Chi è Luciana Attoli e perché è misteriosamente scomparsa nel febbraio del 1979?
Con questo nom de plume, pubblicò nella seconda metà degli anni Settanta tre Gialli Garzanti per poi svanire nel nulla, senza lasciare alcuna traccia di sé. Resta, insieme ai romanzi, che si manifestano, alle volte, sulle bancarelle dell’usato online, una reticente lettera dattiloscritta con firma autografa, inviata a Rolando Pieraccini l’8 settembre 1976: “Ho scelto uno pseudonimo anche perché come scrittrice di gialli sono agli inizi e preferisco mantenere l’anonimato in attesa di vedere che seguito potrà avere questa mia nuova attività. Fino ad ora ho pubblicato solo Lungo il fiume, nei prossimi mesi dovrebbe uscire un altro mio libro Luci di settembre, sempre da Garzanti […] Se nei prossimi anni deciderò di abbandonare lo pseudonimo mi ricorderò di inviarle i dati che le interessano”. Ma Luciana Attoli, negli anni che seguirono, non abbandonò lo pseudonimo, abbandonò semplicemente la scrittura. I suoi libri non sono mai stati ristampati e sul web non esiste alcuna informazione utile a ricostruire la singolare storia di questa giallista.
Sulla quarta di copertina del primo libro, appena qualche riga dedicata all’autrice: “Luciana Attoli è lo pseudonimo di… Spiacenti, non possiamo dirvelo: ma possiamo dirvi che è una delle più brillanti esponenti della nouvelle vague del giallo all’italiana”. Sui bollettini 1977 e 1979 della SIAE diffusi dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, Luciana Attoli è infatti presente tra parentesi come “Pseud.”, ma il vero nome, al contrario che nella maggioranza dei casi che figurano sullo stesso bollettino, non appare. Nel 1979 arriva anche una traduzione olandese del suo secondo romanzo, Luci di settembre (De jacht op het grote geld), pubblicata ad Amsterdam da Meulenhoff. Nel 1991, dal primo libro, è tratto un film diretto da Vanna Paoli che ha avuto però una circolazione limitata. Sul catalogo pubblicato dalla Libreria Pontremoli nel 2015 Crimine firmato-101 scrittori di opere poliziesche e di spionaggio dalla collezione di Rolando Pieraccini, c’è solo un cenno alle sue origini ferraresi e un nome dietro cui – “probabilmente” – si cela la vera identità della scrittrice. Che nessuno conferma e nessuno smentisce: un piccolo enigma.
Ma è ora di tornare indietro al 1976, anno in cui, nella collana Gialli Garzanti, con il n. 103, appare Lungo il fiume, esordio di Luciana Attoli. Anzi, ancora più indietro, al 1953, anno in cui Garzanti inaugura la collana Serie Gialla, nota anche come le Tre Scimmiette dall’immagine che componeva il logo. La collana include autori anglosassoni come Mickey Spillane, Ellery Queen, Eric Ambler, Fredric Brown, Johnathan Latimer, William R. Burnett e francesi come Auguste Le Breton e Noël Calef. Tra i 273 titoli pubblicati in undici anni, neppure un autore italiano. Dal 1964 la collana diventa semplicemente Gialli Garzanti, con una veste editoriale nuova e copertina flessibile su fondo nero; in catalogo allinea, accanto ai soliti Spillane, Ellery Queen, E. S. Gardner, Brett Halliday, le spy stories di Ian Fleming e Leslie Charteris. Nel 1972 i Gialli Garzanti, che hanno periodicità quattordicinale, cambiano ancora veste adottando la famosa copertina gialla flessibile con il logo stilizzato degli occhi che scrutano sospettosi alla sinistra del lettore, opera del padovano Fulvio Bianconi, tra i più brillanti grafici italiani del dopoguerra, legato alla casa editrice per almeno un trentennio. Sorprendentemente, già a partire dal primo numero della quarta serie, viene pubblicato Europa molto amore di Giorgio Scerbanenco, e da quel momento i nuovi Gialli Garzanti dedicheranno ampio spazio agli autori italiani e infatti sulla quarta di copertina c’è scritto: “Un giallo all’italiana di cui Scerbanenco è uno dei maestri”.
