e finzione che genera l’iper-realtà di Baudrillard. Si tratta di insistere e trovare gli strumenti giusti per riuscirsi. Non siamo condannati a passare da un livello all’altro della simulazione: possiamo ritrovare la strada per il livello base della realtà. 

PULP:  La fisica è stata in più di un senso “la” scienza del 20esimo secolo. Alla luce delle nostre attuali priorità di specie – cioè come minimo con una crisi ambientale e una pandemica in corso – su che candidato punteresti le tue fiches se dovessi scommettere  per questo secolo?
RP: Da tempo si dice che nel XXI secolo la biologia (e in particolare la genetica) saranno ciò che la fisica è stata per il XX: l’ossatura di un’epocale rivoluzione tecnologica. Credo che le premesse ci siano tutte, anche se l’eccessivo hype emerso intorno alla mappatura del genoma umano, completata nel Duemila, ha creato una bolla dalle conseguenze ancora da esplorare. Di sicuro la fisica è entrata in una fase di crisi che proseguirà ancora a lungo. Quanto alle neuroscienze, gli enormi investimenti in questo settore (pensiamo allo Human Brain Project e alla BRAIN Initiative) finora non hanno prodotto gli esiti sperati, segno forse di un paradigma sbagliato. Quindi, continuerei a puntare sulla biologia e sulla possibilità che arrivi a comprendere dettagli del funzionamento degli esseri viventi oggi ancora sconosciuti, in grado di rivoluzionare la salute umana, migliorare la produzione alimentare, ma anche, perché no, offrire soluzioni radicalmente innovative per la tecnologia, come suggeriscono i progetti di biomimesi. Pensiamo alla possibilità di imitare la fotosintesi, il più efficiente processo di estrazione dell’energia che esista in natura!

PULP: Si cita spesso la frammentazione della ricerca scientifica – intendendo con questo le differenze non solo procedurali ma anche nella creazione degli apparati, nei meccanismi di funding, di selezione dei team, etc – in che misura è oggi un problema reale per il progresso scientifico?
Viviamo in una società complessa, per cui un certo grado di specializzazione è inevitabile. Anzi, la specializzazione è lo strumento che la civiltà umana ha saputo utilizzare per realizzare gli straordinari balzi in avanti della sua lunga storia. Detto ciò, a preoccuparmi sono vari aspetti tra quelli che hai citato. Intanto occorre che le agenzie di finanziamento della ricerca abbiano, a differenza dei team di ricerca, una visione interdisciplinare, per meglio definire gli obiettivi e soprattutto un’agenda di lungo termine, che invece il ricorso alla retorica dell’urgenza nelle politiche della ricerca impedisce. Occorre anche trovare, appunto, modi per incentivare programmi di ricerca speculativi, su cui non c’è certezza di risultato o almeno nessuna certezza di ritorno sul breve-medio termine. I criteri di selezione nel mondo della ricerca producono effetti distorsivi a tutti ormai ben noti: ricorso a strumenti meramente quantitativi per misurare l’impatto di una ricerca o di un ricercatore, scarso incentivo all’innovazione, prosecuzione inerziale di piste di ricerca ormai infruttuose, burocrazia enorme che richiede tempi crescenti da destinare alla redazione dei bandi e al monitoraggio delle attività anziché alla ricerca. Tutto ciò rappresenta un serio ostacolo all’avanzamento dell’impresa scientifica.

PULP: Il tema della competenza, dei competenti come classe, governo, etc. ha attraversato la stagione populista, è esploso in quella pandemica ma arriva da piuttosto lontano. Nella società weberiana il patto con la burocrazia e con la classe dei “competenti” è più o meno faustiano, non si può recidere perché non si può scendere dal treno in corsa e occorre in ogni caso fidarsi.  Oggi sembra di assistere a un trade off: da un lato “il popolo” abilitato  dalle tecnologie dell’ empowerment, dagli strumenti di condivisione,  dalla rete, etc. è più fiducioso nei suoi mezzi. Dall’altro “le élite”, si rafforzano, legittimate dalla polarizzazione emergenziale, dal sapere scientifico come valore non negoziabile e forse come unica narrazione sociale possibile. Con ovvie ricadute sulla politica, penso al discorso di Cingolani sulla fissione nucleare ma ovviamente non solo.  Questo dove ci porta nel medio termine?
È un punto essenziale, che caratterizza l’epoca in cui viviamo. A me persuade il concetto di “scienza post-normale” coniato negli anni Novanta da Silvio Funtowicz e Jerry Ravetz (segnalo per inciso che nell’ambito dei futures studies è stato esteso di recente da Ziauddin Sardar attraverso il concetto di postnormal times). Esistono degli argomenti che non si esauriscono nel mero dato scientifico, ma per i quali bisogna considerare le legittime aspettative delle persone che ne sono coinvolte. Per esempio, è un fatto che i rischi di una centrale nucleare sono del tutto trascurabili, ma le persone che vi abitano nelle vicinanze la penseranno diversamente e hanno il diritto di sperare di non averne una sotto casa. È un fatto che gli OGM non comportino alcun rischio per la salute umana, ma non si può negare ai cittadini il diritto al cibo che preferiscono né si possono ignorare gli impatti economici per gli agricoltori tradizionali. Quando, all’inizio, accennavo ai rischi di una scienza trasformata nell’unica “grande narrazione”, applicabile acriticamente a qualsiasi questione, avevo in mente questi problemi. Al contrario, i futures studies hanno da sempre avuto un altro approccio, perché nell’affrontare uno specifico tema non considerano mai solo un aspetto (per esempio quello meramente tecnico-scientifico), ma tengono conto anche degli aspetti sociali, politici, economici, ambientali, e li incrociano per costruire scenari realistici. In tal modo diventa possibile immaginare futuri plurali e inclusivi, dove le scelte non sono relegate a un élite tecnocratica, ma dove al tempo stesso non si abdica al relativismo più estremo, ma il dato scientifico oggettivo continua a essere l’imprescindibile punto di partenza, l’ancoraggio con la realtà. Se riuscissimo ad ampliare questo framework a tutti i punti di frizione tra sapere esperto e società, potremmo legittimamente nutrire maggiore ottimismo sulla possibilità di vincere le grandi sfide del XXI secolo.

