Ogni volta che ci si accosta alla figura e all’opera del grande critico statunitense Harold Bloom, recentemente scomparso, si prova una sorta di timore reverenziale, una sorta di angoscia dell’influenza, cioè quel fenomeno che lo stesso Bloom ha individuato in una delle sue opere più riuscite, L’angoscia dell’influenza, in un excursus filosofico-letterario che va dallo pseudo Longino a Sigmund Freud, da John Milton al cabalista Itzàq Luria, da Wallace Stevens allo gnostico Valentino, mescolando la teoria freudiana con la Kabbalah, la teoria del sublime con la Kabbalah e lo Gnosticismo. Bloom è talmente presente nel dibattito critico contemporaneo – e continuerà a esserlo presumibilmente per i prossimi cinquant’anni – che anche in questa triste occasione ci riferiremo a lui al presente, interpelleremo la sua figura, il critico letterario Harold Bloom, come una presenza, una presenza ingombrante che occupa con la sua stazza imponente, come il suo personaggio prediletto, Falstaff, gran parte del panorama critico contemporaneo.
Bloom e la psicanalisi
Alla base della teoria critica, del metodo critico di Harold Bloom, c’è la fondamentale intuizione che la psicanalisi non è stata soltanto una scienza per la cura dei malati di mente, inventata da Sigmund Freud per guarire i pazienti schizofrenici o paranoici. Freud non è stato uno scienziato, tanto meno il fondatore di una nuova scienza, ma un grande scrittore tardo-romantico, un grande teorico del sublime moderno, l’ultimo grande pensatore ebraico, con le sue teorie estremamente revisionistiche e dunque estremamente originali riguardo la storia dell’ebraismo (Mosè e il monoteismo, 1939) e autore dell’ultimo trattatello tardo-romantico sul sublime (Al di là del principio del piacere, 1920), in cui egli arriva ad affermare che scopo della vita è la morte, che la vita non è altro che un dètour rispetto alla inevitabile meta finale, che è la nostra morte.
Secondo l’interpretazione di Bloom, Freud ci ha lasciato una vera e propria teoria retorica basata sui meccanismi di difesa e sulle pulsioni. La tremenda forza della scrittura di Freud ha fatto sì che le sue metafore si imponessero a noi come delle verità assolute. Eppure quelle di Freud non sono affatto delle verità, ma delle menzogne necessarie, come arrivò ad affermare Friedrich Nietzsche. Ancora oggi siamo intrappolati, imprigionati dentro le metafore inventate da Freud; esse si sono imposte a noi con l’evidenza della verità. Noi pensiamo attraverso di esse, non c’è modo di sfuggire alla loro “fatticità”, un termine che Bloom riprende da Martin Heidegger (Faktizitat). Ancora oggi ognuno di noi è convinto di essere dominato dalla Libido, e Bloom si è chiesto spesso che cosa sarebbe successo se il padre della psicanalisi fosse andato avanti con la sua intuizione che dentro di noi c’è un altro impulso fondamentale, uguale e contrario rispetto alla Libido, che Freud avrebbe voluto chiamare Destrudo, salvo poi ripensarci all’ultimo momento.
Questo non significa riproporre la “prigione del linguaggio” di Fredric Jameson (La prigione del linguaggio, 1973) e dei post-strutturalisti – secondo Bloom non si può ridurre tutta la realtà al linguaggio, proprio perché dietro la prigione del linguaggio si intravede la disperazione di un intero popolo, gli ebrei, costretto a scommettere sull’erranza del significato, affinché questo stesso significato potesse salvarsi – bensì di riproporre una modalità di pensiero tardiva, consapevole della propria tardività (belatedness) che riaffiora periodicamente nei periodi storici in cui è massima la disperazione degli ebrei e dell’umanità in generale sul proprio futuro, come accadde circa duemila anni fa quando apparvero sulla scena dei pensatori estremamente raffinati ed elitari, i pensatori gnostici.
Bloom e gli Gnostici
Harold Bloom ha letto tutto e ha scritto su tutto, non c’è capolavoro della letteratura mondiale che quest’uomo non abbia letto e non abbia commentato, e naturalmente ha letto e riflettuto attentamente anche sui testi gnostici ritrovati nel 1945 a Nag Hammadi in Egitto, e su alcuni di essi ha basato il suo originale approccio critico. È difficile sottovalutare l’importanza che questi testi, insieme ai testi essenici ritrovati nelle Grotte di Qumran sul Mar Morto tra il 1947 e il 1956, hanno avuto sulla filosofia, sulla teologia, sulla riflessione sul cristianesimo delle origini e sulla stessa letteratura, soprattutto la letteratura statunitense. Ci limiteremo a citare due grandissimi autori americani che presentano degli evidenti elementi gnostici nelle loro opere: Philip K. Dick e Thomas Pynchon. Dick ha addirittura scritto un intero libro, l’Exegesis (2011), che è letteratura gnostica da cima a fondo, una sorta di tardivo apocrifo del Nuovo Testamento, il Vangelo di Filippo.
