Il caso Volodine: tutti i nomi del post-esotismo

Il "caso" Volodine ha conquistato da qualche anno anche il pubblico italiano con la sua implacabile macchina da guerra narrativa. Dietro a una girandola di pseudonimi e di generi inventati, un futuro squallido e decaduto fa da sfondo all'indagine surreale sulla "fine della Storia” e delle utopie, a cui corrisponde anche lo scambio, sempre più fitto, di sogni e narrazioni clandestine.

Fino a qualche anno fa Antoine Volodine e i suoi libri erano ancora confinati a una nicchia di estimatori, e le traduzioni italiane arrivavano con il contagocce, soprattutto con la casa editrice Clichy specializzata in narrativa francese. La sua vasta produzione era sostanzialmente inedita nella nostra lingua.

Devo ora constatare che i titoli più recenti, apparsi in Francia dal 2014 a oggi, sono tutti pubblicati con una certa regolarità dall’editore 66thand2nd — per lo meno quelli dati alle stampe con lo pseudonimo Antoine Volodine, dal momento che nello stesso periodo di tempo l’autore ha pubblicato altri titoli sotto diversi pseudonimi. Anzi, eteronimi.

Per spiegare il caso Volodine però bisogna partire dal principio.

C’era una volta in Francia un autore che nella seconda metà degli anni Ottanta pubblicò, con l’editore Denoël quattro romanzi di fantascienza; uno di questi vinse nel 1987 il Grand Prix de la science-fiction française. Il nome stampato in copertina era “Antoine Volodine”, autore che, stando alle note, aveva trascorso l’infanzia a Lione, dove aveva fatto anche gli studi superiori, e poi aveva insegnato il russo per quindici anni prima di consegnare, nel 1985 all’editore il manoscritto del suo primo romanzo, Biographie comparée de Jorian Murgrave. La trama, in quarta di copertina, lasciava presagire un immaginario narrativo di fantascienza non ortodossa:

Nato su un pianeta distrutto dalla guerra, Jorian Murgrave è perseguitato da ricordi atroci che non vengono attenuati dalle sue esperienze terrestri: un’infanzia in campo di concentramento, amicizie fallite, rivoluzioni rovinose, torture e inseguimenti. Non è sulla Terra che troverà il riposo che desidera: braccato, imprigionato, torturato, deve continuamente sfuggire alle trappole che gli vengono tese. Persone di cultura raccolgono le tracce biografiche che ha lasciato qua e là per confondere gli investigatori che gli danno la caccia per abbatterlo. Ma senza successo: Jorian Murgrave sembra invulnerabile. Fino al giorno in cui gli aguzzini entrano nei suoi sogni… In questa opera prima di un giovane autore, scopriamo un’originalità e una forza non comuni.

Già dagli inizi si notavano quindi due caratteristiche della sua narrativa: la scelta di ambientare le storie in un futuro squallido, decadente, quasi usurato, da “fine della Storia”, e la permeabilità del confine tra sogno e realtà.

Ma chi è Antoine Volodine? O meglio, Antoine Volodine esiste davvero?

Secondo l’edizione francese di Wikipedia, Volodine si chiama in realtà Jean Desvignes, è nato nel 1950 a Chalon-sur-Saône ed è figlio della scrittrice Lucette Desvigne. A tutt’oggi, inizio 2023, risulta avere pubblicato 21 titoli con il nome Antoine Volodine, 5 come Elli Kronauer, 14 come Manuela Draeger, 5 come Lutz Bassmann e 1 come Infernus Johannes: in totale 46 libri in 37 anni, molti dei quali hanno titoli che sembrano collocarli nel campo della saggistica, anche se è fiction. Volodine ha dichiarato che il suo lavoro si arresterà con l’opera n. 49: a questo numero attribuisce un significato desunto dallo sciamanesimo e dal buddismo per consegnarlo a una narrativa che racconta la sconfitta del materialismo storico.

Uno sguardo più approfondito alla sua opera, e al modo in cui l’autore ha portato avanti con pazienza una macchina da guerra narrativa che non ha eguali nella letteratura, stupisce per la coerenza di una proposta estetica-narrativa che non è ancora completamente definita, benché progettata e giustificata nei minimi dettagli.

Solo Fernando Pessoa prima di Volodine ha costruito un sistema di eteronimi altrettanto solido. Lo scrittore portoghese, che pubblicò opere con quattro eteronimi (il più celebre dei quali, Ricardo Reis, divenne anche protagonista di uno straordinario romanzo di José Saramago), così ne spiegava la genesi in una lettera a un amico: “L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.”

