Il cielo rosso del coraggio

Giuseppe Berto, Il cielo è rosso, Neri Pozza, pp. 430, € 18 stampa, € 9,99 eBook.

La letteratura italiana del dopoguerra rappresenta un patrimonio troppo spesso ignorato. Tale disattenzione critica ed editoriale, probabilmente frutto del vuoto cognitivo di questa epoca immemore, viene talvolta emendata quando una casa editrice ha la brillante idea di riproporre un autore o un romanzo che hanno lasciato un segno nel nostro percorso letterario. È il caso di Giuseppe Berto, di cui Neri Pozza sta ripubblicando alcune opere, e in particolare  Il cielo è rosso, che apparve sul finire del 1946, e che i lettori d’oggi possono apprezzare in tutta la sua immutata freschezza.

Siamo al cospetto di uno dei primi romanzi ambientati sul finire della Seconda guerra mondiale ed editi durante la ricostruzione, quando il Paese era ancora un cumulo di macerie e le sue profondissime ferite lungi dall’essere rimarginate. Berto lo scrisse durante l’estate del 1944 nel campo di prigionia di Hereford, nel Texas, mosso dal lancinante senso di colpa di chi, confessò in seguito, “come italiano e fascista sente di aver contribuito allo scatenarsi della guerra”. Senso di colpa che non ebbe quella possibilità di redenzione offerta a molti dopo l’8 settembre, visto che Berto non poté unirsi alla Resistenza, e che rappresenta uno dei nodi irrisolti della sua personalità, causa di continue incomprensioni da parte della critica, insieme all’indole puntigliosamente anticonformista, alla causticità del dire, alla ricercata lontananza da circoli e consorterie letterarie, all’intolleranza per le ideologie.

Il titolo originale, La perduta gente, richiamava un’immagine dantesca. A mutarlo e a pubblicare l’opera fu Leo Longanesi (su suggerimento di Giovanni Comisso), che aveva appena fondato la sua casa editrice, determinando con quella frase tratta dai Vangeli una parte non esigua del suo successo, come ammise lo stesso Berto anni dopo. Vi si narra la storia corale di quattro orfani: il virile e precocemente maturo Tullio, la sua forte e vitale fidanzata Carla, la di lei fragile e pura cugina Giulia, provenienti dai quartieri poveri e sopravvissuti al bombardamento di Treviso (anche se la città non è mai menzionata), e Daniele, ragazzo di famiglia benestante fuggito dal seminario per cercare i genitori, rimasti uccisi dalle bombe americane. In una umanità sbandata, “smarrita nella grande guerra” e “incapace di ritrovarsi”, i quattro adolescenti ingaggiano una guerra nella guerra, una battaglia disperata per la sopravvivenza, assediati dalla fame, dal freddo, dalla malattia, dallo sconforto, dalla mancanza d’un futuro, una lotta indomita da cui usciranno fisicamente distrutti ma moralmente vincitori. Le loro vite si svolgono in un vuoto orrendo, abitato da figure davvero dantesche, umbratili spettri segnati dall’orrore, come la piccola Maria, una bimba traumatizzata che i ragazzi accolgono nella loro “famiglia”, strappandola al nulla. Un mondo in cui, nel collasso dello stato e dei rapporti civili, sono saltate le più elementari norme di convivenza, una selva dove “ognuno era chiuso in se stesso, e come smarrito, e gli uomini erano divisi, e senza pietà gli uni per gli altri”, dove conta soltanto sopravvivere, a qualunque costo: un mondo di morti in vita.

Eppure, in mezzo a questo spazio fisico e morale abbrutito, nella più completa devastazione di anime e di cose, i quattro ragazzi reagiscono al male che li circonda e che nella guerra trova un compimento totale e quasi asettico, allegorizzato dai piloti dei bombardieri, vettori di “un male tanto grande, per cui essi portano terrore e morte e distruzione senza pensarci, con la coscienza di compiere un dovere”. L’unica possibilità di scampare alla barbarie è l’amore, la solidarietà, la comunione che supera le barriere di classe, di censo, i vecchi ordini costituiti. In questi valori risuonano l’ostinata tensione morale dell’autore, gli accenni di rivendicazione sociale e di umana fratellanza, in un singolare amalgama di marxismo e di cristianesimo che troverà più compiuta forma nel romanzo Il brigante (1951), e a cui talvolta si accompagna un eccesso di sentimentalismo che sfocia nel melodramma.

Tutto questo, la lotta quotidiana per restare in vita che costringe questi ragazzi al furto e alla prostituzione pur senza perdere l’innocenza, il percorso di crescita affrettata e dolorosa che trucida un’infanzia mai vissuta, la perturbante scoperta dell’amore, la comunanza di spirito, la natura invitta che sopravvive alla follia umana, tutto ciò è reso con una prosa apparentemente scarna, che fu fraintesa come neorealista (“mi ritrovai intruppato in quella schiera di artisti chiamati neorealisti”, scriverà Berto anni dopo), lontanissima dalla sintassi e dalla punteggiatura sconnesse di molta parte della sua opera matura, una narrativa capace di descrizioni evocative e di grande realismo psicologico, che scorre fluida come i fiumi e i canali che avviluppano i luoghi descritti conferendo loro una dimensione di eternità, una lingua dalle forme morbide che s’insinua nelle pieghe dell’anima riuscendo quasi con dolcezza a rendere la durezza del vivere, che attraversa il registro tragico persino con levità, come nella magistrale scena dell’improvvisato funerale di Giulia. Un periodare e una resa oggettiva che a taluni ha ricordato la lezione di Steinbeck e di Hemingway (il quale tra l’altro lodò pubblicamente il romanzo), autori ai quali Berto fu iniziato durante la prigionia americana da Gaetano Tumiati e Dante Troisi. E da tali maestri d’oltreoceano lo scrittore trevigiano pare anche trarre il concetto della lotta indomita dell’uomo comune contro il destino di morte, un certo tragico sentire l’esistenza, una particolare rappresentazione della luttuosa temperie dell’animo, l’armoniosa simbiosi tra realismo e simbolismo. Ma distintamente originale rimane quel singolare contrasto tra la materia trattata e il sentimento con cui lo scrittore la modella, come notò mirabilmente Pietro Pancrazi: “Più la materia gli si intorbida, mescolata com’è non solo di molte disgrazie e dolori e sangue, ma anche di corruzione e di perdizione, più il sentimento dello scrittore, aderendo tutto alle sue creature […] si fa pietoso, tenero e infine straziante”.

Il romanzo si chiude così come si era aperto, con un viaggio; non però un nostos, bensì una fuga, un percorso non di speranza ma di morte. Una morte purificatrice, cristologica, o così il testo lascia dubbiosamente intendere, forse, in maniera inconscia, per stemperare la tremenda presa di coscienza della brutale mancanza di senso del vivere, del male irrimediabile che assedia l’umano.

Di Giuseppe Berto abbiamo già recensito Anonimo Veneziano.