È una ben povera memoria quella che funziona solo all’indietro.
Lewis Carroll
Alzi la mano chi ha fatto politica negli anni ’70 e non ha fra i suoi libri “Dynamite. La storia della violenza di classe in America” di Louis Adamic.
Certo, Andrea Olivieri precisa che l’edizione del “Collettivo Editoriale Punti Rossi” (che è ancora l’unica ad essere disponibile in italiano) è inaccurata e zeppa di errori. Eppure questo libro insieme alle ricerche della “sezione internazionalista” degli operaisti italiani (Gambino, Rawick…) e dei collaboratori della rivista Primo Maggio (come Cartosio) è stato fondamentale per chi andava alla ricerca di una storia materiale dei comportamenti operai che andasse fuori dalla tradizione che le organizzazioni operaie novecentesche trasmettevano e legittimavano e per vedere gli Stati Uniti dall’interno al di là di ogni appiattimento e semplificazione antimperialista.
Ora Louis Adamic torna nel romanzo fiume di Andrea Olivieri che alterna le vicende umane e politiche dell’autore e militante americano di origine slovena a quelle della propria famiglia operaia e resistente che molto ha avuto a che fare con la ex-Jugoslavia. Olivieri manca il “sesto grado di parentela” perché non ci sono le prove che Adamic abbia interagito in qualche modo con i nonni di Olivieri Albano e Leda. Ma le storie sono intrecciate – ci dice Olivieri – perché sono fatte della stessa materia di comportamenti e sogni operai, per quanto “sporchi”, incompatibili e sconfitti siano stati.
Il libro di Olivieri ripercorre con grande finezza tutte le contraddizioni e i drammi della vicenda dei confini Est fra l’Italia e la Jugoslavia, una storia che inizia da lontano, funziona da sostrato ideologico alle leggi razziali del fascismo (annunciate a Trieste nel 1938) e ancora ci riguarda da vicino (basti pensare alla sciagurata ipotesi di costruire un nuovo muro alla frontiera con la Slovenia per cercare di sigillare la rotta balcanica dei migranti tenendoli fuori dai confini europei).
Su questo rimandiamo sia alla lettura del libro, naturalmente, sia all’accurata recensione di Anna Di Gianantonio, studiosa della questione, che (qui) ribadisce e dà ragione della ricostruzione di Olivieri che, da parte sua, si definisce uno storico “scalzo”, perché più interessato a cercare una verità che rimanda alla prassi, a ciò che ancora vive e attende risposta e giustizia, piuttosto che a ciò che è già sistemato e immodificabile. Gli storici “scalzi” hanno anche l’audacia di voler prendere parola e occupare un posto riservato alle accademie senza paura di mescolare i generi della fiction (in questo caso assolutamente documentata) e della Storia con le biografie e le relazioni familiari e affettive che Olivieri trasmette al lettore con pudore raro.
“Una voce insistente, imperiosa, (…) una voce cui non potrete sfuggire” chiamerà “voi lavoratori, schiavi del salario”, la voce di “un movimento che avrà inizio nel lontano passato, una cosa oscura senza pregio”. Lo scrive Upton Sinclair ne La Giungla, (qui un approfondimento) ed è il titolo del romanzo di Andrea Olivieri che si è messo all’ascolto del rumore e delle esplosioni delle lotte operaie e del desiderio di comunismo che le hanno percorse nel lungo secolo degli assalti al cielo. Il libro di Olivieri è un levare degli strati morti dei confini dati, un immettere aria e vita nella storia ufficiale (anche dei partiti comunisti) che hanno ingabbiato e soffocato i movimenti, le decisioni, le passioni di soggettività, popolazioni, operai, donne che di quella storia hanno cercato di piegarne gli esiti.
Una storia, dunque, che travalica le frontiere e si intreccia con le stesse mostrando ancora una volta quanto i confini siano una durissima messa in forma da parte degli Stati e del capitale sui corpi di chi quei confini rifiuta riconoscendo piuttosto l’internazionalismo delle proprie istanze di giustizia o di chi le frontiere cerca di attraversale anche oggi drammaticamente.
