Consegnato ormai definitivamente alla mitologia nera degli spauracchi buoni per film e serial tv più horror che investigativi, il Mostro di Firenze (dei cui inspiegati crimini si annuncia imminente l’ennesima ulteriore riduzione televisiva sotto la regia del bravo Stefano Sollima), è un personaggio tanto presente nel nostro disturbato immaginario, quanto assente nel panorama rassicurante delle certezze acclarate dai procedimenti giudiziari. Se di altri efferati criminali passati al novero della narrativa true crime scritta o audiovisiva – gente come Jeffrey Dahmer, Ted Bundy, John Gacy, ecc. – abbiamo un’identità individuale, aberrante ma definita, di cui sappiamo praticamente tutto, del Mostro di Firenze invece ci restano solo una serie infinita di teorie, più o meno attendibili, e un’ampia costellazione di personaggi, nessuno innocente e nessuno provatamente e irrefutabilmente colpevole, figure ambigue incastrate da prove indiziarie e contraddittorie testimonianze che – secondo i momenti, i magistrati, i processi e le contingenze – hanno portato alla loro condanna o alla loro assoluzione (spesso, in tempi diversi, sia all’una che all’altra) ma mai ad uno smascheramento probatorio definitivo e inoppugnabile. Il nome del Mostro è Legione.
Del Mostro sappiamo molto e non sappiamo nulla. Tanto che si è creata negli ultimi anni, ormai a vari decenni dall’ultimo delitto, una sterminata letteratura sul caso – probabilmente Il Caso di tutta la cronaca nera nazionale di ogni epoca – fatta non solo di libri, articoli e pubblicazioni, ma di una pletora di siti internet, banche dati, e addirittura gruppi social in favore di una o l’altra delle infinite ipotesi che mettono in dubbio, in modo più o meno circostanziale e circostanziato, le esigue verità processuali emerse dalle indagini finora condotte (e non ancora terminate a tutto il 2023, nonostante la scomparsa di gran parte di protagonisti e comprimari dei tragici eventi) . Tutto questa sterminata galassia di tesi e controtesi, congetture e illazioni – fondate o meno – che unisce e separa appassionati, ricercatori, storici e aspiranti detective, viene definita da chi se ne occupa mostrologia e conta numerose e variegate correnti e sottocorrenti, osservanze e collocazioni opposte e conflittuali, aspri e accesi contrasti.
C’era bisogno, intorno e a latere di questo complesso e delicato contesto, di un’opera a carattere enciclopedico che – senza assumere una posizione esplicita in termini troppo netti ed esclusivi – tentasse di rimettere ordine, chiarire e precisare tutti i fatti noti, gli scenari, le testimonianze, gli indizi e i personaggi coinvolti nel tortuoso e impenetrabile cold case fiorentino. Il monumentale lavoro di Roberto Taddeo, da poco uscito per Mimesis, (me ne sono già occupato su Carmilla)svolge egregiamente questa necessaria funzione articolandosi in tre appassionanti (e per molti versi terrorizzanti) volumi che sviscerano la vicenda in tutte le sue diverse fasi e intricati percorsi.
Nel primo volume dopo aver delineato nei dettagli la completa sequenza dei delitti – partendo dal primo del settembre 1974, perpetrato fra Vicchio e Barberino di Mugello e l’ultimo del settembre 1985, a Scopeti vicino a San Casciano Val di Pesa – si approfondisce la cosiddetta “pista sarda” che riconnette ai delitti del Mostro – per l’uso della stessa pistola, mai ritrovata, e dello stesso tipo di proiettili, Winchester calibro 22 Long rifle, serie H, a piombo nudo o ramati – un precedente delitto avvenuto, con dinamiche assai diverse, nell’agosto del 1968 vicino a Signa.
È questa la pista principale degli anni ’80 – perseguita dopo una misteriosa soffiata anonima, fatta passare ufficialmente per la geniale intuizione di un carabiniere – che mette in relazione l’arma del primo crimine con quella dei successivi. Una linea di indagini che oppone – evidenziando in modo paradossale le contraddizioni e inefficienze delle “forze dell’ordine” – i carabinieri con il giudice istruttore Mario Rotella – risoluti nel sostenere che “la pistola di un omicidio non passa mai di mano” e che quindi chi ha commesso il primo delitto in cui compare (e scompare) la misteriosa Beretta, nel 1968, sia necessariamente l’autore anche di tutti gli altri – alla polizia, la Questura e i procuratori Piero Luigi Vigna, Paolo Canessa, Carlo Bellitto e Francesco Fleury, con la neocostituita (nel 1984) SAM, la Squadra Anti Mostro, che cercano (senza praticamente cavare un ragno dal buco) in tutt’altre direzioni.
