Quando le parole iniziano a scrivere poesie sono guai. Eppure accade in gran parte di questo libro, soprattutto nell’ultima sezione, dove Tiziano Scarpa spinge l’altalena sino a farle compiere un giro completo e ripetuto tanto che up e down infine risultano fuori questione. E il “raccolto” (come lo definisce l’autore) ci parla di un pensiero perennemente alle prese con i morti: uno per uno, da quando esiste il mondo e la cosiddetta umanità. Perché i morti ci accompagnano giorno e notte, nei bar dove si beve e nei letti dove si scopa, per concludersi quando ci tocca di morire, o per poco scampiamo ritornando nelle oscillazioni cicliche.
Sono fasi e date importanti quelle fissate da Scarpa, talmente colme del proprio mandato da trasformarsi in veri oggetti profittevoli (e di solito infallibili) di una vita, o meglio dell’esistenza fino a quando c’è. Il discorso viaggia dall’inizio al termine inseguendo le maree, è sostenuto da una forza prodigiosa, rasente il muro della pietà, rasente tutti i muri innalzati nella nostra povertà umana lasciando indietro una ricchezza mal vista.
E come sorge la poesia da quest’epica movimentata, per linguaggio e forma? Sorge eccome: inopinate sorprese, puntate beffarde, sciami giocosi o temerari, cappa e spada con l’uomo nero, tanto che a un certo punto le parole, stanche di essere dettate da morti ormai polverizzati, iniziano a spintonare l’autore, a chiedere e prendersi quelle giustizie che non se ne sono mai andate nonostante scrittori, moralisti, cooperative, assessori, cozze, boia, le abbiano costantemente crivellate. La metrica ne risente, Scarpa accetta le indicazioni e s’impegna al destino che tutto sembra assoldare e versare in una tazza di miele e fiele.
La sua pronuncia segue gli scatti dell’esistenza e dell’identità integrale, le immagini concrete sanno benissimo di sconvolgerci i sonni, la comparsa stessa della grafia mortifera sfolgora nel bianco abbacinante del Dolby vision. Dall’inquilino (lo stesso Scarpa) che frantuma i vetri perché sul pavimento diventino stelle casalinghe glitterate, al figlio che rivolge alla madre impudiche parole (ma sono le parole in autonomia a lanciarsi nello spazio e nel tempo?) sul sesso dei genitori, le convenzioni vengono triturate in un cosmo dove i veri artefici sono impastati l’uno con l’altro. Lo spazio e il pensiero s’espandono al ritmo di costellazioni di senso la cui esistenza esiste grazie alla cronaca, alla sorpresa di ritrovarsi vivi nonostante tutto. È la materia della realtà a interessare, dentro Le nuvole e i soldi, con questioni oracolari e funzioni vitali che le parole fanno proprie.
Lo scrittore di queste poesie resiste a ogni avventura tesa a prendersi il suo sangue: le parole, si sa, sono oltremodo ghiotte di quelle cellule viaggianti dalla fronte al basso ventre, inseguono le cose rinomate nei possedimenti di maschi e femmine. E non trascurano di dichiararlo, negli interi spazi e anfratti di questo sorprendente libro.