Che cosa significa avere rispetto per un testo? E’ la domanda che si pose il critico J. Hillis Miller negli anni Ottanta quando pubblicò uno dei suoi libri più famosi, The Ethics of Reading (1987). Joseph Hillis Miller – recentemente scomparso all’età di 92 anni – è stato uno dei principali esponenti della cosiddetta “Scuola di Yale” o Decostruzione Americana, quella corrente della critica letteraria che ha cercato di applicare agli studi umanistici le teorie filosofico-letterarie del grande filosofo franco-algerino Jacques Derrida e che ha dominato la scena dei Dipartimenti di Humanities e di Filosofia, di Semiotica e di Filosofia del Linguaggio in America per tutto il corso degli anni Ottanta. J. Hillis Miller è partito dal New Criticism e dalla Scuola di Ginevra per poi approdare alla critica fenomenologica e infine alla Decostruzione. Attivo a Yale fin dagli anni Settanta insieme al critico belga Paul de Man, allo stesso Jacques Derrida (spesso presente in qualità di Visiting Professor), a Geoffrey Hartman e ad Harold Bloom, alla fine degli anni Ottanta si trasferì all’Università di Irvine, in California, dove continuò la sua battaglia in difesa della critica letteraria “teorica” e filosofica.
Ecco un primo punto fondamentale per comprendere il percorso critico di Miller: la teoria – o la riflessione filosofica – non è mai sovrastruttura che si impone e schiaccia il testo sotto il suo peso, ma contribuisce invece a rivelarne la ricchezza, la fecondità teorica e filosofica. Visione questa che Miller ha dipanato nei suoi numerosi studi sul romanzo vittoriano, su Charles Dickens e Thomas Hardy, sui romanzi e sui racconti di Nathaniel Hawthorne, sui grandi romanzi di Joseph Conrad.
Ma forse la teoria critica per la quale Miller verrà principalmente ricordato sarà la Teoria dell’Etica della Lettura. Apparentemente, niente potrebbe sembrare più lontano dalla Decostruzione. Secondo Miller esiste una sorta di imperativo etico, un imperativo categorico di stampo kantiano, che ci impone di essere fedeli a un testo. Infatti, se da un lato le sue letture si caratterizzano per la loro estrema originalità, dall’altra Miller ribadisce ad ogni piè sospinto la sua attenzione filologica alle parole del testo, la sua fedeltà alla tecnica del close reading. Nel suo linguaggio paradossale, Miller ci spiega che il testo letterario ci impone di fraintenderlo. Questa aporia porta a una serie di riflessioni: Dove va a finire, in questa prospettiva, il puro e semplice piacere del testo postulato da Roland Barthes, la sua perversione e immoralità? Che cosa c’è di etico nella lettura di un testo? Non si tratta forse dell’ennesima riproposizione del dogma dell’integrità del testo? Non stiamo cercando ancora una volta di postulare l’esistenza di un significato nascosto, di una verità del testo che noi dobbiamo andare a cercare e scovare?
Come accennato, all’epoca Miller collegò le sue considerazioni relative all’etica della lettura agli imperativi categorici di Immanuel Kant, spiazzando sicuramente gran parte degli altri critici con una mossa astuta, dato che molti dei detrattori della Decostruzione forse Kant non l’avevano mai letto e non erano in grado di controbattere alle argomentazioni di Miller citando le opere del filosofo tedesco.
Ma la strategia difensiva di Miller va ancora oltre: egli basa le sue riflessioni su un misterioso passo di Paul de Man, uno dei quattro grandi critici di Yale, in cui si afferma che “l’Allegoria della Lettura è sempre etica.” All’epoca andava così: se non citavi Derrida, de Man e almeno un filosofo tedesco nei tuoi saggi di critica letteraria, non eri nessuno e non potevi partecipare al dibattito sulla “Teoria”, come lo si definiva negli anni ottanta. De Man e Miller avevano addirittura individuato una forma di “Resistenza alla Teoria”, cioè una tendenza a resistere alle argomentazioni teoriche in nome di una presunta fedeltà al testo. La grande abilità di Miller, ma si tratta di una caratteristica di tutti i critici della “Scuola di Yale”, è stata quella di trasformare in un punto di forza le sue debolezze, di capovolgere i luoghi comuni che gli venivano rovesciati addosso dimostrando che i suoi stessi avversari erano vittime di quelle aporie che avevano denunciato. È rimasta celebre la sua analisi della dialettica ospite-parassita, in uno dei saggi teorici più belli contenuti nella raccolta Deconstruction and Criticism (1979), antologia in cui compaiono tutti e cinque i “Critici di Yale”, Derrida, de Man, Hartman, Miller e Bloom (quest’ultimo successivamente si distaccherà dal gruppo, dicendo di non aver mai gradito le interpretazioni della critica letteraria franco-heideggeriana). Nel suo saggio, intitolato appunto “The Critic as Host”, Miller si scagliava contro un certo tipo di critica letteraria “di destra” che ha la tendenza a semplificare il testo, a ricondurre il testo al suo significato ovvio e univoco, e allo stesso modo si scagliava contro quella critica letteraria “di sinistra” che tende a ricondurre il testo alle sue basi materiali di produzione, quelle condizioni socio-economiche che secondo i critici più estremisti arrivano addirittura a scrivere il testo.