Per ognuno dei suoi alter-ego Pessoa creò una biografia fittizia, e li inserì talvolta come personaggi nei suoi testi.

Volodine ha appreso la lezione, e l’ha portata alle estreme conseguenze estetiche. Si può dire che il “caso Volodine” si situa all’estremo opposto del “caso Wu Ming”: da una parte, più autori che si alternano sotto lo stesso nom de plume, dall’altra una sola mano che si moltiplica in una serie di eteronimi, che non comportano una significativa variazione di stile narrativo, ambientazione o tematiche.

Il “caso Volodine” non si esaurisce qui: oltre a un sistema interconnesso di pseudonimi, c’è anche la fondazione di un genere letterario che funge da ombrello a una serie di sotto-generi, citati nei vari romanzi. Anche qui è necessario procedere con ordine.

Volodine ha coniato una definizione per la propria scrittura, inventando un genere, il post-esotismo (post-exotisme), con il sottinteso che gli unici autori che lo praticano sono i suoi eteronimi.

Nei suoi interventi, Antoine Volodine insiste sul contenuto tematico del post-esotismo, elencando volentieri quelli che ne considera i punti di forza: la elucubrazioni sul fallimento delle lotte rivoluzionarie, sull’abominio dei genocidi del XX secolo, sulle utopie e la loro degenerazione; la messa in scena della solitudine, dell’impotenza di fronte al dolore e alla morte dell’altro; la fedeltà in amore; la deriva verso la follia; l’esistenza nel Bardo[1]; la difficoltà di distinguere tra sogno e realtà, ecc.”

Il post-esotismo si struttura in una serie di forme narrative, o sottogeneri, citati in quasi tutta la narrativa di Volodine, il quale inventa un’intera terminologia letteraria. Tra questi sottogeneri abbiamo i «narrat» (resi in italiano anche con il neologismo «zaconti», a seconda della traduzione): «istantanee che fissa[no] (come su una lastra) una situazione di conflittuale contiguità tra realtà e memoria, tra immaginario e ricordo»; si tratta di unità narrative autonome della lunghezza di due-tre pagine che in genere si inseriscono nella trama come racconti orali dei personaggi; il «romånso» (romån) invece è una storia di lunghezza media o lunga, un romanzo appunto, ma costruito secondo le regole destabilizzanti del post-esotismo; ci sono poi ancora l’«intracarne» (entrevoûte), racconto lungo o romanzo breve, e lo «shaggå», che riflette all’interno dell’opera concetti presi dalla numerologia: «identica lunghezza delle sette sequenze» che lo compongono «e debole evoluzione drammatica». Uno dei capitoli del romanzo Lisbona ultima frontiera è une esempio di shaggå.

Se il caso Volodine terminasse qui, sarebbe un interessante costrutto narrativo, un esempio di permeabilità tra letteratura e realtà. Però l’autore è andato oltre, e in Scrittori (2010) ha fornito una coerente giustificazione del suo sistema: si tratta di un romanzo in cui racconta la biografia dei propri eteronimi, e sostiene che si tratta di scrittori in guerra contro l’universo capitalista e le sue innumerevoli ignominie”: «militanti politici incarcerati, condannati all’ergastolo e strettamente isolati tra le mura», che si scambiano di nascosto narrazioni, ricordi, sogni. È questa, sostiene, l’origine della sua costellazione di eteronimi diversi.

“L’eversione romanzesca – se è lecito usare un’espressione tale – di Volodine non passa attraverso un avanguardismo generico e sbiadito, ma attraverso uno smottamento tellurico delle strutture narrative consuete, utilizzando un linguaggio elegante e tutto sommato lineare – salvo irruzioni sciamaniche di delirio eppure abbastanza sorvegliato – entro uno sguardo narrativo che anzitutto si propone di trovare una via di uscita dalla prosa di quota maggioritaria.” (Filippo Polenchi, Sonnambulismo sovietico: Terminus Radioso di Antoine Volodine, Le parole e le cose, 27 luglio 2017)

L’ambientazione post-esotica è sempre un futuro lontano un paio di secoli da oggi, desolato e squallido, con scenari urbani in genere fatiscenti. Quasi sempre è presente nello scenario un partito di tipo bolscevico-sovietico che in alternativa:

  1. è reduce da una sconfitta epocale contro il mondo capitalista (p.es. Terminus radioso);
  2. sopravvive nella motivazione di gruppuscoli dogmatici, o fazioni politiche impegnate a ripetere slogan massimalisti, senza alcuna possibilità di presa sulle “masse” che pretendono di sollevare (p.es. Sogni di Mevlidò);
  3. è effettivamente al potere, ma governa su un’umanità decimata, ed è corroso da lotte intestine che porteranno al disfacimento definitivo non solo della sovrastruttura politica, ma dell’intera umanità (Le ragazze Monroe).

