Il disegno di un vagone della metropolitana campeggia sulla copertina di questo Oscar Baobab dedicato ai racconti di Heinrich Böll a indicare la decisa preminenza del treno e delle stazioni ferroviarie nella sua prima narrativa: sono le tradotte che trasportano le truppe al fronte e le riportano in patria o i vagoni su cui si muovono alcuni umili pendolari, protagonisti di questi racconti, mentre nelle stazioni si consumano attese, talora deluse, con la donna amata, sicché il treno e la stazione assurgono a cifra allegorica dell’incrociarsi dei destini individuali e delle svolte inattese che presiedono le biografie di ognuno. E del resto la stazione ferroviaria di Colonia, situata nel pieno centro della città accanto al maestoso Duomo romanico e nelle immediate prossimità del Reno, costituisce un punto di riferimento decisivo nella topografia della città natale di Böll, in cui è ambientata gran parte della sua opera narrativa.
L’ampia silloge, curata da Anna Ruchat, e che si avvale in larga parte delle traduzioni “storiche” apparse negli scorsi decenni presso Mondadori e Einaudi, traccia una lunga parabola dai primissimi racconti di anteguerra sino a Rapporti confidenziali sui sentimenti politici della nazione (1975), un racconto-pamphlet di carattere satirico appositamente ritradotto per l’occasione dalla curatrice, che testimonia l’impegno civile dello scrittore negli anni del terrorismo, intorbidati dal clima di sospetto seguito alla promulgazione nel 1972 del Radikalenerlaß, il decreto che escludeva dagli impieghi pubblici persone dalle idee politiche estremiste e di cui resta traccia anche nel racconto anch’esso antologizzato Vai troppo spesso a Heidelberg (1977).
L’antologia intende dunque dar conto della varietà di generi e soggetti della narrativa breve di Böll che pur nella eterogeneità di toni e temi è interamente riconducibile al rispetto della dignità umana, a “una pietas senza condizioni” filtrata da una profonda sensibilità religiosa, come osserva Ruchat nella Avvertenza iniziale. Emerge pienamente in questi testi quella “estetica dell’umano” che Böll nelle Lezioni di Francoforte (1964) aveva innalzato a principio della propria poetica; un’estetica in cui “il dimorare, il vicinato e la patria, i soldi e l’amore, la religione e i pasti, il matrimonio, la famiglia, l’amicizia (…), l’abbigliamento (…), il lavoro, il tempo” assurgono a temi centrali della narrativa dell’autore. Si delinea, dunque, un interesse umile e attento per la quotidianità, per il vivere semplice e minuto, ispirato peraltro ai più autentici valori morali del cristianesimo. L’estetica dell’“umano”, l’attenzione agli umili e ai negletti, la nobilitazione della esistenza umana nella sua misera e splendida fisicità costituiscono per Böll la risposta più autentica ed efficace sia alla disumanizzazione ideologica, sociale e linguistica provocata dal Nazismo sia alla spersonalizzazione indotta dalla società consumista, individualista e tecnocratica impostasi nel dopoguerra.
La tormentata religiosità dell’autore, ispirata, soprattutto negli anni giovanili, al fervore di Léon Bloy e in costante dissidio con l’istituzione ecclesiastica, emerge già nel primo racconto antologizzato, di sapore dostoevskijano, opera di un Böll neppure ventenne, I fervidi (Die Brennenden, 1936-37) in cui affiorano temi e scenari tipici dell’autore, ovvero l’amore, il matrimonio, la povertà, e in cui trapelano toni estatici che risentono della letteratura simbolista ed espressionista di primo Novecento. Uno stile enfatico e turgido di pathos è riscontrabile in tutti questi primi racconti che risulterebbero irrimediabilmente datati se non fossero vivificati da un tocco autentico di poesia, da un afflato sentimentale sincero e mai stucchevole; si pensi alla grazia e alla compostezza con cui il narratore descrive l’appuntamento tra due amanti nello scenario devastato di una città in macerie (Appuntamento tra le macerie, 1946) o alla pietà riservata all’amaro destino del reduce (Rivedere B., 1948). Non meno notevole è la precisione con cui Böll descrive le condizioni di vita nelle città tedesche sventrate dalle bombe, tra fame, freddo e coabitazione, con una dovizia di dettagli che rende con immediata vividezza all’ignaro lettore impressioni visive e odori di quei desolanti scenari.
