Igiaba Scego è una scrittrice italiana, nata a Roma nel 1974. Proviene da una famiglia somala che si trasferì nel nostro paese dopo la seconda guerra mondiale. Il padre era un uomo colto e conosceva le lingue. Durante il colonialismo, dovette fare da traduttore per il criminale di guerra Rodolfo Graziani. E, per un periodo, svolse anche il lavoro di diplomatico. Per questo motivo, l’autrice porta su di sé i segni visibili e invisibili di questa doppia identità che spesso significa lacerazioni e sofferenze, accentuate dal fatto che, attualmente, alcuni componenti della famiglia di origine sono letteralmente sparsi per il mondo: Gran Bretagna, Stati Uniti, Somalia, Quebec. Di fronte a tutto questo, Scego ha sentito il bisogno di raccontare la storia sua e della sua famiglia, forse anche per mettere ordine in un universo molto complesso. In altri libri precedenti aveva affrontato la questione, ma mai con questa sistematicità e profondità.
Nasce così Cassandra a Mogadiscio, libro coinvolgente e impegnativo che, tra l’altro, ha il pregio di farci conoscere non solo la biografia della scrittrice ma molto del contesto in cui è avvenuta la sua crescita. e la storia della distruzione definitiva di Mogadiscio, amatissima città verso cui è rivolto l’impegno della memoria per non perdere il senso delle proprie radici e della propria fisionomia. Come fu per la città di Troia, che non ascoltò Cassandra, figlia di Ecuba e di Priamo, che ne profetizzò la fine e la distruzione, Scego piange la rovina predetta della sua città.
È proprio la necessità di conservare e tramandare la memoria che spinge l’autrice a rivolgersi alla nipote lontana dando al suo racconto la forma di una lunga lettera. Non solo un espediente letterario, dunque, ma molto di più. Igiaba diventa la mediazione tra la ragazza che vive in Canada e sua nonna, madre della scrittrice. Le due donne infatti non possono comunicare facilmente tra loro perché non parlano la stessa lingua. Il libro inizia con lo strazio di una separazione e finisce con alcuni addii. Nel mezzo tante storie e sullo sfondo molto spesso la guerra, le vicende terribili del colonialismo italiano in Somalia destinato a perdurare anche dopo la caduta del Duce attraverso iniziative politiche e commerciali avviate dall’ONU. E la guerra civile contro Siad Barre, feroce dittatore che a parole proclama il socialismo e di fatto instaura una vera dittatura. Più tardi le azioni senza quartiere delle bande armate di mercenari e combattenti. Infine Mogadiscio, rasa al suolo. Di tutto questo Roma e l’Italia hanno mantenuto una memoria senza dubbio edulcorata. Nella toponomastica e nei musei: basti pensare ai numerosi oggetti trafugati durante il colonialismo e conservati nel “Museo della Civiltà e del Lavoro”.
All’inizio della narrazione, Scego dichiara che il filo conduttore del racconto è Jirro che in somalo vuol dire malattia. Dolore, senz’altro, ma anche nostalgia e malinconia. Jirro sarà una presenza costante in molte delle situazioni che vengono raccontate e che sembrano tutte segnare ferite decisive nel cuore di chi narra e di chi legge. Si tratta di un cammino che non fa sconti e si sofferma, per esempio, sulla crudeltà del rito dell’infibulazione che coinvolse anche le donne della famiglia a cui l’autrice appartiene: Corpi mutilati, violati, dileggiati per il colore della pelle. La sensibilità femminile verso il tema del corpo aggiunge realtà ai fatti raccontati, la vista appannata di Scego nutre la memoria individuale e collettiva dichiarando che è “nella nebbia che spesso si nasconde la verità”.