Ignoranti e sapienti, prigionieri in una stessa stanza

Al mondo della carne il sapere del libro ha imposto il suo dominio, il suo tempo e i suoi luoghi grazie alle tecnologie alfabetiche. Ora i linguaggi digitali offrono alla vita umana la possibilità di collocarsi più avanti rispetto ai vincoli sino qui sopportati come verità.

Ecco il gioco tra molteplici, opposti e trasversali, punti di vista che un grande fotografo come Gregory Crewdson ha messo in scena dentro lo stato di reclusione di una casa, suggerendoci che spazio interiore e isolamento territoriale del corpo di una singola persona abbiano tra loro una intensità tale da potere significare l’abitare stesso nel mondo. Per una volta, per esergo, epigrafe, a un mio articolo voglio usare una immagine e, come appunto si addice a una citazione messa a capo di un testo scritto, questo testo iconico non fa da riferimento diretto alle questioni che vi si affrontano, ma vuole soltanto illuminarne le intenzioni. Che sono quelle di sviscerare le ragioni della distanza sociale tra sapienti e ignoranti. Una distanza di cui la scuola e la formazione in generale sono il teatro. Le mentalità in conflitto tra i molteplici attori dentro e fuori scena, dentro l’aula e dentro la società. Dentro la società e dentro le persone. Dentro il loro abito e dentro la loro carne. Contrariamente a ciò che si pensa o viene fatto pensare in ambienti ideologici, sapienziali e istituzionali, la scuola è da sempre un contenitore di contenuti che la attraversano e sovrastano dall’esterno e dall’interno. Ma oggi l’aula, pur stretta ancora e forse più che mai nelle funzioni strumentali di maggiore osservanza per le quali è nata, è invece sempre più sovrastata, attraversata e corrotta dalle forme più o meno espanse, più o meno decentrate della società, tra le quali soprattutto, e con effetti traumatici, quelle ultime e ultimative dei linguaggi digitali che vanno sempre più sovrastando le passate piattaforme di comunicazione.
Torniamo dunque alla scena predisposta da Crewdson. Una stanza vuota con presenze e reliquie di vita, un mondo finito, concluso,  e per ciò steso infinito, su cui – allo spettatore (lupus in fabula, terzo incomodo) – si apre una porta che fa a sua volta da cornice a un corpo nudo di donna, e dietro di lei uno specchio che le fa da ritratto per quanto quasi senza più volto, espressione. Di lato – trasversalmente all’asse prospettico – un altro specchio riflette un cesso, a volere rimarcare che alla carne la scena intera si riferisce … Da questa si può partire per arrivare al suo fulcro prospettico, appunto il ritratto di una persona, il cui sguardo è dentro e fuori di sé. E viceversa: dalla cornice stringere lo sguardo al suo centro. Ma si tratta di due racconti diversi. Di due percorsi di quella banalità e trivialità dell’esistenza umana in cui sapere e non sapere entrano in penombra e si confondono tra loro. Al di là del bene e del male. Al di là del bisogno e del desiderio: le due pulsioni sociali dell’essere vivente.
La scena di Crewdson basta da sola a farci intendere la umana complessità esistenziale abitata, ordinariamente vissuta, da un corpo che, denudato in e da uno spazio apparentemente recluso in sé, vive la verità/finzione dalla propria carne attraverso-per mezzo di una pluralità di connessioni e prospettive tra pareti, oggetti, specchi, abiti, mobili (ovvero la narrazione di ogni possibile protesi umana attraverso una sua localizzazione estrema). Non rappresentano ma sono realmente il mondo esterno. Un mondo che non ha bisogno di finestre per essere percepito e rappresentato, ma soltanto di sensibilità emotiva. Desiderio di comprensione.


