Giorgio Scianna / I dubbi vanno spolverati

Giorgio Scianna, Cose più grandi noi, Einaudi, pp. 200, euro 17,00 stampa, euro 9,99 epub

Gli anni Ottanta. Le Brigate Rosse. I rapimenti, le esecuzioni, i cosiddetti “atti dimostrativi”. Un’intera generazione di persone, e di cittadini italiani, rammenta bene gli avvenimenti di cronaca che hanno marchiato per sempre quell’epoca, eppure viviamo in un Paese che sembra in qualche modo tralasciare volentieri la memoria storica, prova ne siano i risultati elettorali degli ultimi trent’anni. Ci si barcamena nell’incoerenza, si passa dalla destra alla sinistra con la massima disinvoltura, senza tuttavia ottenere alcun miglioramento nella generale situazione politica, economica e sociale.

Protagonista di Cose più grandi di noi è l’appena diciottenne Margherita, per tutti Marghe, incarcerata con l’accusa di aver intrattenuto importanti legami con cellule terroristiche operative nella Milano di quegli anni, città dove la nostra vive con la propria famiglia – padre, madre, un fratello e una sorella. Alla stregua dell’odierno ISIS, anche le Brigate Rosse arruolavano nelle proprie schiere persone giovanissime, spesso studenti di belle speranze, la testa imballata da ideali all’apparenza purissimi che la lotta armata sembrava finalmente voler concretizzare: guerra aperta agli imprenditori senza scrupoli, ai giornalisti venduti, ai politici corrotti. Quanto alle modalità esecutive, beh: il fine giustifica i mezzi. E, va detto, a praticare la violenza erano in pochi, tutto sommato, ma a condividerne prerogative ed effetti erano in molti.

Quando Marghe esce di prigione e torna per un attimo a contatto con l’aria feroce di quella Milano, per poi proseguire la carcerazione agli arresti domiciliari, viene affidata al padre Paolo, il quale si trasferisce con lei fra le mura di un modesto appartamento che, in linea d’aria, sta di fronte a quello in cui i restanti componenti del nucleo famigliare continuano a vivere, non senza avvertire, ognuno a modo proprio, la presenza/assenza di Marghe e del suo fardello giuridico ed esistenziale. Presenza/assenza che almeno il fratello minore, Martino, tenta di colmare dotandosi di una coppia di walkie-talkie, la cui gittata unisce in segreto i due appartamenti e sovrasta l’imponente stadio di San Siro, che si trova proprio nel bel mezzo.

Mentre Sara, l’altra figlia della coppia, è l’esatto opposto di Marghe, attenta ai trucchi e alle mise modaiole, Martino è una specie di nerd e farebbe qualsiasi cosa pur di non lasciare sola la sorella, prigioniera di una gabbia dorata dalla quale non le viene per legge consentito di affacciarsi alla finestra, o sporgersi dal balcone, neppure nel giorno in cui la scritta “INFAME” compare a sorpresa sulla strada.

È il primo avvertimento, Marghe è una pentita, considerata quindi dagli ex compagni di lotta una traditrice. È chiaro da subito che qualcuno fra loro sta pensando di punirla. Come, però? Gambizzando il padre medico? Violentando la sorella, o la madre avvocato, che ha difeso la figlia solo inizialmente per poi tirarsi indietro? O su Margherita stessa?

In una battaglia tra sconfitti da ambo le parti s’innesca dunque una parabola di vita autentica, che dovrebbe incontrare non tanto i lettori capaci di ricordare i tristi eventi di quegli anni, ma i giovanissimi di oggi. Imbambolati davanti ai loro irrinunciabili smartphone, figli di nessuna guerra e tuttavia orfani di pace, facili prede di ideologie che sfiorano in superficie esattamente come si “scrollano” le notifiche dei social, evitando quasi per noia, quasi per abitudine – o, peggio, quasi per assuefazione – di approfondire nessun fatto o discorso, anche solo per pura e semplice curiosità.

Col piglio dei grandi narratori, Giorgio Scianna (che all’epoca dei fatti raccontati nel suo quinto romanzo era studente di giurisprudenza) ci riporta indietro nel tempo attraverso una storia che pone domande e non cerca per forza risposte. Forse perché i dubbi bisogna imparare a interrogarli non necessariamente allo scopo di dissolverli. I dubbi, almeno questi dubbi, servono a titolo di monito e affinché da monito facciano allora tali devono restare. Il che non significa impedirci – o distrarci? – dal compito di spolverarli, di tanto in tanto, e di accettarli, di conviverci nella speranza che da essi nasca un’unica, fondamentale certezza: mai più violenza, mai più odio, mai più niente di tutto ciò che è stato – e che, volenti o nolenti, ci ha trasformati via via in ciò che oggi siamo. Come individui e come società.

Ciò che noi siamo, ciò che noi non vogliamo, diceva qualcuno.
Chissà se quel qualcuno, vedendoci adesso, resterebbe dell’idea.