Marco Cicala / Iberia felix

Marco Cicala, Eterna Spagna, Neri Pozza, pp. 432, euro 18,00 stampa, euro 9,99 eBook

Come non fidarsi di Marco Cicala e della sua scorribanda española, in una regione che più barocca, tenebrosa e oltremoderna non si può? Si comincia con Velásquez alle prese con i nani, che andavano per la maggiore nei secoli XVI e XVII, insieme ad altri sventurati deformi la cui stranezza non impediva loro di sviluppare intelligenze sopra la media. E infatti i potenti li usavano senza remore e diremmo senza pietà. L’artista, nella reggia di Filippo IV ne dipinge fattezze e impertinenze, assecondando quel che veniva definito monarca degenere. In fondo lui e tutta la corte si divertivano non poco in una Madrid sperperona e dall’erario dissestato.

Insomma, libertà d’artista dentro e fuori i confini della tela: ma, avverte Cicala, in quel Seicento era alternativa non da poco. E come tenere a bada la risata sorvolando a bassa quota certe ornamentali peripezie di un Salvador Dalì quando incontrò il “trasversale” Fernando Arrabal, drammaturgo, regista, autore di variegate prodezze, nonché mondano cantore del clitoride, la cui ode ha fatto il giro del mondo (per dire, la versione ceca fu curata nientemeno che da Milan Kundera)? Avida dollars, come venne definito Dalì da Breton, era una perfetta macchina mangiasoldi capace di inondare il mondo, oltre che di storielle più o meno pornografiche e apocrife, anche di opere false con firma vera e opere vere con firma falsa. Un genio.

Queste combriccole tardo avanguardiste, spesso dotate di indecenza congenita ma divertita, sono inseguite da un Cicala in gran forma, la cui prodigalità linguistica non manca di pensieri selvaggi e serie storicizzazioni. Sono una sessantina i medaglioni dedicati alla Spagna eterna, dove compaiono veri Don Chisciotte che però non si sa chi siano nella ventosa Mancia, vere rivoluzionarie più o meno orgasmiche come Santa Teresa d’Avila da cui sono stati stregati più o meno tutti fino al Novecento, vere suore carmelitane che non si rivelano nemmeno sotto tortura, veri Garcia Lorca il cui vero assassinio è ancora fonte d’indagini.

E poi la señora Rius, alias la disinvolta Lydia Artigas che ci parla di un Orson Wells masturbatorio, del grande amore Gregory Peck, dell’impegnativo Belmondo, dell’onnipresente Dalì. Appare la vicenda geografica e plurisecolare dello sherry, il vino di Jerez, in mano ai potentati inglesi motivo per cui le più famose etichette hanno nomi British. E il grande giallista Ledesma, additato pornografo dal franchismo ma benedetto da Somerset Maugham, mago di macchine narrative messe a mollo nel formicaio umano della Barcellona di un tempo, scomparsa e rimpianta. Cupe ossessioni d’autore.

E la seria, convinta spagnolità siciliana di cui Sciascia era consapevole assertore. Il clan pop di Almodóvar, lanciatore di pellicole fra Mancia e Madrid. Appare persino un Miguel Bosé, specie di highlander tipo l’Orlando di Virginia Woolf planato nel mondo del Varietà giungendo da una diva e un matador astri mitologici del bel mondo. Anch’egli emblema di questa Spagna sulfurea trasformata da Cicala in un grande romanzo d’avventura. Dove i personaggi hanno scritto la loro vita mentre la spendevano a piene mani. Tutte storie che qui, in somma hispanidad, trovano il proprio colmo.

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