Bianca Pitzorno, La canzone di Federico e Bianchina, Mondadori, pp. 40, euro 17,00 stampa
Anno 1382. Genova si contende con le altre Repubbliche marinare il predominio sul Mediterraneo. Sono anche gli anni dei grandi viaggi come quelli in Catai (l’attuale Cina) della famiglia Polo. Il Doge Nicolò Del Guarco ha una prole talmente numerosa che neanche scartabellandone i documenti vi si trova una menzione precisa. Il maggiore gli succederà al governo, mentre tra i nipoti più piccoli c’è Bianchina, di quattro anni, e il fratellino Isnardo, di appena due.
Appartiene a un ramo minore della stessa famiglia Eleonora De Serra Bas, figlia di un principe del Regno d’Arborea, nella selvaggia Sardegna, e sposata a Brancaleone Doria. Ma a ereditare il posto a capo del giudicato, come veniva chiamato all’epoca il principato, è Ugone, per cui Eleonora decide di allontanarsi con la sua famiglia dalla terra sarda per evitare di vivere all’ombra del fratello. Chiede quindi al Doge di potersi considerare cittadina genovese e in un’assemblea in cui si riuniscono le figure più illustri di Genova, la decisione è unanime: Eleonora, Brancaleone e il figlio Federico vengono accettati come concittadini.
Il secondo passo che la bella Eleonora compie è quella di combinare, com’era d’uopo all’epoca, il matrimonio tra il suo Federico e la piccola Bianchina, e lo pianifica a fronte di una generosissima offerta di quattromila fiorini d’oro (per intenderci con la stessa somma una famiglia avrebbe vissuto nel lusso per cinquant’anni). Anche in questo caso il Doge è ben contento di accettare la proposta, e dopo aver investito l’intera donazione in azioni e terreni intestandoli a Bianchina, si organizza il trasferimento della famiglia De Serra Bas-Doria.
In realtà questa parte della storia è esplicata magnificamente nella doverosa prefazione, senza la quale la canzone non avrebbe significato alcuno. Le strofe sono invece incastonate egregiamente nelle pagine e circondate da preziose quanto ipnotiche illustrazioni a firma Sonia Maria Luce Possentini. Tinte delicate, colori pastello, leggeri ed eleganti. Personaggio fondamentale, oltre ai bambini, è il vento che permetteva alle navi di viaggiare e alle emozioni di librarsi in volo nel cielo sopra Genova, nonché di soffiare via dal cuore del lettore quella malinconia del finale inaspettato. In poche righe la Pitzorno è riuscita a dare valore aggiunto a un libro che sarebbe rimasto uno tra i tanti testi illustrati per ragazzi.
Nella postfazione invece racconta l’aneddoto che l’ha avvicinata e convinta a parlare della storia di Bianchina e Federico. Nel 1982, cioè esattamente seicento anni dopo, col padre si sposta con la motonave sulla tratta Porto Torres-Genova. Di origini sassaresi, la Pitzorno narra del padre che le ha fatto visitare per intero la città, passando per i posti meno frequentati, e del Forno Pizzorno, cognome a cui probabilmente la sua famiglia è legata. Mentre il fratello si trastulla contando gli infiniti Pizzorno sull’elenco telefonico della città, l’autrice scorge un bimbo in abiti semplici che corre per strada. Eccolo, dopo secoli non ha dubbi: è Federico.