Grazie al contributo di J. Hillis Miller la Decostruzione è diventata una perfetta macchina da guerra che ha consentito ai Critici di Yale di conquistare la cittadella accademica. Per comprendere la parabola della Decostruzione americana basterebbe citare due discorsi tenuti da Miller a distanza di dieci anni in occasione del raduno annuale della MLA (Modern Language Association): da una parte il già citato saggio “The Critic as Host”, cioè il testo del suo intervento al raduno MLA del 1976, in cui dimostrava che la Letteratura ha bisogno del suo presunto parassita, la critica letteraria, e che tra la critica tradizionalista ospite e il critico-parassita decostruzionista si instaura sempre una proficua simbiosi. Miller, grazie a un consapevole procedimento di risemantizzazione, attribuisce infatti alla coppia ospite\parassita le caratteristiche tipiche dei simbionti; solo a partire da questo dato si comprende il passaggio secondo cui l’ospite ha bisogno del parassita e il parassita ha bisogno dell’ospite e nessuno dei due può vivere senza l’altro, nessuno dei due può fare a meno dell’altro. Quando Miller pronunciò questo suo famoso discorso, che venne successivamente incluso nel manifesto della Decostruzione americana, il volume Deconstruction and Criticism, il parassita decostruzionista non si era ancora ben introdotto all’interno dell’accademia americana, era ancora relegato ai margini. Eppure già in questo saggio del 1976 J. Hillis Miller afferma una volta per tutte l’importanza della dialettica ospite-parassita per comprendere la relazione esistente tra il testo e la sua interpretazione, tra il testo letterario e il critico-parassita che se ne nutre. Senza questo parassita, che ne decompone gli aspetti più duri e incomprensibili, rendendoli più digeribili per il pubblico odierno, il testo letterario non potrebbe sopravvivere, anzi non potrebbe diventare humus fertile per nuove interpretazioni, per rinascere a nuova vita.
Questo primo intervento di Miller, che all’epoca era un semplice membro dell’MLA, rappresentava il primo attacco diretto contro una tradizione accademica, la tradizione di René Wellek e Austin Warren, la tradizione di M.H. Abrams, la tradizione di Wayne C. Booth, di Cleanth Brooks o di Yvor Winters, che aveva fatto dell’integrità del testo, della ricerca della verità del testo, il suo dogma indiscutibile. A distanza di 10 anni, nel 1986, Miller tenne il suo altrettanto famoso discorso su “The Triumph of Theory”, ma questa volta lo tenne da Presidente dell’MLA. Si trattava di un vero e proprio Presidential Address, a dimostrazione di come i decostruzionisti americani avessero ormai espugnato la cittadella accademica e fossero al centro di un sistema che consentiva loro di dominare gli studi umanistici, gestire fondi per la ricerca e borse di studio, finanziare pubblicazioni, favorire i propri candidati in concorsi universitari per cattedre prestigiose. Eppure proprio nel Presidential Address del 1986 si cominciano ad intravedere le prime crepe del monolite (si fa per dire) decostruzionista. Nel suo intervento Miller cerca ancora una volta di rispondere agli attacchi dei suoi detrattori che accusano la Decostruzione di non occuparsi abbastanza delle condizioni materiali di produzione dei testi, di avere cioè abbandonato il lascito fecondo della critica marxista sulla scia di grandi critici come Gyorgy Lukacs e Theodor W. Adorno. La tattica di Miller Presidente dell’MLA – ancora una volta – è quella tipica dei decostruzionisti: si prende un aspetto marginale di un testo, un commento apparentemente scollegato dal corpo centrale del testo, o addirittura una nota, e si dimostra che tale nota a margine rivela invece un aspetto centrale della poetica o del pensiero di un dato filosofo o di un dato scrittore. Si tratta di un procedimento che Jacques Derrida ha utilizzato decine di volte, e con grande efficacia. Basti pensare alla sua interpretazione di alcuni frammenti apparentemente incomprensibili di Nietzsche, oppure al suo famoso saggio “Living On / Borderlines”, contenuto in Deconstruction and Criticism, in cui la nota prevale di gran lunga sul testo vero e proprio.