Ne sono protagonisti, tutti emigrati in Toscana dalla Sardegna, un minorato mentale, marito cornuto contento (ma non troppo), Stefano Mele, che cambia ogni momento versione dei fatti sull’omicidio della moglie fedifraga e di uno dei suoi numerosi amanti, e accusa ora sé stesso (facendosi così parecchi anni di gabbio), ora un ampio spettro di parenti e amici sul quale emergono soprattutto due poco raccomandabili fratelli, Francesco e Salvatore Vinci, entrambi amanti della moglie (uno dei due, bisessuale, anche del marito); infine un bambino, il figlio di Mele, testimone reticente dell’uccisione della madre e dell’amante, più un verminaio di personaggi minori.
Il volenteroso giudice istruttore Rotella coi suoi fidi carabinieri, sarà costretto dopo infruttuose indagini a gettare la spugna, non riuscendo a incastrare Salvatore Vinci, il principale imputato al ruolo di mostro, che non subirà alcun processo e farà perdere le sue tracce (tutt’ora non si sa se sia ancora vivo in Spagna o no). La pista sarda verrà definitivamente abbandonata nel 1989, col proscioglimento per i delitti del Mostro, di tutti gli indiziati.
Nel secondo volume ci spostiamo al decennio successivo, gli anni ’90, per fortuna senza più delitti e nuove vittime, sono gli anni dei clamorosi processi a Pietro Pacciani e ai compagni di merende. Pacciani – detto i’ Vampa per la facilità con cui prende fuoco in tutti i sensi – viene coinvolto nelle indagini nel 1990 grazie, ancora una volta, ad un’indicazione anonima. È il tipico contadino toscano – nato a Vicchio nel Mugello e residente a Mercatale, nel Chianti – violento, ignorante e rozzo quanto salace e divertente nella battuta sempre pronta: ha già alle spalle un omicidio risalente al 1951, per motivi apparentemente “passionali” e la conseguente pena di vari anni di carcere ed è da poco tornato dietro le sbarre a Sollicciano con l’infamante accusa di violenza carnale sulle due figlie. A lui si affianca presto nelle indagini l’amico Mario Vanni, detto Torsolo, postino un po’ stupido e mezzo alcolizzato, fascista dichiarato – come molti altri dei protagonisti della vicenda – frequentatore assiduo di prostitute nonostante la conclamata impotenza (si consola coi vibratori: anche Pacciani sembra condividere l’hobby e subirà anche un ricovero per farsene estrarre uno dall’ano). Sempre insieme come Gianni e Pinotto, l’amico furbo (Pacciani) e quello grullo (Vanni), hanno in comune passioni e stranezze: guardoni, erotomani e appassionati di spiritismo e magia nera, con un conto in banca assolutamente sproporzionato, entrambi, agli umili mestieri esercitati e del tutto inspiegato. Secondo Vanni, che conia la proverbiale espressione, loro sono solo “compagni di merende”. In realtà c’è tutto un inestricabile sottobosco, estremamente esteso, che stringe in omertoso sodalizio balordi e marginali come quei compagni di merende, insieme a prostitute e fattucchieri di paese, come il siciliano toscanizzato Salvatore Indovino, sedicente mago, ad esponenti rispettabili della borghesia e forse dell’aristocrazia fiorentina e non, in orgiastici festini esoterici dislocati in vari cascinali e ville chiantigiane, ai quali probabilmente presenziano anche logge massoniche più o meno coperte e deviate. Nel frattempo ci si mette di mezzo anche la politica: nel 1993 viene scoperto a Firenze, in un appartamento di proprietà del SISMI, l’intelligence militare, un arsenale segreto che comprende fra l’altro, varie scatole di proiettili Winchester calibro 22, H, i famigerati proiettili sempre usati dal mostro; contemporaneamente la destra berlusconiana che ha interesse a screditare la magistratura e attaccare la Procura “rossa” di Firenze e Piero Luigi Vigna, caldeggia l’innocentismo e la cospirazione contro il “martire” Pacciani, Sgarbi pontifica su Canale 5 e accusa addirittura Vigna di essere lui il Mostro; anche il SISDE, l’intelligence civile, si interessa del caso fin dal 1984 e i dossier commissionati dal Ministero degli Interni culminano nel 1994 a margine del primo processo Pacciani.
