La sconfitta della ragione e il dominio degli istinti più brutali e incomprensibili sono alla base dell’avvento del nazionalsocialismo. Del senso di incertezza che si impadronì dell’Europa e dell’imminente catastrofe rese somma testimonianza Stefan Zweig ne Il mondo di ieri, struggente ritratto di un’epoca giunta al tramonto e votata all’abisso, pronto a manifestarsi nel Secondo conflitto mondiale. Analoga esperienza ci trasmette Heinrich Mann nell’Odio, lucida disamina dei meccanismi messi in moto da un potere spietato, pronto a tutto pur di affermare il proprio dominio sul mondo.
Motore del nazionalismo più dannoso è appunto l’odio del titolo, unica ragione d’essere di uno sconvolgimento che travolge la Germania. L’odio come religione, il cui sommo sacerdote è Adolf Hitler. “La rivolta dei meno colti e civili contro la ragione e i suoi difensori è il cuore del nazionalsocialismo”. Partendo da qui, Mann offre un ritratto convincente del cosiddetto “grande uomo”, artista fallito che ha intrapreso la strada del dittatore. Un individuo sorretto da capacità oratorie straordinarie, un teatrante in grado di far risultare convincente qualsiasi assurdità. Il terzo Reich origina da un fiume di parole che infonde in un’intera nazione un’insaziabile fame di vendetta. I toni melodrammatici dei discorsi del Führer, la sua gestualità rituale, scandiscono le tappe di una crescente isteria. Il popolo si convince di essere perseguitato, e per questo dovrà combattere i propri nemici.
La corte di Hitler è composta da una cricca afflitta da disagi psichici; ecco Göring, ministro dell’Interno e morfinomane, ed ecco Goebbels, letterato fallito assurto al ruolo di ministro della Propaganda. L’odio li muove, in particolare contro gli intellettuali, e poi contro ebrei e comunisti. “L’antisemitismo è il sintomo del disequilibrio interno a una nazione”. Il regime ha bisogno di un nemico, di un bersaglio per il proprio desiderio di vendetta. Lo stesso Heinrich Mann, fratello del più noto Thomas, fu costretto alla fuga e a un’esistenza erratica; l’eclissi della ragione non può tollerare un intelletto schietto e ribelle come il suo. Scopo della dittatura è eradicare il senso della democrazia, cancellare dalle giovani coscienze l’idea stessa della libertà. Parole che fanno venire i brividi ancora oggi, in un’epoca nella quale vediamo progressivamente erosi valori che credevamo acquisiti.
Le nostre democrazie vacillano sotto i colpi di un odio assai simile a quello descritto da Mann. La stessa avanzata delle destre estreme nella Germania attuale, animate da un brutale negazionismo e da simpatie nazionalsocialiste, è un segnale spaventoso in un mondo preda di sanguinosi conflitti. Mann annusava l’odore acre della guerra, il suo inevitabile manifestarsi. «A scatenarla sarà questa educazione morale fondata sulla menzogna», scriveva. Parole che devono far riflettere, per cercare di sfuggire quel baratro che, oggi come allora, minaccia di inghiottire la nostra civiltà. Mann, come Zweig, era un europeista; auspicava l’unione fra Francia e Germania come antidoto al conflitto, vagheggiava un consorzio fra le menti migliori di entrambi i paesi. Le cose, purtroppo, andarono diversamente. Il crollo della Repubblica di Weimar e la presa del potere da parte di Hitler consegnarono la Germania e l’Europa intera alla devastazione. Per questo è importante rileggere Mann. La sezione conclusiva del libro ci consegna alcune scene di vita nazista, quadretti di agghiacciante follia, dialoghi di kafkiana insensatezza nei quali i protagonisti soffrono per colpe mai commesse, costretti a un’esistenza misera e crudelmente spogliata di qualsiasi dignità.