PULP: Ma la conoscenza scientifica diciamo “di base” è effettivamente cresciuta negli ultimi anni? Era un punto molto caro a Pietro Greco. E se sì che ruolo hanno in questo la rete e i libri di divulgazione scientifica?  Penso ad esempio alle decine di titoli usciti sulla scia della pandemia, un fenomeno cominciato con la riscoperta di “Spillover” e di Quammen e approdato ai librini da talk show.. C’è qualche esempio positivo che ti viene in mente?
RP: I dati dimostrano che l’alfabetizzazione scientifica è in crescita da decenni. Diverso è invece il discorso sulla fiducia nella scienza. Diversi sondaggi dimostrano che in molti paesi occidentali i livelli di fiducia calano, spesso su base generazionale. Quindi non c’è un legame diretto tra aumento della conoscenza scientifica e aumento del consenso nei confronti della scienza, come invece si è a lungo creduto. Il fenomeno dell’infodemia può aver avuto un ruolo in tutto questo, ma ho il sospetto che dipenda piuttosto da errori di approccio da parte della comunità scientifica nel gestire quei temi di scienza post-normale a cui ho accennato prima. Spesso gli esperti hanno spacciato per verità assolute questioni che invece meritavano maggiore approfondimento, e questo ha eroso la fiducia nel sapere esperto. 

Nell’ambito della comunità dei comunicatori e divulgatori scientifici se ne discute da anni ed esiste un ampio consenso sul fatto che l’atteggiamento à la Burioni, per intenderci, abbia fatto più male che bene (egli stesso, comunque, se n’è poi reso conto e ha corretto il tiro). Siamo di fronte a una divulgazione della scienza fatta bene quando si presenta, più che il risultato, il metodo scientifico: allora si dà al lettore, o allo spettatore, modo di capire come l’esperto sia arrivato ad acquisire certe convinzioni. Quando invece si presentano queste convinzioni con un approccio top-down, non ci si può meravigliare se la ricezione diventi poi problematica. Penso agli straordinari esempi di Isaac Asimov, da cui abbiamo ancora molto da imparare.

PULP: Partendo ancora dal Covid, Isabelle Stengers, filosofa femminista della scienza, che personalmente ho imparato ad apprezzare, non l’ha messa giù piano:  “Quando si attiva “la scienza” per sostituirsi a un processo di pensiero collettivo con le persone, si perde i tre quarti dell’intelligenza e la si sostituisce con una buona dose di stupidità, di soddisfazione e di finzione.  (…) È un processo profondamente vizioso. E quello che è grave è che a causa di ciò si può facilmente perdere fiducia nelle scienze che invece potrebbero avere qualcosa di interessante da dirci di fronte a questa pandemia.” Questo lo abbiamo visto purtroppo a più riprese nell’ultimo anno…la “scienza” evocata come il mago di Oz da una politica debole o non inclusiva, che produce scetticismo diffuso.  E’ il rischio che corriamo nei prossimi anni?
RP: Quello fotografato da Stengers è sicuramente un problema, che dipende dal fatto di confondere mezzi e fini. Ciò che chiamiamo “scienza” è, essenzialmente, un metodo, il metodo scientifico appunto, che ci serve a estrarre dati e informazioni sulla realtà. Dopodiché, cosa farne di questi dati e informazioni è una decisione che non attiene al metodo scientifico, ma ai processi decisionali, di qualsiasi tipo. Per fare un esempio, l’orario dei treni è un set di informazioni su cui mi baso per decidere come andare da Napoli a Milano; senza questi dati, non potrei assumere tale decisione. Ma i dati, in sé, non definiscono la mia decisione, al massimo pongono delle condizioni al contorno. Peraltro, potrei sempre decidere, sulla base di queste condizioni al contorno, di prendere l’aereo o l’auto. Quando invece si usano i dati per suffragare la retorica del there is no alternative (per esempio, dicendo che in base a questi orari non ho alternative che prendere il treno delle 8.30), si spacciano i mezzi per il fine e si nasconde la politica dietro la tecnica. Anche nel settore dei futures studies spesso si crede che la big data analysis o altre metodologie quantitative siano sufficienti, di per sé, per elaborare previsioni, spesso nascondendo i propri bias e assunti di partenza dietro l’esattezza del dato. Questo non vuol dire che dobbiamo cedere al relativismo estremo e fare a meno dei dati, come vorrebbero magari i negazionisti del Covid. Significa ricordare che da un dato univoco e oggettivo si possono assumere scelte plurali e soggettive. L’approccio standpoint del femminismo dice proprio questo: c’è una realtà oggettiva, là fuori, che ciascuno percepirà in misura diversa a seconda del proprio punto di vista “situato” (per esempio dipendente dal fatto che vivo a Napoli anziché a Milano). Se si perde di vista questo concetto si costruiscono politiche impersonali e alienanti il cui unico esito sarà quello di incoraggiare spinte centrifughe e antipolitiche.