Prologo: il libro, il virus, la scuola

Giornali, libri e reti ribollono di virus. Un maelstrom alla rovescia: tutto ritorna alla superficie e tra i tanto relitti c’è tra tutti e più di tutti la scuola: il suo situarsi tra educazione familiare e formazione sociale. Dunque il tempo e lo spazio in cui abitano – fronte a fronte – infanzia e maturità dei singoli e della collettività. La scuola comprende in sé le matrici di ogni situazione di socializzazione: dal ventre materno, all’asilo, sino all’istruzione. Se anche una soltanto di queste matrici si ammala, essa contaminerà tutte le altre. Forse può allora non meravigliarci il fatto che il virus Covid19 (e ogni sua variante), da fattore reale, dotato e capace di vita propria – e in quanto tale fattore di morte, di sofferenza psicofisica e paura per il genere umano – sia stato in un certo senso accolto e lasciato dilagare in ogni sfera teorica e simbolica, estetica ed etica, sociale e politica. Trovando dentro a ciascuna di queste sfere una eguale e da tempo già avvenuta contaminazione dei loro valori, delle loro qualità, dei loro contenuti e mezzi di sopravvivenza.  E, pur non volendo, lo dicono proprio quelli che, essendone la causa, negano tutto ciò e arrivano persino a entrare in conflitto tra loro e tra sé e sé su chi ne abbia la responsabilità.

In questi mesi di sofferenza umana e civica, sociale e politica, istituzionale e professionale, il più che tardivo, sordo e improvvisato, spesso disonesto dibattito di governo e di opinione pubblica sulle rispettive doti della formazione a distanza oppure della formazione in aula, ci sta dimostrando quanto la tragica occasione pandemica non venga colta dai “decisori” in corso per rompere con il passato, ma per rigettarlo dentro il presente e addirittura dentro il futuro. L’imperativo – una sorta di etica opportunista – è prendere rapide decisioni, provvedimenti urgenti uno dopo l’altro e uno contro l’altro, riguardo alla formazione. Con la pretesa di aggiornare o riformare apparati e mezzi della formazione senza prima cambiare radicalmente i suoi contenuti, come invece sarebbe necessario a trovare le soluzioni più opportune per una effettiva realizzazione dei suoi fini. Darsi una forma che abbia senso e forza per realizzarsi. E questo obiettivo – salvarsi dall’irreparabile – dovrebbe dunque non tornare a prima ma andare oltre: procedere indipendentemente dall’emergenza virale. E invece, con la pretesa di sapere attraverso il risaputo, molto si parla sul “che fare” subito qui e ora, sempre più stretti tra due epoche in reciproco conflitto e scompenso: quella di una formazione da tempo “malata” e quella di un virus che ora vi si aggiunge con effetti traumatici e drammatici: sull’economia, il lavoro, la qualità della vita. Cosicché ad affrontare tali effetti non potranno esserci vocazioni e professioni in grado di affrontarli.

Si è parlato di tutto questo anche su Facebook, in una delle mie preferite nicchie di intrattenimento e scambio amicale, per diretta sollecitazione di Derrick de Kerckhove, ricercatore e teorico in campo mediatico – da Toronto a Napoli – tra i più attenti alle conseguenze sociali della digitalizzazione del mondo umano e non umano. S’è discusso tra “amici” di vario orientamento critico sulle diverse opzioni culturali tra chi conserva e chi invece ricusa il primato storico, scientifico e ideologico, detenuto dai linguaggi del “libro”. Del libro, non solo in quanto scrittura alfabetica stampata su carta (o in digitale, come fosse pietra), ma del libro come mentalità, bolla culturale, simbolica e funzionale, del sistema di valori ancora potentemente alimentato, sostenuto e tramandato dagli apparati e dalle istituzioni, dalle politiche e professioni, della società moderna. Per alcuni tra noi, compreso me stesso, si tratta di un sistema di valori, pregiudicato e superstizioso, che sta sopravvivendo alla stessa progressiva obsolescenza e morte dell’editoria cartacea. Dunque della scrittura-lettura dei libri come unico fulcro dell’intelligenza umana. Per altri di noi, seppure della nostra stessa “cellula” di navigatori digitali (e tra questi proprio Derrick de Kerckhove), il primato del libro varrebbe invece tuttora proprio come garanzia di un pensiero critico, solidamente fondato e progressivo o persino di per sé progressista, non abbandonato al rischioso marasma sociale, per quanto fascinatorio, delle reti. E, negli stessi termini, per le stesse ragioni, varrebbe come baluardo contro la strapotenza raggiunta dalla tecnica sulla persona umana e sui suoi più irrinunciabili valori (la libertà e … il suo “dominio” in veste di “democrazia”). La domanda cruciale è dunque se i libri siano e debbano essere ancora considerati la primaria fonte di conoscenza in grado di bilanciare gli effetti sociali (etici e estetici, politici e civili) della avvenuta nascita del “nostro gemello digitale”, come definito appunto dall’amico Derrick. 