Cosa è accaduto, in questo decennio, perché gli italiani riuscissero a conquistare improvvisamente la ribalta? La risposta è facile. È accaduto che nel 1966, nella sua terza serie in edizione cartonata con copertina giallo/viola, Garzanti abbia pubblicato un romanzo che ha per titolo Venere privata, firmato da un autore di origini ucraine che per decenni ha furiosamente navigato tra riviste femminili e romanzi rosa macinando migliaia di pagine. Si chiama Giorgio Scerbanenco e come scrittore “nero” è un’autentica rivelazione. Il successo, dentro e fuori i confini nazionali, è straordinario. E non è un fuoco di paglia: per la giuria del prestigioso ‘Grand prix de littérature policière’, istituito in Francia, nel 1948, dal critico e scrittore Maurice-Bernard Endrèbe, Traditori di tutti è il miglior romanzo poliziesco straniero del 1968, il primo italiano nella storia del premio. Duca Lamberti è protagonista di quattro libri in tre anni a cui si affianca una raccolta di racconti il cui titolo diventerà un manifesto del moderno nero italiano: Milano calibro 9 (1969), 22 “pezzi” originariamente apparsi su Novella 2000 tra il febbraio e il novembre 1967. Pochi mesi dopo la morte di Scerbanenco esce una seconda raccolta, Il centodelitti, curata da Oreste Del Buono, cento brevissimi racconti apparsi tra la fine del 1962 e la metà del 1969 su Novella, Novella 2000, Annabella e Stampa Sera. Nella stessa collana, seguiranno i libri di Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, polizieschi dal taglio duro e realistico i cui personaggi arrivano dal popolare ciclo televisivo Qui squadra mobile creato dalla coppia nel 1973 per il programma Nazionale (poi Rai1) sul modello del procedural statunitense.
La strada agli autori italiani è ormai spianata, sia pure con le esitazioni e le diffidenze del caso. E così, nella cosiddetta quarta serie dei Gialli Garzanti (che cesserà poi le pubblicazioni intorno al 1980), già dal numero 3 ritorna il decano Augusto De Angelis e arrivano le ristampe in edizione tascabile di Scerbanenco e Felisatti & Pittorru. Ma, soprattutto, emergono nomi giovani e inediti come Loriano Macchiavelli, Secondo Signoroni, Anna Maria Fontebasso, Ruggero Ruggieri, Lamberto Benvenuti, la “strana coppia” composta dalla giornalista Mirka Martini e dal compositore e critico musicale Gino Negri. E naturalmente Luciana Attoli.
Un ragazzino che legge troppi libri di avventura fugge dai genitori contadini e intanto una bambina, figlia di una ricca famiglia della zona, viene sequestrata da una coppia di balordi. Sembra tutto un gioco, ma non i cadaveri non tardano ad arrivare. Lungo il fiume è un debutto con tratti di originalità: non si accoda al fronte del nero metropolitano e neppure al bozzetto provinciale à la Georges Simenon, pur essendo interamente ambientato, come annuncia il titolo “hemingwayano”, lungo il fiume e nelle campagne del nord Italia, tra case coloniche, villette e osterie, cave di gesso e chiuse abbandonate. Nel maggio 1973 l’Italia ha assistito al primo sequestro di un bambino, Mirko Panattoni, rilasciato dopo due anni a fronte del pagamento di 300 milioni di lire. Nel 1974 in Italia i sequestri di persona sono stati 40, nel 1975 saranno 62 per arrivare a ben 75 nel 1977. La materia è dunque incandescente ma nel romanzo non è di scena la criminalità organizzata, piuttosto un’umanità mediocre, emarginata, amorale, allevata da una società contadina fotografata in limine mortis oppure covata dentro una piccolissima borghesia che aspira al riscatto sociale progettando di aprire, con i soldi del riscatto, un bar-ristorante sulla Statale. Imprevedibili analogie si riscontrano con un caso recente, purtroppo dall’esito tragico, ovvero il sequestro e omicidio del piccolo Tommaso Onofri consumati in poche ore, nel 2006, a opera di un muratore, complici la sua compagna e un socio. Non ci sono investigatori al centro di Lungo il fiume, la figura dell’eroe o dell’antieroe è completamente latitante. E nessuna storia d’amore, solo rapporti degradati, segnati dalla violenza dalla paura e da un desiderio animalesco. Come nei grotteschi crime di provincia che i fratelli Coen realizzeranno solo molti anni più tardi, il motore di ogni azione è l’avidità impastata con l’idiozia e la ferocia. Il più cattivo di tutti è un massiccio contadino che ha imparato a uccidere in guerra, è appena tornato dalla Germania (che poi “qui o là è la stessa cosa”) e avverte, come un animale ferito, il sentore della fine del suo habitat.
