«Non mi sento un regista con un proprio stile. Mi dicono che ce l’ho ma non lo riconosco» – sostiene John Huston (1906-1987) in questa sua imponente autobiografia: davvero un libro “aperto” sulla sua vita, la sua personalità e la sua (non?) poetica. In effetti difficilmente potremmo riconoscere come opere dello stesso autore capolavori immortali che hanno segnato la storia del cinema e in parallelo film di assoluta routine in cui al massimo si può rilevare una totale padronanza del mestiere: eppure entrambe le tipologie, in varie e composite combinazioni, abbondano nella feconda carriera del regista (regista, nel senso di cineasta e non di metteur en scéne, come ci teneva a puntualizzare André Bazin nei suoi poco favorevoli interventi su Huston dei Cahiers). Proviamo a ripercorrerla rapsodicamente questa lunga e rigogliosa carriera, ricordando qualche titolo: il film d’esordio, The Maltese Falcon, tratto dal romanzo omonimo di Dashiell Hammett, che nel 1941 fu il primo film noir nel senso classico del termine, aprendo una via e uno stile, e che fa il passo con The Asphalt Jungle (1950), tratto da W. R. Burnett, altro noir classico che, oltre a lanciare Marilyn Monroe al suo primo ruolo importante, varò il sottogenere del caper movie, il film di rapine (The Killing, secondo lungometraggio di Stanley Kubrick, è suo figlio naturale, anche per la comune presenza carismatica del grande Sterling Hayden).
E proprio al noir (che pure nel libro non viene mai menzionato come termine specifico, quasi che Huston non fosse consapevole della sua precisa specificità stilistica) resta legato il suo nome anche per Key Largo (1948, da noi L’isola di corallo,), forse da non annettere fra i capolavori ma comunque fra i più solidi esempi del brillante sodalizio con Humphrey Bogart, e soprattutto per la sceneggiatura di High Sierra (1941, da noi Una pallottola per Roy) diretto da Raoul Walsh, ancora tratto da un romanzo di W. R. Burnett e sempre con Bogie protagonista. Poi Il tesoro della Sierra Madre (1948), con l’immancabile Bogart, interamente girato in esterni naturali in Messico, fuori dagli Studios hollywoodiani, novità assoluta e quasi destabilizzante per l’epoca, impiegando, a fianco dei protagonisti, attori non professionisti scelti fra i peones dei luoghi di ripresa: quasi una sorta di neorealismo americano; e La regina d’Africa (1951) che sbatte due divi (Bogart e Katharine Hepburn) in mezzo alla giungla dell’Uganda e del Congo. Nel libro Huston ricorda la doppia avventura delle difficoltà massacranti di setting e di riprese – non si può non pensare immancabilmente ad un’altra impresa titanica nella giungla, il Fitzcarraldo di Werner Herzog – e soprattutto, fra un set e l’altro, delle sue rischiose battute di caccia grossa. Poi Moulin Rouge (1952), biopic su Toulouse-Lautrec, che anticipa quanto farà la fortuna di Vincente Minnelli, ma per Huston un rivolgimento totale dal noir al colore smagliante, e un altro biopic, questa volta complessivamente fallimentare, Freud-Passioni segrete (1962), con un Montgomery Clift ormai allo stremo: impossibile tentativo di fare della psicanalisi un romanzo popolare.
Quindi i melodrammi, da quello un po’ menagramo, Gli spostati (The Misfits del 1961), da cui nessuno dei tre protagonisti uscì vivo: Marilyn Monroe, suicidio dopo poco più di un anno, Clark Gable, infarto mortale dopo pochi mesi, Montgomery Clift, precipitato nel baratro fatale e irreversibile dell’alcolismo e della tossicodipendenza, a quelli barocchi tratti da o ispirati a Tennessee Williams, La notte dell’iguana (1964) con Richard Burton, Ava Gardner e Deborah Kerr e Riflessi in un occhio d’oro (1967) con Marlon Brando ed Elizabeth Taylor. I kolossal controversi e faticosi, Moby Dick (1956) con Gregory Peck e Orson Welles, sceneggiatura di Ray Bradbury, e La Bibbia (1966) con lo stesso Huston nel ruolo di Noè, girato in Italia e prodotto da Dino De Laurentiis, con collaboratori prestigiosi come Giacomo Manzù che, come racconta il regista riconoscente, lavorò gratis solo in nome dell’amicizia per lui. E poi negli anni ’70 altri tre capolavori, Fat City (1972), dove un vecchio dinosauro del cinema classico si rivela in realtà, per stile e tematiche, ancora più avanti dei giovani arrabbiati della Nuova Hollywood, un film sul pugilato e sulla sconfitta, troppo triste e provocatorio per gli stomaci delicati degli statunitensi, fu un fiasco al botteghino, ma è probabilmente uno dei migliori film di Huston e certamente uno dei più grandi piccoli film americani. L’uomo dai 7 capestri (1972) che, sorta di Western demenziale, anticipa – come giustamente nota Alberto Pezzotta nell’interessante postfazione – il cinema dei fratelli Coen e di Sam Raimi, e infine L’uomo che volle farsi re (1975), epopea avventurosa tratta dal classico di Rudyard Kipling e altrettanto classica, con un irresistibile duo britannico composto da Sean Connery e Michael Caine.