Partecipando a questa discussione, Salvatore Iaconesi, tra i più vivaci attori e protagonisti di vita digitale, ha scritto: “Per avere a che fare con questa globalità, iper-connessione, intensità, quantità, attività, sensazione, il nostro corpo (composto di carne) non ci basta più. La nostra carne, come medium del sentire, non è più sufficiente”. Questa insufficienza è la breccia che ha dato spazio, territorialità, alla IA: una dimensione tecnologica che sintetizza tutte le altre: il digitale, le reti, gli algoritmi. Dimensione che Iaconesi ritiene possibile fronteggiare solo ricorrendo alla qualità distintiva, specificamente umana, del gioco (così cresciuta con lo sviluppo dei videogiochi), in grado di “dribblare l’IA nel modo più efficace possibile” ai fini della persona (corpo e carne) e non della natura puramente strumentale, autoreferenziale, del sistema macchinico in cui è chiamata a funzionare. È a questa sua coraggiosa affermazione che qui vorrei affiancarmi. Con qualche mio eccesso da dilettante. Quindi per mio endemico difetto o meglio affezione personale forse assai più che per accertata incompetenza tecnoscientifica.

La corazza della modernità 

Nel parlare di IA, dunque d’ogni sua applicazione digitale, robotica e via andando … molti influencer (categoria di operatori sociali che, desunta dal marketing, si può ormai estendere a giornalisti, intellettuali, professionisti e politici) tendono o meglio sono portati a immaginarsi che il mondo esista soltanto in quanto e perché umano, apparato economico-politico umano. E dunque credono che tale mondo sia orientato a muoversi in superficie – sulla propria superficie, compresa la pelle umana così come la crosta terrestre e ogni profondità culturale – sempre e da sempre allo stesso modo: ancora e inevitabilmente, mirando verso se stesso e i suoi più estremi confini, comunque “terrestri”, nel senso cioè di geopoliticamente umani. È Atlante, fratello di Prometeo, a reggere il mondo sulle sue spalle di Gigante. Il viaggio (al contrario delle negate speranze dei corpi migranti altrove dalla propria morte) è ancora adesso quello delle “tre caravelle” verso nuove terre e altri corpi da sfruttare (un vecchio film di fantascienza si immaginò, in guisa di conquista planetaria, un viaggio dentro il corpo umano come fosse un “mondo analogo”). I conflitti di potere sono ancora tra amici e nemici che, in urto tra loro, abitano e si contendono uno stesso territorio, le stesse risorse, il medesimo futuro, senza ascoltare altro che se stessi. Amici e nemici in e di una esistenza che non appartiene loro e tuttavia essi attraversano da proprietari e conquistatori. O ne sono attraversati.

È invece proprio il metodo di ricerca esperienziale di Iaconesi a mostrarci di quanto e come ci si possa allontanare dai paradigmi più duri, resistenti e insensibili – corazzati – della modernità. Al posto del suo occidentale “principio speranza” – la salute come unica possibilità di salvezza – lui ha messo la malattia: la sofferenza fisica diventa un valore da non rimuovere (prassi quotidiana, invece, dei conflitti sociali, delle loro azioni e  promesse). E la cura – non del sano versus il malato ma di questi verso il sano – è messa al posto della conoscenza insensibile. La coscienza del male, al posto del libero arbitrio del bene. La carne al posto del corpo e il corpo della persona al posto del soggetto sociale. Del suo interesse dispotico. Ce n’è abbastanza per fare un laboratorio di pratiche umanamente situate in grado di funzionare almeno da correzione se non da vaccino all’idea che la civilizzazione umana debba dovere continuare a navigare lungo le medesime rotte occidentali, costringendo il nostro corpo a seguirle e perseguirle. A espandersi con esse e in loro nome. A farsi soggetti che si sacrificano soltanto per sacrificare.