Si inseriscono nuovi testimoni e partecipanti alle “merende”, per esempio Giancarlo Lotti, detto Katanga, altro balordo alcolizzato, semianalfabeta e disabile mentale, amico e succube di Pacciani (che pare l’abbia violentato una volta e lo manipoli da allora come uno schiavo minacciando di rivelare a tutto il paese che “è buco”) o Fernando Pucci, altro sancascianese ritardato mentale come Lotti, che, il primo autoaccusandosi come complice, il secondo dichiarandosi testimone oculare, incastrano Pacciani e Vanni per il delitto di Scopeti. Pacciani verrà condannato in prima istanza nel novembre del 1994 e condannato all’ergastolo come assassino seriale solitario e unico per tutti i delitti del Mostro. Nell’evidente forzatura logica della sentenza il pool difensivo del Vampa riuscirà a ribaltare il verdetto ottenendo in appello un’assoluzione nel febbraio del 1996. La Corte di cassazione annullerà poco dopo l’assoluzione di Pacciani, il processo dovrà essere celebrato nuovamente. Un altro processo ai Compagni di merende, senza Pacciani, inizia intanto nel maggio del 1997, e vi emergono nuove prospettive che potrebbero portare finalmente il contadino vicchiese, a rivelare, quando di lì a poco si celebrerà il suo processo definitivo, molto di più di quanto abbia mai fatto fino a quel momento. Ma ecco che, nel febbraio del 1998, Pacciani muore improvvisamente a causa di una mai chiarita assunzione di medicinali controindicati per un cardiopatico come lui. Così il principale indiziato per i delitti del Mostro non vuoterà mai il sacco. In compenso nel marzo del 1998, la Corte d’assise di Firenze condanna gli altri compagni di merende Vanni e Lotti rispettivamente all’ergastolo ed a trent’anni, gli imputati minori se la cavano invece per insufficienza di prove. Ma la storia è tutt’altro che finita.
Il terzo volume approfondisce i sempre più contorti casi dei presunti mandanti dei delitti del Mostro, il cosiddetto “secondo livello”: uno stimato medico perugino ripescato (se il corpo era davvero il suo) nelle acque del Trasimeno nel 1985, Francesco Narducci; un abbiente farmacista sancascianese accusato e poi assolto per insufficienza di prove, Francesco Calamandrei; un neofascista di Vicchio di Mugello, ex legionario in Indocina e Algeria nonché guardia del corpo di Almirante in Toscana, Giampiero Vigilanti. La storia di Narducci è così complicata che quasi eguaglia da sola quella del Mostro. Rampollo di una delle più potenti famiglie di baroni della medicina umbra, nonché strettamente legata ai ranghi più alti della massoneria, questo brillante gastroenterologo, bello, ricco, elegante, già avviato ad una prestigiosa carriera, sposato con Francesca Spagnoli, giovane ereditiera dell’impero industriale della Perugina, della Buitoni e della Luisa Spagnoli, sembra la figura più remota, sia geograficamente che socialmente, dagli scellerati provinciali toscani dediti alle merende, eppure un gran numero di testimonianze – tra cui quella sempre forbita di Pacciani, che parla di “un dottore perugino che non era bono a trombare” – convergono nell’identificarlo come presente a San Casciano, ai festini esoterici e orgiastici del Mago Indovino, e sulle scene del crimine di molti delitti del Mostro. Narducci scompare nelle acque del Trasimeno nell’ottobre del 1985, già da tempo si osa mormorare a Perugia che il Mostro sia lui. Il corpo viene ripescato giorni dopo, anzi ne vengono ripescati probabilmente due, uno presumibilmente autentico, l’altro quasi sicuramente procurato attingendo a qualche obitorio. È quasi assodato che la famiglia, grazie alle sue connessioni massoniche e alle amicizie altolocate, abbia, anche con la connivenza di alcuni membri della magistratura e delle forze dell’ordine, sostituito il cadavere ed evitato l’autopsia (inevitabile in simili casi di annegamento). La prima versione ufficiale dichiara una morte per tragico incidente, più tardi la potente famiglia concederà di parlare di suicidio. Molto più probabile invece che Narducci sia stato ammazzato e proprio per nasconderlo sia stato architettato il macchinoso scambio di corpi. L’esumazione del cadavere, ordinata nel 2002 da Giuliano Mignini, procuratore presso la Corte di appello di Perugia, che più di tutti si è occupato del caso, rivela una morte per strangolamento e non per annegamento, la presenza all’esame tossicologico di intossicazione da meperidina, un blando oppiaceo, e un misterioso panno di lino deposto sul corpo (simile a quello ritrovato sul cadavere di Pacciani: secondo l’esperto Massimo Introvigne, un preciso rituale funerario massonico di esecrazione e punizione). Strane incongruenze nelle otturazioni dentarie e l’assenza di un confronto del DNA tra il vivo e il defunto, però non danno la certezza che il cadavere esumato sia davvero quello giusto: forse Narducci non è mai morto ma è solo sparito.