Partendo da questi punti fermi, Volodine costruisce sviluppi narrativi estremamente distanti uno dall’altro; inoltre, nella sua poetica assume una certa importanza una solida relazione emotiva tra due personaggi, che rivela un sentimento autentico ma che è vissuta soprattutto come nostalgia di una felicità perduta.

Scorrendo le trame, la parentela con la fantascienza sembra evidente, eppure Volodine non corteggia nessuno degli stereotipi del genere. L’ambientazione è spesso post-apocalittica, e altrettanto spesso sfrutta tutto l’armamentario kitsch dell’età dell’oro della science-fiction (mutazioni genetiche, poteri paranormali, specie animali e vegetali aliene, talvolta anche un accenno a vita extraterrestre), ma la lettura è destinata a deludere i fan del genere: sotto una trama apparentemente avventurosa, abbiamo un totale anti-climax nelle scene d’azione che possono persino risultare frustranti. Le intenzioni dei protagonisti sono spesso vanificate, perché il significato profondo, il nucleo della riflessione estetica di Volodine gira intorno a un elemento cruciale: la consapevolezza della sconfitta storica delle ideologie egualitarie e la conseguente “fine della storia” in quanto prodotto della lotta tra classi. Ambientazione, personaggi, trama e tópoi fantascientifici sono unicamente metafore di una situazione reale. Come dice il personaggio Ingrid Vogel in Lisbona ultima frontiera: si tratta di “testi criptati, un intreccio, una storia in cui tutti i colpi di scena, tutti i messaggi saranno in codice. […] un caos oscuro, studiato al millimetro. Nessuno riuscirà a raccapezzarcisi, […] Nessuno sospetterà che abbia raccontato una storia vera della nostra epoca.”

Le ragazze Monroe

Il più recente romanzo di Volodine, Les filles de Monroe, è appena uscito in una bella edizione dell’editore 66thand2nd (tr. Anna D’Elia, pp. 256, euro 17.00) ; il plot questa volta è più compatto del consueto, possiede una maggiore coerenza d’azione. Come sempre, è ambientato in un futuro cupo e degradato, con una civiltà in piena decadenza; i non molti superstiti della razza umana sono concentrati nella vastissima area di un ospedale psichiatrico semi abbandonato, discendente dei manicomi sovietici come luogo di detenzione dei dissidenti, che si estende su molti edifici. Malgrado la decadenza della civiltà, la presa del Partito unico non è mai venuta meno; logorato dall’attrito di centinaia di fazioni (l’appendice al libro ne censisce ben 343, in 11 pagine che da sole solo uno spasso di humour nero), il Partito si trova inevitabilmente sulla via del tramonto, come d’altronde la vita sulla Terra. Non è la prima volta che Volodine racconta di un’umanità soppiantata, nel dominio del pianeta, da altri esseri viventi, per esempio i ragni (in Sogni di Mevlidò).

La narrazione copre un arco di non molti giorni, nei quali i personaggi si muovono sotto una pioggia violenta e insistente che batte l’area del nosocomio; tutto intorno “si ergevano le barriere di filo spinato che ci separano dalle rovine, dal mondo di impenetrabili rifiuti che si estende per migliaia di chilometri, che si estende all’infinito, a riprova del fatto che al di fuori della nostra oasi psichiatrica una volta c’erano degli esseri viventi, una civiltà con tanto di umani, folli in buona salute, e animali.” (p. 172)

Uno dei protagonisti, un uomo di mezz’età di nome Breton, viene incaricato di controllare l’arrivo delle “ragazze Monroe”, che ritornano una dopo l’altra dal mondo dei morti materializzandosi sul cornicione ai piani alti di un edificio, armate di tutto punto. Breton, uomo dalla personalità profondamente scissa al punto da pensare di essere due persone diverse, è uno dei pochi che riescono a vedere l’arrivo delle ragazze senza l’ausilio di una complessa e costosa apparecchiatura ottica.