Non è un caso, ma è invece centrale, che il libro si chiuda con un atto di disobbedienza del narratore che aiuta una famiglia di richiedenti asilo siriani, ad attraversare “clandestinamente” la frontiera dalla Bosnia verso l’Italia e l’Europa. Una decisione che ricollega direttamente Olivieri ai nonni che, insieme a moltissimi operai dei Cantieri di Monfalcone, quel confine avevano inversamente attraversato alla ricerca del socialismo e della giustizia sociale lì dove sembrava stesse nascendo, all’epoca della rottura del Cominform nel 1948 e dei contrasti fra Stalin e Tito. Al di là, quindi, di ogni appartenenza nazionalistica, si va dove si pensa e si spera di stare meglio e di avere più giustizia (come fanno i milioni di migranti ogni giorno). La molla che ha spinto anche il giovanissimo Adamic partito per gli Stati Uniti nel 1914 subito dopo una manifestazione repressa nel sangue in quello che era ancora l’Impero Austro-ungarico.
E veniamo al cuore di ciò che fa questione in questo libro. Vale a dire la memoria e la sua trasmissione. Che ce ne facciamo della memoria? È davvero trasmissibile o è una partita persa? Perché è sottinteso che il senso di un lavoro come quello di Olivieri è proprio la trasmissione di una memoria e delle pratiche che sottintende. A questa domanda cruciale Andrea Olivieri e il suo romanzo sembrano rispondere sì, la memoria è trasmissibile, un fiume carsico riemerge e la trascina avanti. Gli sfruttati la riconoscono e la rivivificano. Il nonno (e la nonna) sono stati partigiani e internazionalisti, il figlio va a Genova nel 2001 con il nipote (Andrea), che a sua volta solidarizza con i migranti.
Un altro libro – molto bello – appena uscito, e che ha purtroppo una distribuzione ridotta, pone al centro la trasmissione della memoria, in questo caso da uno zio partigiano alla nipote della generazione della Pantera che fa una ricerca universitaria sulla resistenza a Genova. Si tratta di Behind the lines. La partita impossibile (199-91) di Manlio Calegari.
In questo caso la trasmissione della memoria non passa il testimone. Le due generazioni dei resistenti e della Pantera si incontrano ma non si comprendono, nonostante abbiano ben chiaro quanto sia terribile e ingiusto il mondo dopo la caduta del muro di Berlino. Il libro di Calegari è un libro “controrivoluzionario” nel senso che il protagonista, il partigiano Alba, constata che i secoli delle rivoluzioni, l’Ottocento e il Novecento, non sono riusciti a dare una risposta sulla quantità di ingiustizia necessaria per fare il bene dell’umanità. Una porta stretta che lui stesso – nella sua esperienza partigiana – si è assunto l’onere di attraversare, pegno da pagare alla necessità etica di aver scelto la parte giusta dove stare. Marco Codebò (nella sua recensione su Pulp) azzarda una risposta molto interessante su questa impossibilità scrivendo che “ai giovani come Felicita manca un rapporto col territorio, arte di cui Alba e compagni sono invece maestri. E infatti Behind the Lines è un romanzo topologico, un racconto di luoghi unici per storia, cultura e geografia. A ognuno di essi corrispondono relazioni particolari fra i personaggi, un’attività specifica e una lingua. (…) Alba e i suoi amici riescono a resistere, dal 1944 in poi, perché abitano posti che stanno in sintonia con la loro soggettività, quel che manca ai compagni di Felicita, ridotti alle quattro mura dell’Istituto di Storia.” Aggiunge Codebò che “resistere” viene dal latino “sistere”, in italiano fermare, fermarsi, verbi privi di senso senza presupporre un posto su cui appoggiarsi. Ciò che manca al lavoro astratto ai tempi della globalizzazione. La “generazione di Felicita, (…) non resiste perché non sta da nessuna parte”. Siamo a uno dei “nodi del secolo: come si possa oggi coniugare la mobilità del lavoro vivo con la radicalità della resistenza”.
Tornando al libro di Olivieri, sicuramente un rapporto con il territorio, una conoscenza perfetta delle linee di attraversamento delle frontiere è ciò che caratterizza l’esistenza e la resistenza di chi in quelle zone sosta o pratica una qualche forma di solidarietà.
Si potranno unire le due forme di r/esistenza?