Le ultime tappe delle neuroscienze e gli orizzonti a venire della fisica quantistica si sono fatte ora tanto strabilianti da prestarsi a potere frantumare la formula classica dell’essere umano in quanto unico soggetto identitario destinato a conoscere e conquistare la terra e il cielo. A farsene carico come Atlante. E potere così sfigurare la missione prometeica simbolicamente impressa, stampata, sulla figura di Galileo. E così mutare definitivamente la direzione del suo cannocchiale. Bisogna invece allargare lo sguardo con la vista del microscopio. Per mezzo di macchine, il soggetto moderno – l’angelus novus che le ha concepite, sviluppate e fatte progredire nello spazio e nel tempo – sta rivelando la natura, essa stessa macchinica, di qualsiasi organismo esistente al mondo in ogni sua minima, media e massima dimensione. Dimensioni che diciamo propriamente materiali, quando se ne può riscontrare l’effettiva loro consistenza fisica, ma che invece – nell’impossibilità di tale percezione e di un conseguente riscontro – diciamo impropriamente immateriali: sensazioni, finzioni di funzioni, relazioni affettive, appetiti o repulsioni, memorie che ci governano o ci repellono. Simulazioni fantastiche, creazioni che diciamo creatività, definizione auratica di cui non a caso le culture post-moderne continuano a riempirsi la bocca. L’elenco di questi dicitori di creatività è infinito. Così come quanti, seppure con ogni buona intenzione, ricorrono alle arti come placebo.

Tuttavia, ogni immaginazione umana – già prima di ogni sua concreta realizzazione, oggetto d’arte e artificio – funziona e può funzionare solamente grazie a motori. Grazie a continue sequenze progressive tra loro concatenate mediante l’espansione di dispositivi input-output, hardware-software, of-on. Dispositivi in grado di produrre immaginazione perché venga consumata e di consumarla perché venga prodotta. Trans-metterla. Ovvero il mondo come perenne rifinitura (il finish di cui ebbe a parlare il vecchio Marx). E dunque, prima di ogni altra interfaccia necessaria alla nostra carne per intrattenersi materialmente con il mondo in cui è trattenuta (dallo stagno di Narciso a Internet), c’è da considerare quella interfaccia – propriamente la più personale, singola e intima – che ha preso il nome di interiorità. Anche quella che ci è stata detta anima: la presenza in noi più “spirituale” – seppure la etimologia di spirito  rimandi a respiro della carne – e per questo ritenuta più aliena da ogni scambio e accumulazione di interessi materiali, terreni. Tuttavia, anche essa, l’anima, è il prodotto di sintesi di una serie di impulsi di natura neurologica che non a caso, vissuti in modo inconscio o fintamente conscio, hanno fatto e fanno da ponte e apertura, salto, verso il divino. Da richiamo di una potenza in atto fuori del mondo. Quindi di un desiderio di salvezza deluso della propria impotenza. Mancanza. Qui si confrontano l’obbligo a vivere e l’obbligo a credere.

Le macchine – qualsiasi dispositivo tecnologico: dalla mano all’osso di Kubrick al martello alla spada al pallottoliere e alla penna d’oca sino all’IA – sono state e sono estensione della nostra carne. Coraggiosamente – quasi a volere trovare l’anima da soffiare dentro al “gemello digitale” in cui ci siamo tradotti – Iaconesi ci dice che una umanità da sempre siffatta in virtù della propria stessa carne non ci basta più “come medium del sentire”. Quindi ha un reale bisogno delle nuove macchine numeriche?