Le ragazze sono la materializzazione dei sogni di Monroe, alto dirigente del Partito a suo tempo giustiziato per deviazionismo, e in seguito riabilitato post-mortem: “Monroe, che dopo esser stato eliminato si era trovato immerso nelle tenebre, era ormai sospettato di aver messo in piedi, là dove si trovava, un gruppo di intervento allo scopo di risorgere, con il progetto demenziale di occuparsi del Partito, eliminarne gli incapaci e i traditori e, in poche parole, riorientarlo verso qualcosa di diverso da un’infamante e definitiva scomparsa” (p. 43)

Le ragazze Monroe, nelle quali è impossibile riconoscere la personalità precedente, sconvolta dal passaggio nel Bardo, hanno l’incarico di “passare il prima possibile all’azione, giustiziare i deviazionisti e i traditori all’interno del Comitato Centrale, scovare i loro alleati nei ranghi inferiori della burocrazia e far fuori anche loro” (p. 193)

In sostanza, Monroe prosegue la lotta politica anche dopo morto. Le ragazze Monroe sono una decina di giovani donne che dall’aldilà vengono rispedite nel nostro mondo, dopo un addestramento specifico, per colpire le alte sfere di un Partito che, di conseguenza, ha tutto l’interesse a fermarle.

La storia inizia quando Breton, che è in grado di vedere una diversa topografia del campo psichiatrico, riconosce in una ragazza Monroe appena materializzatasi sotto la pioggia, la donna che ha amato: Rebecca Rausch, morta trent’anni prima. Per questa ragione decide di non collaborare nell’individuazione delle terroriste.

Incaricato di stargli alle costole è un poliziotto, Kaytel, che nel passato è stato amante di Dama Patmos, attualmente tra gli elementi di spicco nel Partito. Dama Patmos, ex moglie di Monroe, ha dovuto unirsi al coro degli accusatori al tempo della caduta in disgrazia del marito, per non venire trascinata anch’ella in un distruttivo processo.

Il plot si dipana nei giorni successivi all’arrivo di Rebecca Rausch. L’ispettore Kaytel si muove sul filo del rasoio, è nel mirino del Partito perché non riesce a ottenere la collaborazione di Breton, al punot di rischiare l’eliminazione fisica malgrado il legame con Dama Patmos. Una pioggia rovinosa e incessante continua a rovesciarsi sull’ospedale, dove i protagonisti vagano senza successo: tutti vedono infatti frustrate le proprie intenzioni, niente è come sembra, nessuno pare in grado di arrestare l’inevitabile estinzione dell’umanità.

Due elementi distanziano inesorabilmente questo romanzo cupo e affascinante, che racconta un progetto velleitario e demenziale, da un thriller classico: prima di tutto l’humour nero, caratterizzato dal esilarante comportamento dei morti, che solo una certa ossessività (e il linguaggio estremamente triviale) distingue dai vivi; in secondo luogo, un leitmotiv in un certo senso romantico — come sempre in Volodine, un sentimento nostalgico e disperato, ma tenace e persino altruista: nel caso di questo romanzo, non solo il gioco di attrazione erotica/opportunista tra Kaitel e Dama Patmos, ma soprattutto l’attaccamento patetico, dolorosamente passionale di Breton per Rebecca Rausch, che è tornata dal mondo dei morti trasformata in un automa, una macchina di morte parzialmente aliena il cui corpo si degrada e reifica, riempiendosi di inserti metallici a mano a mano che si allontana la possibilità di portare a termine la sua missione di palingenesi sanguinaria.

La letteratura di Volodine non annuncia la fine, ma proviene dall’interno della fine, ed è una fine dilatata, una fine senza pace. A chi si sta parlando, e perché, è la domanda che il post-esotismo consegna al lettore, interrogandolo sulla sua propria ragion d’essere. Resta qualcosa da fare, le frasi che vengono pronunciate hanno qualche potere di riaprire alla vita, o sono solo sussurri che accompagnano il declino, la discesa sempre più in fondo, nel buio?” (Niccolò Bosacchi, da illibraio.it)


[1] Una delle caratteristiche delle ambientazioni di Volodine è la permeabilità tra i due mondi prima e dopo la morte; per indicare quest’ultimo, utilizza il nome contenuto nel Bardo Tödröl Chenmo, il Libro tibetano dei morti.