Anche gli ultimi tre film dell’ormai anziano regista, esclusi dalla biografia perché realizzati dopo la sua uscita, sono, se non capolavori, prove eccellenti e tutt’altro che senili: in uno, L’onore dei Prizzi (1985) si torna ad un neo-noir di ambiente mafioso (perfino Jack Nicholson e Anjelica Huston, la figlia del regista e all’epoca compagna di Nicholson – un film di famiglia, visto l’argomento – dovettero imparare a parlare con l’accento italoamericano di Brooklyn); negli altri due ci si confronta egregiamente con due classici della letteratura: Sotto il vulcano (1984) da Malcolm Lowry e The Dead (1987) da Gente di Dublino di James Joyce. Quest’ultimo, sigillo finale della carriera e della vita del cineasta, ricorda nella sua composta perfezione un altro piccolo grande film realizzato da Huston qualche anno prima, confrontandosi con amore e rispetto con un’altra gigante della narrativa anglosassone: Flannery O’Connor, Wise Blood (La saggezza del sangue) del 1979. Non trascuriamo poi i documentari realizzati per conto delle Forze armate durante la Seconda guerra mondiale, Tunisian Victory (1944) e soprattutto The Battle of San Pietro (1945), in cui Huston – che pure, come racconta nel libro, ebbe il grado di ufficiale superiore e si impegnò con coraggio e disciplina in prima linea – ritrae la guerra esattamente com’è, spietata e crudele, senza l’enfasi eroica e gli imbonimenti voluti dal Comando, per questo furono boicottati, censurati e fatti sparire fino ad anni molto recenti (ad oggi sono per fortuna finalmente visibili). In mezzo a tutti questi picchi, decine di altri film minori, dimenticabili o quasi, i film di routine, tanti, per qualcuno addirittura troppi.
«Ammiro i registi come Bergman, Fellini, Buñuel: ogni film di questi autori è in qualche modo connesso con la loro vita privata; ma questo non è mai stato il mio metodo. Sono un eclettico. […] L’idea di dedicarmi a una sola attività nella vita per me è impensabile. La boxe, la scrittura, la pittura, i cavalli in alcuni periodi della mia vita sono stati importanti né più né meno che la regia dei film». Così confessa Huston, e infatti nelle pagine vivide e spiritose delle sue memorie non si parla troppo di cinema, almeno altrettanto spazio viene dedicato alle sue grandi e numerose passioni: i cavalli e l’ippica; gli animali in genere e – in flagrante contraddizione – la caccia (inclusa la caccia grossa in Africa, quella alla tigre in India e alla volpe in Irlanda) e la pesca d’alto mare (in certa ipervitalistica emulazione del quasi amico Ernest Hemingway); l’Irlanda (dove si comprò un cottage e visse per decenni) e gli irlandesi; il Messico dove pure visse a lungo e possedette case; l’antiquariato e l’arte (specie quella amerindia precolombiana). Irresistibilmente simpatico – calembourista fulminante, assoluto bon vivant, ovunque e sempre larger-than-life – Huston quasi sorvola sulla sua più che ragguardevole carriera parallela di attore e dedica invece pagine commoventi al padre Walter Huston, famoso attore a sua volta, che molto lo aveva aiutato grazie alle sue solide relazioni nell’ambiente dello spettacolo agli inizi della carriera, poi senza stucchevoli ipocrisie ammette di aver fatto altrettanto per la figlia Anjelica: «Avere scritturato Anjelica non equivaleva a un atto di nepotismo? Risposi che in effetti era proprio così, e che era per quello che facevo il film. Lo scopo era lanciare la mia figlia sedicenne come attrice».
Un libro, in conclusione, davvero aperto a varie possibilità e a innumerevoli tipologie di lettore: di certo molto piacevole e appassionante anche per chi non sia un cinefilo maniacale. Con immancabile senso dello humor, ad esempio, Huston chiude in bellezza di fronte all’ipotesi immaginaria di poter rivivere daccapo la sua vita: «Passerei più tempo con i miei figli. Farei i soldi prima di spenderli. Imparerei le gioie del vino invece di quelle dei superalcolici. Non fumerei sigarette quando ho la polmonite. Non mi risposerei per la quinta volta».