Si è ormai creato un tandem, in certi casi anche conflittuale, tra la Procura di Firenze e quella di Perugia e il vecchio SAM si è trasformato nel GIDeS, Gruppo Investigativo Delitti Seriali, diretto da Michele Giuttari: l’ipotesi è che Pacciani e Lotti fossero solo gli esecutori materiali – probabilmente non i soli – che procuravano “feticci” (le parti intime femminili asportate dai poveri corpi delle vittime) a chi aveva loro commissionato il ben retribuito lavoro (questo spiegherebbe i conti in banca milionari dei due disperati). È il “secondo livello”, quello dei mandanti. Alcune testimonianze sostengono che i macabri reperti fossero conservati da Narducci, a lui è strettamente legato un altro ambiguo personaggio, il farmacista di San Casciano, Francesco Calamandrei, amico anche di un altrettanto ambiguo giornalista del quotidiano fiorentino “La Nazione”, Mario Spezi, autore del primo libro sui fatti del Mostro (l’unico pubblicato a delitti ancora in corso), che sarà accusato di manomettere le prove per scagionare i nuovi indiziati riesumando la “pista sarda”. Anche Calamandrei è massone, appassionato di esoterismo e magia (frequenta il solito Mago Indovino), ha una sessualità perversa e violenta (secondo le testimonianze delle donne che hanno avuto rapporti con lui) e frequenta abitualmente prostitute, dipinge, è depresso, verrà processato con rito abbreviato nel 2007 e assolto per insufficienza di prove nel 2008. L’ultimo personaggio legato alla vicenda è il non meno inquietante fascista Giampiero Vigilanti, compaesano di Pacciani e forse fiancheggiatore del suo primo delitto nel 1951, omosessuale, ex legionario, tiratore scelto, possessore di ben centosettanta cartucce Winchester calibro 22, H, compatibili con quelle usate dal Mostro e di una Lancia rossa col cofano scuro segnalata sul luogo del delitto di Calenzano nel 1981. Viene indagato ma il procedimento è archiviato nel 2020; restano tuttavia forti sospetti di un suo collegamento come tramite tra i delitti del Mostro e la “strategia della tensione”: eversione nera, servizi segreti e criminalità comune alleati con lo scopo di seminare, tra gli anni ’70 e ’80, il panico in tutta la Toscana distogliendo l’attenzione dagli eventi sociali e politici dell’epoca, mettendo in crisi le istituzioni di fronte all’opinione pubblica e modificando le abitudini della gente attraverso un senso diffuso di paura e insicurezza. Insomma la guerra psicologica del terrorismo nero.
Un ulteriore capitolo è dedicato poi all’impressionante galassia di delitti marginali rispetto a quelli del Mostro e non direttamente collegati ad essi ma comunque in qualche modo collaterali. Una coppia uccisa a Lucca in circostanze molto simili nel 1984; un rampollo di aristocratica famiglia fiorentina, Roberto Corsini, colpito a bruciapelo nel parco della sua tenuta – dove, forse, soleva ospitare Narducci, compagno di mai comprovate attività esoterico-sessuali – con una mortale fucilata in faccia; una ragazza fiorentina conoscente di una delle prime vittime del Mostro e cameriera nel castello vicino Perugia dove si riuniva abitualmente la loggia massonica cui appartenevano i Narducci, uccisa misteriosamente a coltellate nel residence di Scicli in Sicilia dove era in vacanza; altre due ragazze strangolate in circostanze analoghe senza segni di violenza carnale, una nel 1972 e una nel 1984, e i cui corpi sono entrambi abbandonati presso via Bolognese; una mattanza di ben cinque prostitute tutte in qualche modo collegate con uno o più degli indiziati maggiori; un guardone ritrovato morto alle Cave di Maiano; la stessa Francesca Corazzin, diciassettenne veneta scomparsa nel 1975, che il serial-killer Angelo Izzo sostiene essere stata rapita per un sacrificio umano da Narducci, violentata e uccisa nel corso di un rito tenuto nella sua villa sul lago da una setta satanica neofascista di cui sia Izzo che Narducci sarebbero stati membri, e lì sepolta. E così via.
Il libro si conclude con una precisa mappa analitica del fenomeno della mostrologia e con una serie di lucide conclusioni che cercano di ricostruire un quadro sintetico e comprensibile della tortuosa e contraddittoria vicenda criminale. Seguono infine un approfondimento cinematografico ad opera di Andrea Basti, con tutta la filmografia mostrologica commentata, un elenco dei personaggi principali, la cronologia degli eventi, e una dettagliata bibliografia e sitografia. La trilogia di Taddeo è la migliore soglia di ingresso ad un mondo davvero infernale, il regno del vero orrore: lasciate ogni speranza o voi che entrate.
Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze: La sequenza dei delitti e la pista sarda, Vol. 1, Mimesis, pp. 430, euro 20,00 stampa.
Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze: Pietro Pacciani e i Compagni di merende, Vol. 2, Mimesis, pp. 452, Euro 20,00 stampa.
Roberto Taddeo, La storia del Mostro di Firenze: Il medico, il farmacista e il legionario, Vol. 3, Mimesis, pp. 430, euro 20,00 stampa.