L’intreccio è ben costruito, con continui scambi tra i punti di vista dei numerosi personaggi, l’incalzare degli eventi che precipitano verso il finale giustamente affannoso. La scrittura appare piuttosto sicura anche se non osa mai troppo, come testimonia la completa assenza di sfumature dialettali o gergali che avrebbero reso più viva l’ambientazione (non è dato sapere se ci fosse un’interdizione editoriale in questo senso).
Il secondo romanzo arriva meno di un anno dopo, nel marzo 1977. In Luci di settembre il racconto è affidato alla ladruncola Emilia segnando così il passaggio dalla terza persona del precedente libro alla prima. Siamo in un immaginario paesino “estesosi artificialmente sul mare”, alla fine della stagione estiva. Più che una ragazza, Emilia è quel che in provincia si direbbe una “ragazzaccia”, una mezza sbandata che sbarca il lunario con piccoli furti nelle ville serrate a fine vacanze dai bagnanti di città. Orgogliosa, indipendente, sarcastica, durante una delle sue scorribande notturne si ritrova addosso un cadavere, nascosto nell’armadio di una delle tante case vuote del litorale. L’ambientazione è efficace: un lido fuori stagione che è come un luna-park chiuso per ferie, tra palazzine scrostate, villette disabitate, spiagge deserte, luci fioche che in lontananza si accendono e si spengono dentro il nero della notte mentre, onnipresente e ossessivo, riecheggia il suono della risacca. L’intrigo, scandito giorno per giorno dal 8 settembre al 19 settembre, con un breve epilogo a fine ottobre, si colloca su un terreno più tradizionale e collaudato – si può riesumare la desueta definizione di “giallo-rosa”? – ma personaggi, luoghi, dinamiche (per esempio la reciproca diffidenza che tiene a distanza la comunità dei villeggianti e quella dei paesani) attribuiscono al racconto una certa freschezza e la scrittura appare decisamente più sicura e precisa. Il racconto è punteggiato di veloci e sapide digressioni, piuttosto brillanti, che restituiscono il punto di vista della protagonista sull’umanità e sul mondo. In fondo a una serie di colpi di scena, passando attraverso imprevedibili ribaltamenti di ruoli tra i personaggi secondari, si approda a un sottofinale impertinente in cui Emilia ribadisce la sua indipendenza e la sua irriducibilità alla vita piccolo borghese.
…e Argìa morirà, che arriva all’inizio di febbraio 1979 con un’elegante copertina firmata da Fulvio Bianconi, testimonia di una maturazione in atto che contraddice l’ipotesi di una vena creativa in esaurimento. A partire dall’ambientazione, ancora una volta inedita e intrigante: uno scalcinato luna park accampato ai margini di una cittadina di provincia. Da una conversazione origliata casualmente, una zingara scopre che gli eredi di una ricca famiglia di possidenti locali, i Balestrieri, stanno progettando l’omicidio della vecchia matriarca Argìa – nome che evoca la mitologia greca quanto l’opera lirica – per realizzare una grande speculazione edilizia sui terreni di proprietà. L’informazione, condivisa con il presunto veggente Omar e con il suo “imprenditore” Gigio, viene usata per rilanciare il baraccone degli indovini. Gli scrupoli del fondamentalmente candido Omar lo inducono però a insediarsi nella magione dei Balestrieri per scongiurare il delitto: si ritroverà in un nido di vipere dentro al quale covano propositi omicidi e anche un piano per incastrare il malcapitato. Ne discende una divertente variazione sulle storie alla Agatha Christie, trasferita dalle verdi campagne inglesi al più sanguigno paesaggio rurale del centro Italia, presumibilmente emiliano. Ancora una volta è di scena un’umanità marginale, maldestra, sprovveduta ma a tratti cinica: piccoli ciarlatani, zingare dedite a ricatti da pochi spiccioli, una borghesia campagnola ansiosa di liberarsi definitivamente delle radici contadine per attingere a un moderno benessere. Sullo sfondo la bizzarra fauna circense di domatori e donne cannone, latori di un’arcaica innocenza.
