Lea ha 11 anni quando abbraccia le gambe della monumentale statua di Stalin mentre passa una manifestazione che grida “libertà”. Siamo in Albania nel 1990, all’inizio della fine del comunismo. Lea alza lo sguardo alla ricerca del bonario e rassicurante sorriso di Stalin e si accorge con stupore che la testa di Stalin non c’è più. Qualcuno l’ha tagliata via: scena vivida che concentra tutto il senso del libro di Lea Ypi scritto in uno stile brillante, leggibilissimo, pieno di umorismo e di un’ironia acuta ma rispettosa delle persone.
Lea – da bambina intelligente, seria, assolutamente convinta che quel che le insegna la maestra Nora sia indiscutibilmente vero – comincia con sé stessa un dialogo sulla libertà nel suo rapporto con la realtà (e quindi la verità) che fa da filo conduttore a tutto il memoir. Subito si risponde con la meravigliosa sicurezza dei bambini amati e sereni: “Non avevo mai pensato granché alla libertà. A quale scopo? La libertà non ci mancava. Anzi, io mi sentivo così libera che a volte la libertà mi sembrava un peso, e di tanto in tanto, come quel giorno, una minaccia.”
Una volta corsa a casa, e ascoltate le reticenti spiegazioni da parte della famiglia su cosa stesse succedendo, per Lea inizia un periodo di confusione abbacinante: tutte le sue certezze vanno in frantumi, non sa più a chi rivolgersi e a chi dare retta. Scopre che la sua famiglia è stata perseguitata a causa dell’origine altoborghese e intellettuale, che una delle motivazioni del matrimonio dei suoi genitori era la condivisione di una biografia simile, sospetta per il regime, che determinava i limiti della loro vita: l’indirizzo di studi, un lavoro obbligatorio, il non potersi iscrivere al partito (che non era un partito di massa e i cui quadri venivano cooptati), l’apparire sempre infidi e in dovere di mostrare la propria lealtà.
Conosciamo così la straordinaria famiglia di Lea. Straordinaria perché non comune per ascendenze e straordinaria per la personalità di ciascuno dei suoi membri, resa in modo impareggiabile dalla scrittura di Ypi .
Quando parlava della rivoluzione in generale, mio padre si infervorava come la nonna con la Rivoluzione francese. Nella mia famiglia avevano tutti una rivoluzione preferita, così come avevano un frutto che prediligevano su qualsiasi altro. La mamma andava matta per l’anguria e per la Gloriosa Rivoluzione inglese. Io preferivo i fichi e la Rivoluzione russa. Papà sottolineava sempre di simpatizzare con tutte le rivoluzioni, ma la sua preferita era quella che non era ancora accaduta. Il suo frutto erano le mele cotogne, anche se le mangiava di rado, perché rischiavano di strozzarti se non erano mature. La nonna invece aveva una passione per i datteri; da noi erano pressoché introvabili, ma lei ricordava ancora (…)
Nel 1990 le cose cambiano repentinamente, tutti i punti di riferimento crollano, ma anche le reazioni dalla nonna non sembrano essere del tutto rassicuranti. “A volte pensavo che le nostre leggi fossero ingiuste e i nostri governanti crudeli. Altre mi veniva il dubbio che la mia famiglia avesse meritato le punizioni che aveva subìto. Se era vero che amavano la libertà, come avevano sopportato di avere della servitù? Chi crede davvero nell’uguaglianza non può essere così ricco. Ma la nonna disse che anche loro avevano cercato di cambiare la società. Il nonno era socialista; aveva respinto i privilegi che gli sarebbero spettati per nascita.” ‘Ma allora perché l’hanno arrestato?’ obiettai io. ‘Doveva pur aver fatto qualcosa. Gli innocenti non vanno in prigione'”. La risposta della amatissima nonna è acuta: “È per colpa della lotta di classe”, “La lotta di classe è sempre sanguinosa. Non importa da che parte stai.”
Lea continua a rimuginare e a non dare tregua ai suoi: dare retta al paese dove era cresciuta, alla sua maestra, o alla sua famiglia? Perché non le avevano detto niente del loro passato e delle loro convinzioni? E se la situazione non fosse cambiata avrebbero continuato a mentirle? A far finta di amare lo “zio Enver” ma a trovare sempre una scusa per non mettere sulla televisione un ritratto incorniciato di Oxa?
Se nel 1990 gli Albanesi sono pieni di speranza, non così succede nel 1997 durante la “guerra civile albanese” (duemila morti) quando vanno a picco le società finanziarie sorte come funghi e la gente (compresa la famiglia di Lea) perde tutti i propri risparmi. I media occidentali – secondo una prassi consueta – si affrettano ad attribuire la guerra al presunto carattere animoso intrinseco alle diverse etnie albanesi o a differenze religiose, guardandosi bene dall’indicare le cause nel crollo di un sistema economico e nelle conseguenze di una road map iperliberista che secondo Lea Ypi è stata accolta in Albania senza una capacità critica adeguata.
Ne sa qualcosa il padre di Lea, che si ritrova a essere il manager del porto di Durazzo subendo continue pressioni affinché licenzi i lavoratori zingari, e dovendo constatare amaramente che la libertà non è accompagnata dalla solidarietà; ne sa qualcosa la madre che, a differenza del padre e della nonna, è assolutamente convinta dal liberismo e della necessità di una terapia d’urto per poter avere un futuro migliore. Questa madre, così convintamente liberista, improvvisamente un giorno decide, senza avvisare nessuno, di salire su una barca con il figlio piccolo per andare in Italia lasciando anche l’organizzazione politica che aveva fondato. Una scelta per tanti versi imperscrutabile e improvvisa che ricorda nelle modalità il film Anija – La nave, di Ronald Seiko, quando le persone a migliaia si dirigono verso il porto, chi con la borsa della spesa in mano, chi in ciabatte, a gruppi o sole senza voltarsi indietro o pensare di avvisare i propri cari. A Roma la madre farà la badante e la domestica mentre i suoi fratelli in Albania si impegnano in una estenuante causa per riavere le proprietà di prima dell’instaurazione del socialismo. Lea – la impertinente Lea – rimane senza parole. Per mesi non riuscirà a parlare. Forse il punto cieco del libro, la cosa di cui non si può scrivere.