L’esperienza della guerra – Böll combatté in Francia e sul fronte orientale – costituisce il cuore della narrativa del nostro scrittore e si può ben affermare che pochi hanno saputo tradurre sulla pagina al pari di Böll la noia, il vuoto, la disperazione e la paura della morte che attanagliano i soldati in guerra. A tal proposito merita una menzione il breve racconto Il ratto (1947), tradotto per la prima volta nel presente volume, che presenta al lettore con abile virtuosismo acustico e visivo la scena notturna di due soldati in trincea, rintanati al buio in una nicchia soffocante in mezzo agli spari che rimbombano dall’esterno, ridotti appunto a topi nella tana. Domina qui quella che Böll a proposito di un suo racconto di poco successivo, Nell’oscurità (non antologizzato), definirà la “prospettiva del verme”, ovvero la prospettiva limitata e circoscritta del soldato immediatamente coinvolto e, come tale, privo di uno sguardo sovrano sugli eventi e di una capacità di riflessione critica. La visione del narratore non si limita tuttavia a questa prospettiva circoscritta ma si estende a una visuale storica di più ampio raggio; Böll è stato infatti tra i primi a testimoniare, in forma narrativa, lo sterminio ebraico (si veda in tal senso anche il romanzo Dov’eri Adamo, ripubblicato recentemente da Mondadori) e i crimini della Wehrmacht, l’esercito tedesco, denunciati con forza nell’importante racconto Causa della morte: naso a uncino, scritto nel 1947 ma pubblicato solamente (e forse non a caso) nel 1983. Il sottotenente Hegemüller, acquartierato in una località sul fronte orientale, cerca di salvare dallo sterminio il figlio della sua affittacamere, arrestato perché ritenuto, a torto, ebreo e si affretta dunque al luogo dove si sta svolgendo lo sterminio; con la consueta precisione il narratore descrive la scena infernale che si dispiega agli occhi di Hegemüller e che pare adombrare il massacro che ebbe luogo nel 1941 nell’ucraina Babij Jar: uno stuolo di soldati ubriachi massacrano a colpi di mitragliatrici uomini, donne e persino lattanti, i cui cadaveri rotolano nella voragine antistante.
Sempre meritevole di una rilettura è, poi, lo splendido Viandante, se giungi a Spa… (1950): un giovanissimo soldato, gravemente ferito, viene condotto in barella in un edificio che si rivelerà essere il liceo da lui lasciato appena tre mesi prima e ora adibito a infermeria militare. Lo sguardo del ferito passa sui quadri e i busti di personaggi dell’antichità che contornano le pareti dei corridoi e si sofferma all’interno di un’aula, ora riadattata a sala operatoria, su di un frammento di frase alla lavagna in cui egli riconosce la propria calligrafia: “Viandante, se giungi a Spa…”. È l’incipit dell’epitaffio di Simonide di Ceo per gli spartani morti alle Termopili: “Viandante, se giungi a Sparta, racconta che ci hai visto giacere qui, in obbedienza alle loro leggi”. Böll denuncia la strumentalizzazione della cultura classica operata dai nazionalsocialisti e condanna il tradimento di un’intera generazione di giovani tedeschi, educati al culto della morte eroica e immolati a un destino tremendo (il protagonista si accorge nel finale di essere privo delle braccia e della gamba destra).
L’esperienza sconvolgente della guerra è per Böll una ferita che non si rimargina, un torto non riparabile; affiora pertanto, nei racconti del dopoguerra, il senso di amara solitudine e di estraneità percepito dai reduci dinanzi alla società tedesco-federale, presto dimentica dei recenti orrori e follemente protesa alla ricerca di un benessere moralmente ottundente. “Siamo nati per ricordare. Non dimenticare, ma ricordare è il nostro compito” (p. 146): questa asserzione del tenente Schelling, l’ufficiale umano, attento ai bisogni dei propri soldati che soccomberà alla crudeltà del capitano Schnecker nel lungo racconto di soggetto bellico Il legato (1948), vale come monito e dichiarazione di poetica per tutta la narrativa di Böll del dopoguerra. Il contrasto tra la dolorosa consapevolezza del reduce e l’ignaro e un po’ stolido ottimismo dei giovani “carrieristi” del dopoguerra è percepibile in un fine racconto del 1952, qui tradotto per la prima volta dalla curatrice, in cui affiora, perlomeno nel finale, un guizzo satirico che prelude alla grande narrativa di Böll degli anni Cinquanta. La realtà tedesco-federale degli anni Cinquanta, improntata a un clima di restaurazione politica e inebriata dal benessere economico, refrattaria alla rielaborazione del passato nazista e votata a uno “sviluppo senza progresso” (per usare un’espressione di Pasolini, spirito affine allo scrittore renano), suscita in Böll una indignazione morale a cui egli ritiene di poter far fronte solo con l’arma letteraria della satira.