Chi furono gli gnostici secondo Bloom? Semplicemente dei modernisti e dei revisionisti, cioè dei pensatori che trovandosi di fronte a un pensiero sovradeterminato dal platonismo, dal cristianesimo, furono costretti a scartare rispetto a questo pensiero, a operare una sorta di clinamen lucreziano, per poter approdare a un nuovo significato, a una nuova originalità.
Da cosa deriva la profonda originalità degli gnostici? Qui sta la geniale intuizione di Bloom. Essa deriva da una sorta di meccanismo freudiano che si insedia nell’essenza stessa della divinità, una sorta di ferita narcisistica di Dio, una sorta di vuoto che si crea all’interno della divinità, quel nulla gnostico e poi cabalistico (ayn) che Dio ha bisogno di creare in se stesso affinché la creazione possa avere inizio. Di qui il concetto profondamente originale di creazione-catastrofe, la “rottura dei vasi” di Luria e dei cabalisti, Dio stesso che trattiene il respiro… quello straordinario esempio di Modernismo e di pensiero antitetico che va sotto il nome di Gnosi.
Se per Modernismo intendiamo un pensiero che, trovandosi in una posizione tardiva rispetto a una tradizione già consolidata e “chiusa”, la rifiuta in blocco affermando in questo modo la sua assoluta originalità, allora la Kabbalah e la Gnosi sono due esempi di Modernismo, in quanto tentativi di trovare attraverso un’interpretazione estrema dei significati completamente nuovi. Lo slogan modernista “make it new” non è affatto nuovo… del resto basta rileggere il De Rerum Natura di Lucrezio per scoprire che già per gli antichi il mondo era prossimo alla fine.
Gli gnostici riprendono alcuni concetti e alcuni episodi della vita di Gesù e li stravolgono. In alcuni testi gnostici addirittura Gesù si mette a ridere mentre lo stanno martirizzando sulla Croce. Si tratta in parte di quella stessa “uncanniness” – il perturbante freudiano (Unheimliche), qualcosa che ci è familiare ed estraneo allo stesso tempo – che Bloom individua in alcuni passi del Vecchio Testamento scritto dallo Yahwista, ovvero J – che secondo lui era una donna vissuta alla corte di Re Salomone – quando Jahveh, per esempio, si mette a mangiare del vitello arrosto insieme ad Abramo sotto i terebinti di Mamre, oppure quando Jahveh viene assalito da un improvviso impulso omicida e cerca di uccidere Mosé, oppure la famosa scena descritta da Bloom come “il picnic sul Sinai”, quando Jahveh concede a Mosè, Aronne, e a settanta savi di Israele di contemplarlo sul Monte Sinai attraverso un meraviglioso pavimento di zaffiro, “ed essi mangiarono e bevvero”. È un Dio stranamente antropomorfo quello di J, che cammina insieme ad Abramo sulla strada per Sodoma e discute con lui in merito ai giusti da salvare, che se la prende con Sara perché sta ridendo; è un Dio permaloso e profondamente ingiusto quello che ci viene descritto nel Libro di J, che Bloom ha riproposto in una nuova traduzione insieme a David Rosenberg; un Dio molto diverso da quello che abbiamo adorato per millenni, cioè il Dio di Ezra il Redattore, quel “vecchio con la barba bianca”, quel Nobodaddy che William Blake proprio non riusciva a sopportare. Il Dio di J invece è un Dio geloso e possessivo, un Dio che pretende moltissimo dai suoi fedeli prediletti, che manda contro i suoi figli prediletti, come Giobbe, le peggiori piaghe e le peggiori sofferenze, che è molto esigente nei confronti di coloro che sono i suoi eletti, da coloro che gli vogliono bene e lo rispettano, proprio come fa il Re Lear di Shakespeare con la sua figlia prediletta Cordelia, supremo paradosso di un affetto paterno così sconfinato da accecare completamente il vecchio Re.