Gli albanesi improvvisamente si accorgono che le cose si sono capovolte: se con il comunismo non potevi uscire dall’Albania ora la retorica dei confini aperti cambia improvvisamente e dal mondo “libero” gli albanesi devono rimanere fuori, si innalzano i muri e le frontiere diventano impenetrabili. L’Italia tanto amata e vagheggiata – ancora adesso Lea Ypi dice che Toto Cotugno e la sua canzone L’italiano (1983) non si discute, si ama incondizionatamente perché rappresenta il desiderio di libertà degli albanesi – diventa ostile. Gli albanesi non sono più gli ospiti improvvisi che arrivano a Brindisi nel 1991 trovando un’intera città che li accoglie in modo straordinariamente generoso. Sulla pelle degli albanesi iniziano le politiche speciali e securitarie che da allora in poi caratterizzaranno la gestione dei migranti in Italia. Come ricorda l’autrice la Katër i Radës viene speronata dalla marina italiana e affondata (più di ottanta morti) proprio nel 1997 il giorno dopo la firma di un accordo fra il primo ministro albanese e il governo Prodi che autorizzava gli italiani all’uso della forza per il controllo delle acque territoriali. La prima strage di migranti ai confini italiani. Altri albanesi moriranno nelle traversate sui barchini, altri migranti continuano a morire oggi.
Il libro di Ypi è stato tradotto in moltissime lingue ed è un meritatissimo successo internazionale pluripremiato ma la sua versione in albanese (una vera e propria riscrittura nella lingua madre – che l’ha molto più implicata emotivamente – dice in un’intervista l’autrice) è stata criticata in Albania perché ritenuta troppo indulgente con il regime di Enver Oxa e non del tutto accurata nella parte storica. Le è stato addirittura rimproverato che a Durazzo non è mai esistita una statua di Stalin e non è mancato chi ha detto che lei è troppo bella per essere una filosofa e una scrittrice! Ma un memoir, pur essendo immerso nella Storia e nei suoi eventi politici, ha necessariamente al centro una piccola storia singolare. Viene in mente l’immensa opera di Svetlana Aleksievič quando a proposito di La guerra non ha un volto di donna. L’epopea delle donne sovietiche nella Seconda Guerra Mondiale (Minsk, 1985), scrive: “Raccolgo testimonianze non sul fatto che c’eravamo, ma sul come eravamo. Quali persone. E come rispondevamo alla questione: sì, c’eravamo, ma per cosa?”. Il libro di Lea Ypi è del tutto interno a questo orizzonte di tempo qualitativo, l’autrice è assolutamente fedele alla bambina di allora, a come era, alla forza con cui credeva, voleva sapere e conoscere, come puntava il dito sulle contraddizioni quando la verità si scostava dalla realtà che percepiva e che man mano che cresceva diventava sempre più drammaticamente evidente.
Lasciai l’Albania e attraversai l’Adriatico. Salutai lui [il papà] e la nonna sulla spiaggia e raggiunsi l’Italia su una barca che navigava sopra i corpi di migliaia di annegati, persone con anime più speranzose della mia, ma con un destino meno fortunato. [Come l’amica del cuore scappata ragazzina e morta prostituta a Milano]. Non sono mai più tornata”.
Così finisce il libro di Lea Ypi. Si laurea a Roma in filosofia e ogni anno inizia il suo “corso su Marx alla London School of Economics”. Studiare e insegnare Marx contro l’amato padre che avrebbe preferito una scienza dura, diritto o economia, contro la madre che non la comprende ed è interdetta, contro un cugino che chiosa “Suo nonno non ha passato quindici anni in galera affinché lei potesse andarsene all’estero a difendere il socialismo” ma anche contro gli amici universitari di sinistra occidentali che contenendo a stento l’irritazione le spiegano che “Quello che avevate voi non era il vero socialismo” e tollerano le sue riflessioni “come le osservazioni imbarazzanti di una straniera che stava ancora imparando a integrarsi”.
La vita di Lea sarà al centro di una doppia negazione, se per la sua famiglia il socialismo era stato la negazione di ciò che avrebbero voluto e potuto essere, per Ypi il liberalismo rappresenta le promesse infrante, la distruzione della solidarietà, il privilegio ereditato e la possibilità di chiudere gli occhi davanti alle ingiustizie. Questo doppio sguardo di Libera e la caparbietà con cui la Lea adulta non vuole dimenticare la bambina che è stata rendono il libro prezioso. Ma il libro non è un saggio, è anche una splendida opera di narrativa e la protagonista di Libera è indimenticabile come i suoi soprannomi: Peperone ripieno quando finalmente piccolissima mette su peso ed è sicuro che sopravviverà; Leuska, Gravoche, quando diventata adolescente preferirà vestirsi da ragazzo e il sorprendente Brigatista che le affibbia il padre che guardava la televisione italiana e aveva simpatia per i rivoluzionari falliti come le Brigate Rosse e Giangiacomo Feltrinelli. Se la storia di Lea chiude un cerchio, chiude un cerchio anche il fatto che in Italia La Feltrinelli sia la casa editrice di Libera.