«L’emozione più antica e forte dell’essere umano è la paura, e il tipo di paura più antico e intenso è la paura dell’ignoto». Si apre così il trattato Supernatural Horror in Literature che H.P. Lovecraft inizia a New York nel 1925 e completa due anni dopo, tornato nell’amata Providence. Delle due parole chiave – “paura” e “ignoto” – la seconda definisce il perimetro e gli intendimenti della letteratura che Lovecraft designa weird, deciso com’è adesso a riformularli tanto nella pratica autoriale (The Call of Cthulhu, primo racconto del ciclo, è del ’26) che, appunto, nella teoria. Parallelamente alla maturazione, intervenuta sul piano estetico e letterario, lo scrittore ricostruisce attraverso questo saggio anche una genealogia di ciò che descrive come il sentimento emergente dell’“orrore cosmico”. Un brivido che non si riconosce nel perturbante e nel rimosso fantasmatico freudiano ma trova piuttosto la sua premessa nell’irrilevanza umana di fronte all’infinità del cosmo. Un’alterità radicale che, come osserva il curatore di questa nuova traduzione di Valentina Misgur, Marco Malvestio, nell’ introduzione, “non ha più nulla a che fare con l’umano, e la cui presenza segnala anzi l’insignificanza della nostra specie”. Una differenza che proprio nella sua incommensurabilità riesce a conciliare l’abisso estetico del soprannaturale con quello che le prospettive della fisica quantistica e einsteiniana hanno aperto sotto i piedi del positivismo. E con cui Lovecraft a modo suo non smette di fare i conti.
La sua ricostruzione prende le mosse dalle origini del romanzo gotico fine ’700 con Il castello di Otranto di Horace Walpole e I misteri di Udolpho di Ann Radcliffe, ripercorrendone l’evoluzione romantica, al di là di castelli, fantasmi e altri popolari stereotipi dell’orrore, fino all’apice individuato nel “Melmoth” di Charles Robert Maturin e del “Frankenstein” di Mary Shelley. La vera svolta, non solo per la forma del racconto breve, per il vate di Providence, arriva però soltanto con un americano: Edgar Allan Poe. Con lui i fantasmi «acquistarono una convincente malignità mai posseduta dai loro predecessori e stabilirono un nuovo livello di realismo negli annali della letteratura dell’orrore». Secondo Lovecraft, che odia l’occultismo e i suoi paramenti, gli atei e i miscredenti sono i migliori narratori del soprannaturale perché conoscono la misura del realismo scientifico. Come osserva ancora Malvestio, il suo giudizio resta comunque mobile, idiosincratico, a volte imprevedibile: la sua considerazione per Emily Bronte, anche limitatamente alla capacità di creare atmosfere weird, oscura ad esempio il rispetto formale per il “manierismo” mal sopportato di un Robert Louis Stevenson o per il “genio” di Bram Stoker, a suo dire malamente suffragato da una tecnica mediocre.
Il pantheon vero e proprio che Lovecraft eleva attorno al suo registro cosmico letterario getta le sue fondamenta nella narrativa fantastica degli eccentrici anni ’90 inglesi, che si proietta nel nuovo secolo attraverso William Hope Hodgson, Arthur Machen, Algernon Blackwood. Dei suoi contemporanei britannici Lovecraft apprezza soprattutto la serietà con cui viene trattato il tema dell’irrealtà. Ma, allargando il campo, il saggio inquadra anche eruditi come Montague Rhodes James, autori fantasy come Dunsany, la cerchia di Weird Tales come l’amico Clark Ashton Smith. Lovecraft è dopotutto anche uno degli autori più interconnessi (e autodocumentati) di sempre, come testimonia il suo sterminato epistolario, composto da migliaia di lettere. Due di queste – una a Clark Ashton Smith, l’altra all’editor di Weird Tales, Farnsworth Wright – sono riproposte in questa edizione assieme a due brevi saggi, Note su come scrivere narrativa weird e Qualche nota sulla narrativa interplanetaria. In quest’ultimo testo, passati in rassegna i luoghi comuni più triti delle space-opera anni ’20, Lovecraft spiega cosa invece, secondo lui, la visione del mondo esterno dovrebbe prospettare per l’epica spaziale del racconto fantascientifico, di cui darà anche un saggio in The Colour Out of Space (1927). Nel farlo, fornisce anche una delle formulazioni forse più caratterizzanti, in senso speculativo, del suo pensiero narratologico: «Il vero “eroe” di un racconto meraviglioso non è un essere umano ma semplicemente un insieme di fenomeni».