Un’informazione sensibile, legata a un crimine, della quale non è opportuno rivelare il modo in cui è stata appresa ma che urge divulgare: il meccanismo della finta visione di un delitto che si dovrà compiere, potrebbe provenire dalla cronaca del tempo. È solo un’ipotesi, ma il libro, come si diceva, esce a inizio 1979 ed è stato presumibilmente scritto nella seconda metà dell’anno precedente. Il 2 aprile 1978, in una casa di campagna in località Zappolino, provincia di Bologna, il professor Romano Prodi ha partecipato con un gruppo di amici, tutti insigni economisti e accademici, a una famosa seduta spiritica “con il piattino”. Lo spirito di Giorgio La Pira, evocato dai presenti, associò il nome dell’onorevole Aldo Moro, sequestrato due settimane prima dalle Brigate Rosse, a quelli di “Bolsena, Viterbo, Gradoli”. Il giorno dopo Prodi racconta la circostanza a un amico criminologo che informa la Questura di Bologna; il giorno dopo ancora il Professore scende a Roma e ne parla con Benigno Zaccagnini e Beniamino Andreatta, altissimi esponenti della Democrazia Cristiana. Come in un film l’informazione corre velocemente attraverso i fili del telefono fino a giungere al Ministero dell’Interno di Francesco Cossiga. In 24 ore il capo della polizia ordina di rastrellare il paese di Gradoli, ovviamente senza alcun esito. Le cronache ci racconteranno poi che in via Gradoli, a Roma, c’era in effetti un covo delle BR eppure, a quanto sembra, nessuno al tempo pensò di consultare uno stradario della Capitale…
Nel romanzo di Luciana Attoli è di fatto riproposta l’idea di una verità travestita da misteriosa rivelazione proveniente dalla sfera del soprannaturale. E considerato anche che entrambe le vicende, quella reale e quella letteraria, lambiscono gli stessi luoghi, non si direbbe una coincidenza.
Il terzo romanzo conferma la personalità della scrittrice e incoraggia, insieme ai due precedenti, a individuare sommariamente una visione d’autore: ambientazione in un’Italia provinciale, lontana dalle grandi città quanto dai riflettori; i protagonisti sono scelti tra i marginali e i balordi, criminali improvvisati e di piccolo cabotaggio; spicca l’assenza di poliziotti o investigatori privati più o meno dilettanti ma anche di gangster o di mestieranti della mala. È l’istantanea di un paese che sta cambiando, in cui una certa ferocia non è più prerogativa dei soli professionisti del crimine, ma si è insinuata tra la gente comune. La civiltà contadina sta esalando gli ultimi respiri, speculazioni e avidità stanno spazzando via un mondo che tuttavia non è mai idealizzato né oggetto di retorica nostalgica e si rivela infatti popolato di sopravvissuti, uomini e donne incattiviti che aspirano ad accedere a uno stile di vita piccolo borghese più che a preservare l’antica identità.
Purtroppo con l’ultima pagina di …e Argìa morirà si chiude non solo il romanzo ma, almeno che si sappia, anche la strana storia letteraria di Luciana Attoli. È solo un caso che i Gialli Garzanti chiudano bottega l’anno successivo all’uscita del romanzo, riducendo così uno spazio editoriale importante per i giallisti italiani?