L’unica critica che ci sentiamo di fare al metodo critico di J. Hillis Miller, a tutto questo grande dispiegamento di analisi critiche, estremamente teoriche e filosofiche, che si esercitano sul testo, è che forse esse rivelano la persistenza di un residuo del complesso di inferiorità che la critica letteraria prova nei confronti della filosofia vera e propria, un complesso di inferiorità che Derrida stesso, con le sue analisi letterarie di alcuni celebri testi filosofici, ha fatto di tutto per cancellare. In questo Hillis Miller, forse, come direbbe il post-filosofo Richard Rorty, continua a rendere omaggio a un nemico ormai sconfitto. Sarebbe ormai il caso di “lasciar perdere” il problema se il significato di un testo sia nel testo stesso oppure imposto dal di fuori dal suo interprete, dal momento che la questione è stata da lungo tempo dibattuta e non c’è più niente di interessante da dire sull’argomento. Per confutare l’accusa rivolta alla Decostruzione americana di non essere abbastanza “responsabile” non è necessario addentrarsi troppo in complessi ragionamenti sull’etica della lettura: è sufficiente adottare la posizione filosofica tipica del neo-pragmatismo di Richard Rorty, secondo il quale è inutile che continuiamo a dibattere le vecchie questioni metafisiche, cioè la millenaria disputa tra i seguaci di Platone e i seguaci quel pensiero “altro” che parte da Pitagora e i presocratici e nega i dogmi della Metafisica – di cui Nietzsche è l’epigono – dato che, non appena iniziamo ad analizzare i vari termini della questione, finiamo per sprofondarci dentro, senza più alcuna possibilità di uscirne.
Questa è la domanda che assillava Miller ma che non assilla più i critici contemporanei: in che modo noi lettori e noi critici letterari contribuiamo ad accrescere la comprensione di un dato testo letterario, se ci accostiamo ad esso tenendo presente l’imperativo categorico di Kant? A cosa “ci serve” Kant quando cerchiamo di leggere Hawthorne? Questo è il dilemma che ancora oggi molti di noi – molti di noi che hanno avuto il privilegio di leggere e studiare le analisi estremamente raffinate e autoconsapevoli di Miller – si pongono quando rileggono le opere teoriche di questo strenuo difensore della Decostruzione, quando si trovano di fronte ad una costruzione teorica che, pur nella sua estrema auto-consapevolezza e raffinatezza, sembra voler “nobilitare” il testo letterario accostandolo alla Filosofia di Kant. Ma il testo letterario non è già nobile e nobilitato di suo? Abbiamo forse bisogno che Hillis Miller ci ricordi l’imperativo etico di leggere il testo rispettandolo, invece di utilizzarlo – pragmaticamente – come un pretesto per le nostre elucubrazioni? Rimettersi a discutere con Kant, riproporre il suo imperativo categorico, non significa forse rimanere ancora una volta intrappolati nel linguaggio filosofico di Kant, con la prospettiva di non poterne più uscire? Perché il parassita, dopo averlo svuotato dall’interno, deve continuare a celebrare l’ospite?
Poco prima di morire Paul de Man, in una sua famosa intervista con Stefano Rosso, disse che aveva intenzione di rimettersi a studiare i testi canonici del marxismo per reinterpretarli in chiave decostruzionista, convinto che la vera critica dell’ideologia può essere realizzata soltanto da un pensiero critico consapevole degli inganni e delle aporie del linguaggio. Hillis Miller nei suoi ultimi anni di attività ha voluto portare avanti il progetto di De Man, anche al fine di rintuzzare le critiche alla Decostruzione da parte dei critici di Sinistra e dei Neostoricisti, cioè l’accusa di non tenere nel dovuto conto le condizioni materiali nelle quali i testi vengono prodotti, la base materiale dei testi letterari, l’influsso degli eventi storici, della società del tempo, delle condizioni materiali di esistenza sulla produzione dei testi letterari. A ben vedere, nel dibattito letterario degli ultimi decenni si è avviato un tentativo di riavvicinare la Decostruzione a quella corrente della critica letteraria che ha ripreso ad analizzare i testi utilizzando gli strumenti della critica dell’ideologia, un tentativo che ha portato alcuni critici, tra cui Stephen Greenblatt, sulla scia di Metahistory di Hayden White, a fondare il movimento del Neostoricismo, nel quale gli strumenti critici e l’estrema consapevolezza linguistica della Decostruzione si applicano ad una lettura della Storia da un punto di vista letterario, della storia come narrazione di eventi, della Storia come un vero e proprio genere letterario. Di fronte a questa nuova corrente del Neostoricismo, ancora una volta il virus decostruzionista si è adattato ed è mutato, ancora una volta il boa-deconstructor ha avvolto le sue spire intorno al corpo dell’avversario tentando di stritolarlo, e cercando di dimostrare come la Decostruzione sia l’unica teoria critica in grado di liberarsi dai condizionamenti ideologici che influenzano la nostra vita e l’elaborazione dei nostri concetti di individuo, società, evento storico. Secondo questo punto di vista, l’intera storia è interpretazione, per cui siamo ancora e sempre noi a decidere se un dato evento è storico o meno. La teoria critica dunque assume su di sé – secondo de Man e secondo J. Hillis Miller esegeta e strenuo difensore di de Man – la funzione importantissima di smascheramento dell’ideologia e delle semplificazioni grossolane che derivano da una lettura non accurata dei testi.