La carne e il mondo nuovo

Pensiamoci insieme. Se già il “mondo nuovo” della voce umana venne alla luce grazie alla liberazione della bocca dalla sua precedente funzione prensile, ciò vuole allora significare che, procedendo su questa stessa linea, l’intera nostra carne è infine giunta al punto – estremo – di esonerarsi da se stessa? Così ragionando (è il mio modo e penso anche quello di Iaconesi), si arriva sempre e comunque a dovere riconoscere lo stato di necessità e il desiderio di sopravvivenza della natura che abitiamo (le leggi non scritte ma per così dire automatiche della Natura) e dalla quale siamo abitati minuto per minuto. Proprio agendo le qualità naturali che lo costituiscono, l’essere umano si è in esse e per esse “distinto” a tal punto, per mezzo della sua politica di civilizzazione, da arrivare a separarsi o meglio credere di essersi separato dai linguaggi non umani, inumani, della stessa natura che lo ha partorito e fatto crescere. Tanto da arrivare a credere di avere avuto la effettiva potenza di realizzazione necessaria a tale definitivo distacco. Per questa ragione, il leader di un’altra comunità digitale trans-nazionale, Massimo Di Felice, si è da anni esiliato da ogni territorio geopolitico e mentale, operativo e ideologico, in cui i linguaggi analogici e persino digitali siano esclusivamente la punta di diamante del soggetto storico della globalizzazione capitalista e post-capitalista. E quindi, proprio per questo, sempre di nuovo in mano ai saperi della civilizzazione e delle sue politiche di rigetto e sfruttamento proprietario anche della vita rimanente (selvaggi, animali, vegetali e ogni materia inorganica). Impresa non facile, questa di Di Felice, dato il rischio che corre di confondersi, non ripagata, con le politiche ambientali e ecologiche partorite dalla falsa coscienza occidentale, così abile a sfruttare le catastrofi di cui è la causa prima.

Ma veniamo al punto su cui ci interroga Iaconesi. Dato l’avvento già manifesto e riconosciuto della iper-potenza tecnologica, cosa ancora resterebbe da esonerare nella carne umana dopo avere raggiunto il proprio corpo e il proprio cervello? Interessante domandarselo: certamente perché ci impone come cruciale, ultimativa, la riflessione (generalmente condotta in termini esclusivamente ideologici) su quanto in effetti sia rimasto all’umano di veramente umano (nel significato che secondo il linguaggio comune – d’abitudine, d’istinto – si attribuisce all’aggettivo). Stando al progresso storico e sociale – “residuato bellico” di una qualsiasi delle applicazioni tecnologiche con cui la nostra carne si sarebbe liberata della propria cecità e violenza – resta allora utile chiedersi quanto l’Umanesimo possa di conseguenza arrivare a scoprirsi di fatto non più come virtù del libero arbitrio – e conseguentemente della sovranità dell’essere umano sulle cose del mondo – ma semplicemente, brutalmente, come virtù della potenza della tecnica. Eccetera, eccetera … vecchia questione. Ancora cumuli di libri! 

Mi interessa di più guardare la questione da un altro punto di vista. Sotto altra impellenza. Credo che la nostra carne sia senza fondo e tuttavia proprio per questo – il suo essere una sorta di voragine per il nostro sentire – non ci sia mai bastata per vivere. Da qui, dunque, la catena di esoneri di cui si fa l’elenco, in termini lineari, progressivi, storici, per quanto senza avvertire, confessare, quanto essi sono di volta in volta avvenuti e avvengano in molteplici condizioni temporali e spaziali variamente distanti tra loro: non in uno stesso momento e non in uno stesso luogo. E quindi penso che la giusta sensazione di una progressiva insufficienza operativa della carne di cui ci parla Iaconesi, volendo orientarci verso tale insufficienza in quanto aperta ad una sua integrale tecnologizzazione di se stessa, riguardi piuttosto soltanto l’esiguo, ristretto, noi di una intelligenza antropologico-culturale di esclusiva proprietà dei ceti sociali pienamente alfabetizzati, socialmente istruiti e, a ragione di questo, egemoni. Appunto il “noi”: non tutti gli esseri umani, ma è la loro selezione, scrematura, a dominare su tutti gli altri. E con diversi mezzi a dominare sulla molteplice diversità delle loro esperienze vissute. Privilegiata da sé medesima a proprio vantaggio e da se stessa tecnologicamente aumentata a fini strategici di supremazia, si tratta dunque di una carne che si trova ancora a vivere oggettivamente e soggettivamente separata da una massa infinitamente più espansa di vita organica e inorganica. Per questo – e lo vado sempre ripetendo – si può pronunciare e scrivere la prima persona plurale soltanto pensandola tra virgolette, così  da condizionarne e limitarne il senso e la credibilità. E di conseguenza, per comprenderne il reale significato, sarebbe necessario virgolettare anche l’aggettivo tutti


