Grandi opere, piccole idee

Il fallimento di Grandi Opere di UTET

Mentre si moltiplicano i telegrammi di cordoglio – cioè gli unici telegrammi, rigorosamente online, ancora in circolazione nel 2020 – per il fallimento di FMR – Utet Grandi Opere, leggiamo nell’ultimo post della loro pagina Facebook (il sito è già stato disconnesso) la seguente massima di Oscar Wilde:

“È assurdo immaginare una regola per cosa si dovrebbe leggere e per cosa non si dovrebbe leggere. Si dovrebbe leggere tutto. Più della metà della cultura moderna dipende da cosa non si dovrebbe leggere”.

Un viatico, come è stato notato, forse già presago della fine imminente che forse, non troppo maliziosamente, si può anche leggere  come: “Se finora non ve n’è mai fregato niente di leggerci, perché dovrebbe fregarvene proprio adesso che chiudiamo?”.

Già, in effetti, perché? In un Paese che non legge ma si ostina a pubblicare 61.000 e passa libri ogni anno, Utet Grandi Opere è quella che si definisce un’istituzione culturale, anzi la più antica nel suo genere, una di quelle cose per le quali, in seguito a crolli o cedimenti periodici, il Ministro Franceschini è solito a invocare l’intervento della Cassa Depositi Prestiti. Salvataggio pubblico che, detto per inciso, nel caso specifico appare sensato e persino auspicabile, se non altro per la particolarità e la ricchezza del patrimonio (FMR compreso).

A scanso di equivoci: il catalogo Utet, inteso come giuridica, saggistica e segmenti commercialmente rilevanti, marchio UTET compreso, è stato da tempo incamerato nella cassaforte De Agostini, patron della ditta fino all’altro ieri, scaricando in seguito le Grandi Opere come un’amante attempato al gruppo FMR – Artè, eccellenza dei libri di qualità artigianale, a confluire in seguito nel marchio Cose belle d’Italia. Di lì in poi, le “sinergie”, lo spostamento della sede da Bologna a MIlano, i tagli del personale, i “piani di rilancio”, le mostre futuribili in realtà aumentata, i comunicati allarmati di CGIL e CISL, tutto secondo copione. In questi giorni il linguista Raffaele Simone è uscito dal silenzio per denunciarne i “gravissimi errori di gestione”, compresi, pare di capire, il trattamento riservato agli illustri collaboratori e una nuova sede di più modesto lignaggio.

Se i suoi volumi – la quintessenza stessa di una divulgazione lussuosa e ricercata, oggi inevitabilmente pop, vanno a ruba, anche a botta di migliaia di euro, sugli scaffali virtuali di eBay, per diverse generazioni di italiani le Grandi Opere sono state soprattutto sinonimo di vendita rateale e porta a porta. Le sue splendide enciclopedie, promessa di un’identità borghese e di un’ascesa familiare finalmente a portata di mano e di portafoglio, nel periodo che andava dagli anni Cinquanta ai Settanta non avevano confronti, se non quello, tutto ideologico con i rateali di Teti e dell’Accademia Sovietica, sottoscritti dalle famiglie comuniste (ma per lo più nel circuito dei Festival de l’Unità).

Parlare di enciclopedie (“Dimmi chi era Treccani…”) e di porta a porta, oggi, è appunto come parlare di telegrammi. Se il salvataggio di Grandi Opere poi ci sarà ci aspettiamo quindi un revival di retorica sui “giacimenti culturali” (copyright De Michelis, anni Ottanta) in chiave ovviamente digitale. Niente di nuovo, purtroppo, se non la difesa indignata e fuori tempo massimo dell’esistente, nobilitato dopo decenni di abbandono. E la puntuale evocazione di un futuro sempre e comunque inteso come mera conservazione.

Eppure, in Italia seppur si è letto poco, si è letto e c’è stata una generazione, subito dopo quella delle enciclopedie, – oggi golosamente guatata dal Covid – che si è fatta le proprie biblioteche per la prima volta non ereditate da pochi privilegiati. Si facevano così, come capitava, comprando i libri a rate, facendosi rimborsare con i libri in cambio del porta a porta, rubandoli nelle librerie Feltrinelli (sempre benedetti siano per esser stati allora i maggiori divulgatori democratici di sapere), ricevendoli come regalo di matrimonio (si dice che Franco Basaglia abbia ricevuto per il suo l’opera completa di Sartre in 21 volumi! Una cosa che può atterrire). Queste biblioteche che adesso i figli non vogliono più, che malinconicamente riempiono i banchetti delle fiere letterarie o che finiscono su eBay se non nei cassonetti, dicono anche di UTET più di qualunque lamentazione. La “razza” dei boomer che ancora aspetta l’antropologo giusto, per essere studiata, oltre a qualche idea per cosa farsene oggi delle loro biblioteche.