Attenzione però alle possibili conseguenze di questo ragionamento. Se continuiamo a proporre una teoria puramente linguistico-letteraria dell’accadere storico, essa può anche essere utilizzata per negare la responsabilità o l’utilità dell’agire umano nella Storia. Per quanto scaltra e raffinata sia la nostra analisi del linguaggio, essa non può pensare di sostituirsi totalmente al nostro agire pratico. Arriva un momento in cui non si può rimanere ai margini a guardare e ad “interpretare” gli eventi storici, ma è necessario buttarsi nella mischia e agire nella Storia, entrare nell’agone storico o almeno tentare di incidere sul corso degli eventi.
Nel ragionamento di Miller il cerchio si chiude perfettamente su un’aporia, un paradosso insolubile: la Legge del Testo – l’Etica della Lettura – obbliga il lettore a fraintendere il testo, a mis-leggerlo in nome di un’istanza superiore.
“I still stand before the Law (of the ethics of reading)” dice J. Hillis Miller in The Ethics of Reading, proprio come il personaggio de Il processo di Kafka o della sua famosa parabola “Davanti alla Legge” (1914). Eppure questa Legge (del Testo), proprio come accade nei racconti di Kafka, noi la rispettiamo anche se incapaci di spiegarla, di esplicitarla. Possiamo solo raccontare delle storie intorno ad essa, trasformarle in narrazioni, in fiction. E’ evidente l’analogia tra la situazione dei decostruzionisti “responsabili” à la Miller e la plurimillenaria storia dell’esegesi biblica: come i rabbini che vissero le terribili persecuzioni in Spagna nel 15° secolo e furono costretti a ricorrere alla Kabbalah, come i rabbini del Seicento e del Settecento che, rischiando di essere travolti da quei movimenti che spingevano per un’assimilazione e una definitiva laicizzazione della cultura ebraica, furono costretti a inventarsi dottrine apparentemente assurde e paradossali come quelle di Jakob Frank e di Shabbatai Zevi, come loro, dunque, noi critici odierni continuiamo ad applicare la Legge ma non sappiamo più da dove essa deriva e quali ne siano i fondamenti. Proprio come accade nei racconti di Kafka, proprio come accade nell’ebraismo odierno, sempre più contraddittorio e paradossale: il popolo ebraico della Diaspora continua ad applicare i precetti della Torah, della Legge, senza comprendere bene il perché. La porta dalla quale dovrebbe passare il Messia, per irrompere nella Storia e sfociare finalmente in una palingenesi religiosa o rivoluzionaria, è sempre più stretta. Nel frattempo, la via della Redenzione passa attraverso la paziente analisi dei testi e la loro incessante interpretazione.
Secondo Paul de Man il testo letterario ha già sempre anticipato ogni nostra mossa interpretativa decostruendosi da solo. Ma in questo modo il testo diventa una sorta di entità metafisica, ancora di più di quanto appaia nel pensiero dei critici tradizionalisti. Proprio per aver continuato ad oltranza a riproporre questa mossa difensiva, tipica del boa-deconstructor de Man, J. Hillis Miller sarà ricordato come il più strenuo difensore dell’ortodossia della Decostruzione, colui che ha espugnato la cittadella universitaria e, una volta insediatosi, ha continuato a difendere la cittadella, teorica e materiale, dagli attacchi esterni, quando invece, nell’intento dei suoi promotori, la Decostruzione avrebbe dovuto erodere dall’interno le mura e gli schemi ormai logori dell’interpretazione accademica tradizionale. L’ennesima aporia…