Tutti medici e sapienti 
Ci si dovrebbe finalmente convincere di quale inganno si nasconda nel gioco di società tra élite e mondo.  La bolla di pensiero e azioni rappresentata dal “noi” si mantiene scissa dal vero mondo di cui essa è invece ospite indiscreto eppure sovrano. Per la società della conoscenza e del sapere la sfera del tutti&tutto in senso pieno, reale, è di fatto quasi muta. Alla sua coscienza critica risulta una estensione sommersa, narcotizzata, dai troppi rumori di fondo e dalle interferenze che vengono dalle infinite sensazioni rarefatte, cieche e mute, da cui il “noi” si protegge. La sua “eccellenza” – oggi non a caso una delle parole d’ordine più correnti in tutte le università del mondo e nei loro codici di comportamento etico e professionale – agisce dal di fuori, da estranea, assente – in sostanza disabile – rispetto al mondo.  E la vita del mondo è dunque nettamente, crudamente, ancora distante dal “noi” che ne ha usurpato ogni possibilità di rappresentazione. Separata dalla sua quasi perfetta sintesi tra conoscenza e possesso.

Ad opera di questi soprusi, il “noi” raggiunge il proprio scopo: si dota di reciproca comprensione esclusivamente tra i suoi membri interni. Questa è la comprensione realizzata dai canoni dell’istruzione e della formazione, che fanno del proprio linguaggio un vincolo etico e estetico. Familiare, sociale e civico. La coppia antagonista amico-nemico – coppia alla quale il pensiero politico moderno ha continuato ad affidare i destini del mondo – resta così tutta dentro i limiti, ancora oggi sostanzialmente invalicabili, imposti giorno per giorno dalle recite sapienziali così ben “forgiate” dall’Umanesimo. Dalla sua lunga sequenza aristocratica di forme di sovranità, prima celesti e poi terrene, che sono arrivate sino a ieri e ad oggi. Sino al bagno di sangue della democrazia, alla sua condizione utopica/distopica tra sovranità della politica e sovranità del “popolo”. Sovranità della nazione-stato e sovranità dell’individuo. Delle pene e dei diritti. Tale tradizione lega me e te – i nostri “noi” dati per amici e nemici – al possesso della medesima dote: quella del Libro, la parte che lega il tutto.

Torniamo quindi all’inizio: la cosa da fare è andare contro il sistema di valori e pratiche incarnate in quella forma di vita sociale che ha avuto nel libro il suo dispositivo ideale – e a ragione di questo ritenere che solo le piattaforme di comunicazione digitali possano funzionare da antidoto, territori di contrasto, alle malie della modernità ultima: grande letteratura, grandi narrazioni e grandi teorie, ma senza più altre vie d’uscita dalle loro stesse auto-fascinazioni. Dunque una linea di condotta basata sulla digitalizzazione del mondo è l’unica a potere andare in collisione con chi lancia invece anatemi all’indirizzo di barbarie umane che sarebbero frutto degli errori e delle colpe di una civiltà senza più educazione (trascinamento) verso le forme di conoscenza tramandate dai libri e dai modelli antropologico-culturali dei loro scrittori. Autori e controllori.