Uno dei rarissimi indizi sull’identità della Attoli si ritrova nell’elenco iscritti del SIGMA, gli Scrittori Italiani del Giallo e del Mistero Associati, fondato il 12 settembre 1980, a margine del ‘Mystfest’ di Cattolica, su iniziativa di Loriano Macchiavelli. L’associazione, che si proponeva di valorizzare e promuovere gli autori italiani dediti al genere presso gli editori, riuniva una trentina di autori; la lista è piuttosto interessante e riserva qualche sorpresa includendo outsider come Sergio Atzeni, che incontrerà la propria fortuna lontano dal giallo, ma anche Corrado Augias e alcuni importanti autori televisivi, a testimoniare che in quegli anni la Rai ha probabilmente fatto per il giallo italiano molto più di quanto stesse facendo l’editoria: tra questi Lucio Mandarà che aveva collaborato a decine di sceneggiati di qualità, tra cui Il segno del comando, L’amaro caso della baronessa di Carini e Petrosino, Biagio Proietti, Massimo Felisatti e Fabio Pittorru, Maio Casacci e Alberto Ciambricco a cui si deve l’invenzione del tenente Sheridan. Nell’elenco anche Gianfranco Calligarich, che nel 1975 ha firmato, in coppia con Paolo Levi, il copione del televisivo Ritratto di donna velata, ma che due anni prima aveva pubblicato con Garzanti uno splendido romanzo non di genere, L’ultima estate in città, destinato poi a una nuova vita dopo il meritorio repechage di Aragno del 2010. SIGMA avrà vita brevissima: nel 1981, a Cattolica, Macchiavelli presenterà il progetto per una collana di gialli e una rivista, ma entrambe non vedranno mai la luce. Scompartimento Omicidi, rubrica fissa affidata nel 1982 a SIGMA sulla neonata rivista Orient Express, edita dal compianto Luigi Bernardi, si arenerà dopo la prima puntata per la riluttanza degli associati a produrre contributi. Dopo appena un anno, a causa della distanza fisica tra i vari soci e di alcune incomprensioni, l’associazione esala l’ultimo respiro e Macchiavelli si lancerà in una nuova avventura con il Gruppo 8.
Nell’elenco iscritti di SIGMA, consultabile sul sito di Macchiavelli nella sua versione originale dattiloscritta, al n. 2, in ordine rigorosamente alfabetico, c’è scritto: “Luciana Attoli” e a fianco, tra parentesi, “Aliotta Ricci” con un vecchio numero di telefono e un indirizzo bolognese, entrambi cancellati con una riga e sostituiti da un diverso indirizzo e un diverso numero. È probabilmente da qui che Luca Crovi reperisce l’informazione poi riportata nel suo Tutti i colori del giallo in cui il nome è infatti ancora “Aliotta Ricci” e non, come sarebbe corretto, “Ricci Aliotta”. È lo stesso nome che figura nella nota del Catalogo Pieraccini del 2015, indicato come “probabile” identità della scrittrice.
Il cognome Attoli è rarissimo e sarebbe affascinante scoprire che nella sua scelta come pseudonimo hanno avuto un peso questioni di ordine personale o familiare o una lontana ma forte affinità elettiva. Seguendo la pista delle origini del cognome si arriva in effetti a un curioso bivio: una pista conduce in Sardegna, nelle campagne di Oristano, l’altra a Faenza ed ha discendenze patrizie. Ma risultano entrambe false piste che non illuminano su nessuna remota suggestione che possa legare la signora Ricci Aliotta al suo alias. La soluzione ce la fornisce, come sempre, un classico ovvero La lettera rubata, sopraffino esercizio di illusionismo letterario di Edgar Allan Poe: Aliotta… Attoli… ma siamo al cospetto di un anagramma, appena ritoccato con la caduta di una vocale in eccesso! Il giallo appare così risolto, ma il finale è incompiuto perché ancora non sappiamo cosa sia stato della misteriosa protagonista e perché abbia scelto di abbandonare così improvvisamente e senza ripensamenti la scena letteraria.
Un anno prima della nascita di SIGMA a cui aveva aderito, Luciana Attoli aveva dato alle stampe il suo terzo e ultimo romanzo. Di lei non si saprà mai più nulla. Di Luciana Ricci Aliotta, al contrario, si sa che è nata, vive e lavora a Bologna, che ha insegnato per anni lettere e storia, che dipinge, che ha esposto in Italia e all’estero, che le sue opere figurano in molti cataloghi e pubblicazioni. Le ultime tracce di attività in rete riportano al febbraio 2016. Punto.
Sempre che le due donne, come ci insegna la tradizione del genere, siano davvero la stessa persona. Molti indizi, nessuna prova: il caso Attoli resta aperto. Ma intanto vale la pena di riesumare questi tre piccoli, curiosi gialli dispersi, fino a esaurimento copie, nell’oceano sotterraneo della rete.
I libri di Luciana Attoli
Lungo il fiume (Garzanti, 1976)
Luci di settembre (Garzanti, 1977)
…e Argìa morirà (Garzanti, 1979)