Roberto Bolaño sa benissimo che ogni opera che si rispetti è incompleta: dalla coda tagliata di ogni romanzo nascono almeno altre due storie. Amuleto (Adelphi, 2010), per esempio, era un germoglio di poche righe già presente ne I detective selvaggi (Adelphi, 2014). Allo stesso modo, troviamo Arturo Belano, miglior amico di Ulises Lima ne I detective, che sfreccia al tramonto, in macchina, in un racconto di Chiamate telefoniche (Adelphi, 2017). Una matrioska letteraria e labirintica. Lì dove un personaggio scompare, l’altro riappare. Se si gettasse una corda dall’estremo di un romanzo qualsiasi di Bolaño, è sicuro che qualcun altro dall’estremo opposto, questa corda, la riprenderebbe al volo. I personaggi si rincorrono, sono satelliti che orbitano attorno ad un unico corpo celeste – o meglio, corpus celestiale.
Serve dunque una mappa, una cartografia, una guida, un poliziotto che non si stanchi nella ricerca. C’è bisogno di qualcosa che restringa ai minimi termini il campo d’azione, e così i romanzi passano il testimone ai racconti e i racconti alle poesie. I cani romantici è la seconda puntata poetica di uno scrittore diventato negli ultimi anni un fenomeno letterario mondiale. Quarantatré componimenti scritti tra il 1980 e il 1998, nella traduzione di Ilide Carmignani, che aveva già incontrato i versi dello stesso autore, portando in Italia Tre (Sur, 2017).
Ne I cani romantici riappare la sempiterna prostituta Lupe de I detective, questa volta «appoggiata al parafango di una vecchia Cadillac». Ritroviamo il deserto di Sonora e il D.F., le stesse terre di nessuno nelle quali si svolgono gli efferati stupri in 2666 (Adelphi, 2009). Allo stesso tempo, si avverte la spasmodica voglia di tirar fuori nomi di poeti e scrittori come fossero cartucce di pistole a raffica («È morto Beltràn Morales,/ o così dicono, è morto/ Juan Luis Martìnez,/ Rodrigo Lira si è suicidato./ È morto Philip K. Dick/ e ormai ci serve soltanto/ lo stretto necessario/ Vieni, entra nel mio letto»).
C’è tutto un immaginario da rivendicare in queste pagine: la violenza delle cose inespresse, le realtà eventuali, il passaggio di testimone tra sogno e futuro applicato (eccolo, lo zampino delle letture surrealiste, dei francesi, dei beatnik, dello stesso Dino Campana a cui è dedicato un componimento dal titolo eloquente, «Dino Campana rivede la sua biografia nell’ospedale psichiatrico di Castel Pulci»); e attenti, perché se pensate che siano progetti realizzabili in romanzi di mille e più pagine (anche qui, tutto da vedere), rendere la luna terreno fertile anche in poesia è un’impresa che viene facile a pochi. Non è semplice infilare tutta una vita «nelle partizioni del sogno finale/ sul sentiero confuso e magnetico/ degli asini e dei poeti»; non è facile scrivere romanzi che iniziano e si concludono nel giro di due strofe, senza starci stretti. In una delle poesie più belle de I cani romantici Bolaño scrive: «la poesia entra nel sogno/ come un palombaro in un lago// La poesia entra nel sogno/ come un palombaro morto/ nell’occhio di Dio». Bolaño è un palombaro perduto in una calanca circondata da alte rocce, a protezione. Queste rocce hanno i nomi di J. L. Borges, Julio Cortázar e Rodolfo Wilcock che in questa raccolta ululano, come echi di fantasma, come dolci nenie, come cani romantici per l’appunto.
In Chiamate telefoniche lo scrittore butta lì una sentenza, una frase che riluce come una gemma smerigliata: «un poeta può sopportare di tutto. Il che equivale a dire che un uomo può sopportare di tutto. Ma non è vero: sono poche le cose che un uomo può sopportare. Sopportare veramente. Un poeta, invece, può sopportare di tutto». Ecco, questo è Bolaño.
Di Roberto Bolaño PULP Libri ha anche recensito Lo spirito della fantascienza.