Lo sforzo da compiere è però tutto da indirizzare verso la sostanziale, effettiva comprensione della specificità di questa sorta di svista – per più aspetti anche reciproca – tra i due divergenti mondi tecnologici che oggi abitano la terra: quello del libro e quello della IA, se ancora mi consentite la sintesi terminologica di cui mi servo. Questa svista continua a accadere per tre ragioni. La prima consiste nel fatto che, spero si sia capito, il nodo di cui stiamo parlando in questo articolo non riguarda le funzioni che il libro e anche ogni altra sua traduzione digitale possano avere avuto ed essere destinate ad avere nel campo della ricerca e persino tecno-scientifica (uno straordinario studioso di letteratura come Franco Moretti, per esempio, ha già saltato il fosso di separazione tra i due campi). La seconda ragione sta nel fatto che, alla frequentazione dei territori analogici e a quella dei territori digitali, non corrispondono esattamente le stesse rispettive vocazioni professionali. C’è chi frequenta la rete conservando la propria identità cartacea e chi frequenta la carta conservando la propria identità digitale. 

La terza ragione è a mio avviso più sostanziale. La sfera umana, in quella sua tanto estesa parte che la sfera sapienziale considera ignorante, viene presunta incapace di valere socialmente in quanto reputata arretrata dalla presunzione alfabetica di credere d’essere una già compiuta espressione del mondo, costituirlo pienamente e costituirne il destino. Al contrario ci si può forzare a pensare che siano proprio le qualità analfabetiche imputate alle masse incolte, in-civili, ad essere immensamente più avanti nel senso di ancora, seppure virtualmente, aperte al futuro (aperte al tempo di cui esso necessita per realizzarsi nello spazio e allo spazio di cui, per sopraggiungere e realizzarsi, ha bisogno il tempo). Lo spazio umano, il suo abitare in natura, viveva già molto prima che il tempo della civilizzazione, il suo progredire, iniziasse a correre sempre più velocemente e, per così dire, a lasciarselo alle spalle. E dunque questo spazio in tutto umano – pur trascinato come tale da e in un futuro per sé monco e unilaterale – ha continuato a vivere sino ad oggi. Al mondo della carne – la vita organica più vicina alla vita della natura – il soggetto sapienziale ha imposto il suo tempo e i propri luoghi. Grazie alle tecnologie alfabetiche ha esercitato il proprio dominio, le sue teorie e pratiche di assoggettamento, collocandosi più avanti proprio in forza dei limiti – delle limitazioni – imposti dalla vita sapienziale a quella umana. Ora, alla vita umana, alle sue possibilità di espressione, i linguaggi non più analogici ma digitali offrono, data la natura virtuale delle loro piattaforme, la possibilità di collocarsi più avanti rispetto ai vincoli sapienziali sino qui sopportati come verità. Siamo in un’epoca di intervallo in cui è cruciale che le capacità di comprensione umana delle macchine artificiali si rendano sempre più agibili per i non-sapienti.

Conclusione. L’unico modo per contravvenire allo schematismo e persino manicheismo di questa mia lettura – e così liberarsene in virtù di una semplice, banale, considerazione – sta nel riconoscere quanto, al di là della loro reciproca repulsione, la carne dei sapienti sia anche la carne degli ignoranti, seppure così violentemente divise dalla società. Quanto, dunque, la singola persona costituisca nel suo intimo la più profonda piattaforma espressiva di cui dispongono le sfere del sapere e quelle dell’ignoranza (così come sin qui ho cercato di declinarle): la vita che oggettivamente più le lega e le divide. Ripartire da questo ci porta a dovere riconoscere nella singola persona, dentro la sua coscienza infelice, il suo io diviso, il teatro di conflitti che la dividono tra due sue diverse, opposte, presenze, necessità: armate l’una contro l’altra. In attesa di una decisione. La posta di questo conflitto è il dolore della carne in sé e per sé. La sofferenza inferta e subita dovendo vivere socialmente.