Di Heinrich Heine c’è sempre bisogno. Perfino sotto il Terzo Reich, quando uno scrittore di origine ebraica come lui non poteva neppure sognarsi di restare nel canone della letteratura tedesca, ci si accorse che una poesia come la sua Loreley era entrata troppo a fondo nell’anima popolare e non poteva più esserne espunta: e allora la si riprodusse sui libri di scuola con l’avvertenza “di autore anonimo”.
Heine ebreo, materialista, rivoluzionario, pericolosamente vicino all’eresia comunista. Indimenticabile il passo della sua Lutezia (1854) in cui lui, poeta dal verso alato e dalle capacità musicali sopraffine, per certi versi anticipatore dell’art pour l’art del decadentismo, esprime in un gioco di antifrasi ironica il moto di diffidenza istintiva e insieme di attrazione di fronte agli orizzonti dischiusi dal pensiero di Karl Marx, in cui si palesa un futuro che a Heine appare non solo inevitabile, ma anche giusto e auspicabile:
“Questa ammissione, che l’avvenire appartiene ai comunisti, io la faccio in un tono d’apprensione e angoscia estreme […]. È solo con orrore e spavento che penso all’epoca in cui questi cupi iconoclasti giungeranno al dominio: con le loro mani callose spezzeranno senza misericordia tutte le statue di marmo della beltà, così care al mio cuore; fracasseranno tutte queste bazzecole e fanfaluche fantastiche dell’arte, tanto amate dal poeta […] e ahimé! il mio Libro dei canti servirà al droghiere per fare i cartocci dove verserà il caffè o il tabacco da fiuto per le vecchie dell’avvenire. Ahimé! io prevedo tutto questo, e m’afferra un’indicibile tristezza quando penso alla rovina di cui il proletariato vincitore minaccia i miei versi, che periranno con tutto il vecchio mondo romantico. E tuttavia, lo confesso con franchezza, questo stesso comunismo, così avverso a ogni mio interesse e inclinazione, esercita sulla mia anima un fascino da cui non posso difendermi”.
E indimenticabili i versi di Germania. Una fiaba d’inverno (1844), in cui Heine traccia i contorni del mondo a venire che s’instaurerà in luogo del “vecchio mondo romantico”, e nel quale l’attenzione agli aspetti pratici, materiali della vita va a braccetto con la sua tensione ideale, a indicare la strada per “il pane e le rose” di un’utopia immanente:
“Un nuovo canto, un canto migliore, / O amici, vi offro in poesia! / È sulla Terra che abbiamo nel cuore / Il regno dei cieli. Vogliamo che sia / Già felice l’uomo sulla Terra ubertosa,/ E non che passi la vita a penare; / La pancia pigra non dovrà divorare / Ciò che produsse la mano industriosa. / Quaggiù cresce pane a piacere / Per tutti i figli dell’umanità, / E rose e mirti, bellezza e piacere, / E piselli zuccherini in gran quantità. / Già, piselli per ciascuno di noi, / Non appena i gusci sian rotti! / Il cielo lassù lasciamolo a voi, / Angeli, e a voi passerotti.”
Di Heine c’è ancora bisogno: ed è benvenuta questa nuova edizione, a distanza di quasi sessant’anni dalla precedente traduzione italiana, di Atta Troll (1842), uno dei suoi poemi lunghi, 400 quartine in venti capitoli, quello che, insieme proprio a Germania. Una fiaba d’inverno, mette più in luce l’atteggiamento di Heine nei confronti dell’amata-odiata Germania, degli amati-odiati tedeschi: contraddizioni profonde di un paese che si andava configurando nelle sue caratteristiche di immenso potenziale rivoluzionario e al tempo stesso nelle sue pastoie di gretto moralismo, di esasperato nazionalismo venato di pulsioni antisemite, nell’ombra del montante pangermanesimo che, alimentato dalle correnti più retrive della cultura dell’epoca, crescerà come un fiume per tutto l’Ottocento e sfocerà poi nella barbarie nazionalsocialista. Atta Troll recupera con spirito eclettico gli elementi di diverse tradizioni, dalla mitologia nordica a quella slava: guarda alla poesia esotica e a quella di tendenza del suo tempo, fonde l’osservazione della Francia, dove Heine vive stabilmente dal 1831 e di cui condivide gli ideali illuministici, con gli echi romantici che in lui non si spegneranno mai del tutto, e traduce il tutto in una trama delirante che, nella figura del protagonista, l’orso ribelle, eppure vanaglorioso e inconcludente, che rifiuta di sottomettersi agli uomini e spezza le proprie catene, la cui pelle finirà per fare da scendiletto a una dama del poeta, satireggia certe figure della sinistra liberale del suo tempo, ingenue e vuote, senza una vera visione politica. Visione che invece Heine indubbiamente possiede, come dimostrano i richiami alla realtà e al pensiero dell’Ottocento mediano del quale è osservatore e insieme protagonista, e che passa ad esempio attraverso l’enunciazione in forma di poesia delle tesi di Qu’est-ce que la proprieté di Proudhon, che pongono in primo piano, come scrive il curatore di questo volume “le degenerazioni della società capitalistica del profitto, che nei primi anni Quaranta avvicina Heine alle posizioni del primo socialismo”. Un testo bello e complesso, armonico e stridente, che offre molteplici livelli di lettura, ai quali l’introduzione e le note ci offrono un’utile, anzi indispensabile chiave di accesso, e che alla fine risulta anche – incredibilmente – molto divertente.
Un’ultima notazione. Atta Troll è stato tradotto da Fabrizio Cambi con estrema sensibilità per il registro formale, per la dimensione poetica di un verseggiare ora sapido e corposo, ora colmo di slancio lirico. Lo stesso Cambi ne ha curato l’apparato critico, con una densa introduzione, una puntuale e ricca serie di note al testo e una bibliografia aggiornata. Fabrizio Cambi è scomparso poche settimane dopo che questo volume ha visto la luce. Uomo generoso e schivo, germanista di intelligenza profonda e di sterminata competenza, Cambi era una di quelle persone sconosciute al grande pubblico, che non amano la ribalta, alle quali non piace apparire, attribuendo al proprio compito e al proprio mestiere una funzione di servizio e prodigandosi per svolgerla con umiltà e dedizione. Un intellettuale vero. Anche di quelli come lui c’è sempre, più che mai, bisogno.