Ad alcuni mesi dalla pubblicazione, è fatto ormai noto: per Goffredo Fofi, l’oppio dei popoli – nota espressione marxiana – non è più la religione, ma la cultura e, più precisamente, l’industria culturale. Non tutti i recensori, tuttavia, hanno segnalato come vi sia almeno un’altra famosa e ricorrente espressione marxiana nel testo di un autore che – dall’esperienza dei Quaderni piacentini in poi (se non da prima ancora) e fino a oggi – si è riconosciuto in un posizionamento ideologico-politico dichiaratamente socialista, ma, al tempo stesso, costitutivamente eterodosso.
“La vergogna è già in sé una rivoluzione”, scriveva Karl Marx in una lettera a Ruge del 1843: è da questo presupposto – per la verità, frammisto a un senso di colpa connaturato alla tradizione culturale cristiano-cattolica, come Fofi stesso riconosce – che anche l’autore muove le sue riflessioni, in una scrittura apparentemente pamphlétaire, ma che ha sicuramente alcuni appigli teorico-filosofici forti. Di contro, si tratta anche di una prospettiva che finisce per legittimare una visione spiccatamente moralista dell’industria culturale, tracimando verso posizioni che, in un’analisi marxista, possono risultare scialbe o comunque scarsamente accettabili.
Passino, dunque, le invettive contro le “orge festivaliere” – espressione di punta dell’industria culturale contemporanea, nella fattispecie italiana – oppure contro la “bulimia del sociale” (leggasi, in termini hegeliani e poi gramsciani, della “società civile”), specie se di area cattolica, o ancora contro sindacati “indegni di questo nome”, contro le storture, e degenerazioni, del sistema scolastico e universitario, eccetera. Il quadro così delineato – pur nelle tinte a tratti fosche, a tratti grottesche di una penna militante e al tempo stesso vividamente moralista – risponde purtroppo positivamente all’interrogativo fondamentale del saggio: “E se la cultura, in tutte le sue forme non radicali, che non guardano all’origine dei mali e non ne cercano il rimedio, non fosse altro, oggi, che lo strumento privilegiato del dominio, lo strumento di cui il potere si serve per asservirci, per farci accettare l’inaccettabile?”. A tal proposito, Fofi cita, tra gli altri, Gunther Anders e Christopher Lasch, ma – come ha giustamente notato Marco Gatto nella sua recensione per la rivista Altraparola – si potrebbero aggiungere Gilles Lipovetsky e Jean Serroy, autori de La cultura-mondo (O Barra O Edizioni, 2008), nel quale i sociologi francesi sostengono che la cultura contemporanea euro-americana sia l’involucro di uno spazio estetico indifferenziato, subordinato alle logiche del tardo capitalismo (posizione affine, del resto, a quella dello stesso Marco Gatto, almeno a partire dal fondamentale Marxismo culturale, pubblicato da Quodlibet nel 2012).
Tuttavia, le contromisure più spiccatamente operative non sembrano adeguate al “Che fare?” leniniano esplicitamente riproposto da Fofi, soprattutto se si avvitano nella critica della “ideologia del posto fisso” o in quella dei sindacati – polemiche che possono essere adottate, da prospettive diverse eppure occasionalmente contigue, per giustificare lo status quo, se non anche accelerarne i processi. Quel che resta, allora, è più che altro la carica provocatoria e insieme maieutica dell’interrogativo attorno al quale gravita il testo, nell’auspicio, condiviso con l’autore del saggio, che la responsabilità individuale e l’azione collettiva si possano sempre più smarcare dalla “complicità nella prassi” con le logiche dell’industria culturale e, più in generale, del tardo capitalismo neoliberale.
I colti (ovvero tutti i lettori che si sentono chiamati in causa, anche minimamente, dalle invettive di Fofi) e, insieme a loro, i buoni (per riprendere il titolo di un romanzo del compianto Luca Rastello, del 2014, a proposito della società civile, variamente citato, tra le righe) sono chiamati in causa: da Fofi e dal suo peculiare ritorno all’autocoscienza dell’intellettuale, la palla passa, idealmente, a loro.