Nascono così alcuni dei grandi racconti qui antologizzati, come La pecora nera, Tutti i giorni Natale o La raccolta di silenzi del dottor Murke, e si delinea un tipico personaggio bölliano: l’individuo stravagante e asociale, l’outsider che si sottrae alle leggi del lavoro e della produttività e che sabota i meccanismi ben oliati di una società votata al successo e al profitto. Tale è il protagonista de La pecora nera (con cui lo scrittore vinse il premio del Gruppo 47) che riconosce del resto quale caratteristica delle “pecore nere” il non riuscire a trasformare in denaro le proprie qualità reali, “o come si dice ora, a sfruttarle economicamente” (p. 226), ma alla categoria appartiene anche lo zio Franz di Tutti i giorni Natale che osteggia le nevrosi della madre, la zia Milla; la donna, che si era accorta della guerra solamente perché in seguito ai bombardamenti aveva dovuto rinunciare all’addobbo dell’albero di Natale, pretende nel primo Natale del dopoguerra che “tutto sia come prima”, cioè che l’albero venga decorato di nuovo con angioletti, candele, cioccolata, frutta e marzapane, ovvero con beni costosi e difficilmente reperibili; colta da un accesso isterico al momento di levare gli addobbi dall’albero, zia Milla costringe i parenti a una dispendiosa e allucinata celebrazione quotidiana del Natale alla presenza di un sacerdote. Böll prende di mira con notevole lungimiranza la dimensione puramente consumistica cui sono ridotte le festività religiose e la bigotteria pseudoreligiosa di una società che si avvia alla secolarizzazione, ma denuncia pure la colpevole smemoratezza di chi intende rimuovere il passato alla ricerca di un edonismo euforico e illusorio: “Pur rischiando di rendermi odioso, debbo qui ricordare un fatto, in difesa del quale posso soltanto dire che esso è vero: negli anni dal 1939 al 1945 abbiamo avuto la guerra” (p. 232) dichiara il narratore con amara ironia.
Pervaso da un guizzo anarchico e sovversivo è anche il dottor Murke dell’omonimo racconto, giovane redattore radiofonico che all’insopportabile chiacchiericcio dell’ambiente in cui lavora oppone una forma paradossale di resistenza passiva; egli raccoglie i ritagli di nastri in cui l’oratore fa una pausa, tace o sospira e riascolta a casa nel tempo libero, assaporandoli, questi preziosi “silenzi”. Obiettivi satirici di questo racconto, ambientato nel luogo principe dell’industria culturale del tempo, ovvero lo studio radiofonico, sono la mancanza di rigore morale, l’adeguamento delle convinzioni religiosi alle convenienze sociali, la vaniloquenza velleitaria e il conformismo di un sistema culturale che prefigura drammaticamente l’indifferentismo morale e le assenze di gerarchie di valori di quello attuale.
“Ogni pietruzza scagliata da Böll (…) coglie nel segno: la sua precisione di tiro arriva al posacenere. Soltanto una simile precisione può ormai colpire una realtà che è al disopra di ogni esagerazione”; con queste parole il giovane Hans Magnus Enzensberger recensiva nel 1958 La raccolta di silenzi del dottor Murke ed elogiava il grado di perfezione raggiunto dalla trasfigurazione caricaturale di Böll.
“Una satira autobiografica” è l’epiteto con cui Böll definì Lontano dall’esercito (1964), lungo racconto qui antologizzato, ambientato nel 1938 e animato da una vena canzonatoria vagamente surrealista e intessuto sul filo di una garbata sfida ingaggiata con il lettore, a riprova della varietà stilistica e formale dell’arte narrativa bölliana, non riconducibile a una tonalità semplicemente “realista”.
Espressamente autobiografico è, infine, il racconto-memoir Che cosa faremo di questo ragazzo? (1981), nato in seguito all’invito rivolto all’autore dal critico Marcel Reich-Ranicki a fornire un contributo per un volume di testimonianze sulla scuola durante il Terzo Reich (cfr. Andavo a scuola nel Terzo Reich. Ricordi di scrittori tedeschi, ed. italiana il melangolo 2008). Con questo testo memorialistico, che si distingue per il carattere modesto e anti-celebrativo, si ritorna alle radici del Böll uomo e scrittore; allo spirito di indipendenza che ha sempre animato l’autore – avversario del nazismo della prima ora – e agli esordi della sua vocazione letteraria, nutrita di una spiccata capacità di osservazione e maturata nei vicoli della vecchia Colonia in giornate di bighellonaggio e di evasione dalle aule scolastiche: “Mani in tasca, occhi insù, venditori ambulanti, rigattieri, mercati, chiese, anche musei (…), puttane (vicino alle quali a Colonia passava solo una strada) – cani e gatti, monache e preti, monaci – e il Reno, il Reno, questo grande e grigio Reno, animato e vivace, sulla cui riva potevo stare seduto per ore” (pp. 432-433). Precisione realistica e afflato lirico, ferma denuncia e autoironia caratterizzano questo testo autobiografico così come gran parte della migliore narrativa dell’autore, di cui il presente volume dà ampiamente conto.
Pur celebrato in vita (Nobel per la letteratura nel 1972) e ampiamente tradotto, Böll resta attualmente uno scrittore un po’ dimenticato, il cui solido umanesimo religioso appare, in anni post-ideologici e totalmente secolarizzati, come (ingiustamente) superato; va dunque ascritto a merito di questa corposa antologia l’aver ridato piena voce a un narratore autentico, a uno scrittore coraggioso e schietto che ha improntato la propria produzione letteraria a un fermo ethos e ha saputo raccontare il destino dell’uomo con intensità e asprezza, con vigore e ironia.