Martin Pollack, Il morto nel bunker, tr. Luca Vitali, Keller editore, pp. 296, € 18,00 stampa
recensisce ELIO GRASSO
Il terzo libro di Martin Pollack pubblicato da Keller ha l’esclusiva sul dolore, sulla complessità degli inferi novecenteschi. Le memorie moderne fanno scattare meccanismi aspri in quei luoghi a cui oggi è impossibile arrivare per mettere a posto le cose. Non sempre si tratta dell’anima, ma qualcosa di simile alberga nei paraggi, e chi riconduce a oscurità passate conosce bene i pericoli e le sorprese più destabilizzanti. La domanda che si pone qualunque lettore di fronte al Morto nel bunker è: cosa si prova scoprendo che il proprio padre è stato un ufficiale delle ss e probabilmente un criminale di guerra?
La ricerca di Pollack restituisce la storia di parte della sua famiglia, e la storia verosimile di quel che accadde nei territori a cavallo tra Italia, Austria e Slovenia dall’ultimo Ottocento alla fine del Reich. Nel 2003, insieme alla moglie, Pollack intraprende un viaggio nel Tirolo del Sud (quello che ci ostiniamo a chiamare col nome fascista «Alto Adige») per scovare il bunker dove suo padre venne ritrovato ucciso cinquantasei anni prima. Il bunker era uno dei tanti fatti costruire da Mussolini tra il 1936 e il 1942 per sbarrare la strada ad Austria e Germania, ma sembra che a questo scopo non vennero mai utilizzati. Non avendo nessun ricordo personale, l’autore (meno di tre anni quando suo padre morì) investiga su un passato difficile da disseppellire.
Città paesi e campagne, a molti tuttora sconosciuti, furono testimoni di avvenimenti domestici, all’apparenza innocui, mescolati a storie orribili che trafissero il secolo. La dissoluzione dell’impero asburgico crea la manifattura dell’orrore, dalle nervature geografiche all’implosione di un intero continente. E gli uomini? Figli e padri hanno nomi, i primi (se nati in epoca bellica) hanno saputo sopravvivere e poi ingegnarsi nella ricerca di misteri, sparizioni, omertà.
Il morto ritrovato nel bunker in Val d’Isarco è il padre dell’autore, ucciso con colpi di pistola nel 1947, durante clandestinità e fuga. Da lì parte l’indagine, attraverso incontri e scampoli di ricordi, documenti e narrazioni (brevi, circospette) di genti che non amano rievocare momenti oscuri. Le fotografie inserite nel volume ci mostrano un uomo serio, elegante, perfino sorridente quando non ripreso in scatti ufficiali con divisa delle ss e berretto col teschio. Nel libro, reportage composito di fatti e circostanze relativi a dissidi fra diverse etnie e spaventosi eccidi, si scoprono particolari a cui nessuno oggi riesce a pensare in modo composto: resta il fatto che tutto questo dovrebbe essere elencato in antologie scolastiche e compendi a uso famigliare, in anni in cui la memoria ormai sbiadisce inesorabilmente per motivi anagrafici e politici.
La guerra, su quei territori, alberga in numerose vicende familiari, e assume un aspetto ben diverso da quello immaginato dai tomi ufficiali o da certi soggetti filmici. Soprattutto appare misterioso come il germe umano della follia possa allignare dentro discendenze all’apparenza tranquille e prive dei lati distruttivi di orrore e fine. Non serve qui elencare quanto viene rievocato dall’autore, accanto allo sforzo sentiamo un’etica impareggiabile, una levità che tocca nel profondo. S’intraprenda invece, con questo libro, un salutare viaggio verso le pieghe geografiche (e mentali) delle frontiere italiane di nord-est dove ancora oggi pizzicano la pelle le arie distruttive del Novecento. La copertina mostra, in tagliente contrapposizione, un radioso manifesto turistico del 1934 che invita a visitare l’Austria. Nell’epoca in cui a segni e segnali difficili da interpretare (o forse il contrario?) dovrebbero contrapporsi nuove lucidità politiche e sociali, il libro scopre le radici comuni e private della nostra coscienza.