Bloom e i Filosofi
I testi di Bloom sono letteralmente pieni di riflessioni filosofiche; le sue opere di critica letteraria sono molto di più di semplici analisi di testi letterari, anzi, potremmo definirli degli stupendi esempi di scrittura sapienziale, cioè dei testi che letteralmente ci insegnano a leggere meglio, a pensare meglio e in definitiva a vivere meglio. Bloom non va molto d’accordo con i filosofi, soprattutto con i filosofi del linguaggio e con il decostruzionismo del suo amico Paul de Man, perché i filosofi nei secoli si sono sempre sentiti superiori alla Letteratura, hanno sempre avuto la pretesa di spiegare la poesia con qualcosa a essa estraneo, cioè tramite dei concetti filosofici. Lo stesso dicasi di quei critici letterari che si illudono di spiegare la poesia tramite la filosofia, e non viceversa. In uno dei suoi libri più importanti, Shakespeare. L’invenzione dell’uomo, Bloom ci dimostra che nessun filosofo è mai riuscito ad attingere alla profondità di pensiero di Shakespeare quale si manifesta in Amleto, nel Macbeth, nel Re Lear. Nessun pensatore filosofico riuscirà mai a raggiungere le vette di pensiero che ha raggiunto l’Amleto di Shakespeare, un personaggio troppo intelligente per potersi adattare a una semplice tragedia di vendetta; l’unico personaggio della letteratura mondiale che dà l’impressione, per tutta la tragedia che lo vede protagonista, di non voler recitare la parte che Shakespeare ha scritto per lui. Amleto è un personaggio talmente riuscito che pochi altri personaggi possono stargli alla pari: egli è sullo stesso piano dello Jahveh dell’Antico Testamento oppure del Gesù del Nuovo Testamento, ed è solo per un caso fortuito della storia, dice l’eretico revisionista Bloom, l’ebreo gnostico Bloom, che nelle chiese non ci prostriamo di fronte all’immagine di Amleto ma del Cristo. Di qui la formula apparentemente paradossale utilizzata da Bloom negli ultimi vent’anni della sua carriera: Shakespeare è Dio, nessuno ha saputo creare più di Shakespeare, egli ha inventato dei personaggi che sono molto più reali di noi esseri umani in carne e ossa, personaggi che ci sopravvivranno nei secoli dei secoli. Da questa constatazione nasce la confessione fatta da Bloom in una delle sue ultime interviste: “la sera prima di andare a dormire rileggo alcuni passi delle opere di Shakespeare e prego Shakespeare”. Quando leggiamo nei testi di Bloom l’espressione “la religione della letteratura”, essa va intesa in senso letterale.
L’unico filosofo di cui Bloom ha stima e fiducia è Thomas Carlyle, l’autore del dissacrante trattato filosofico Sartor Resartus del 1836 (Liberilibri, 2009), oppure il buon vecchio Ralph Waldo Emerson, fondatore della Religione Americana, il Trascendentalismo, il cui motto fondamentale è espresso nel saggio del 1841 “Self-Reliance” (1841) (La fiducia in se stessi, Ibis, 2003): “There is no method other than yourself”, un concetto molto vicino a quello espresso circa duemila anni prima dagli Gnostici.
Bloom riformula questo stesso concetto alla sua maniera, applicandolo alla critica letteraria: “ la lettura forte non chiede mai ‘ho correttamente inteso questa poesia?? (…) Se non credi nella tua lettura, non importunare gli altri al riguardo, ma se ci credi, non deve importarti se gli altri siano d’accordo o meno. Se la tua lettura è forte abbastanza, gli altri si troveranno comunque d’accordo e non avrai che da scrollare le spalle quando infine ti diranno che è una lettura giusta. Naturalmente non lo è, perché leggere giusto non è leggere bene….” (Agone, p. 30)
Un altro filosofo fondamentale per comprendere Bloom è il filosofo del nichilismo e delle “menzogne necessarie”, Friedrich Nietzsche, soprattutto il Nietzche della svolta radicale rappresentata dal saggio del 1896 “Su verità e menzogna in senso extramorale” (Adelphi, 2005), oppure il Nietzsche che affida la possibilità di un superamento del nichilismo dopo “la Morte di Dio” alla scrittura letteraria e profetica di Così parlò Zarathustra (1885). Nietzsche è colui che ci ha insegnato il vero senso dell’opera d’arte che, secondo un famoso frammento de La volontà di potenza (1901), ci aiuta a non perire a causa della verità. La verità uccide: ecco perché non possiamo vivere senza l’arte. L’estetismo non è affatto un vezzo dei letterati e dei poeti, ma una necessità inderogabile, se vogliamo sopravvivere in questo mondo.
L’unico filosofo contemporanea che in qualche modo si avvicina alla riflessione critica di Bloom è il filosofo neopragmatista americano Richard Rorty con Consequences of Pragmatism del 1982 (Feltrinelli, 1986), suo amico di vecchia data, proprio perché Rorty, nel suo pragmatismo, è arrivato ad affermare che la filosofia è giunta a un punto tale per cui deve ormai abdicare alla sua pretesa di essere il “discorso dei discorsi” ovvero l’indagine sui fondamenti della conoscenza, e rassegnarsi a diventare semplicemente un genere di scrittura.
Bloom e la Kabbalah
Bloom ha sempre affermato che nella nostra epoca estremamente tardiva, in cui l’esistenza stessa dei testi è in pericolo, abbiamo bisogno di teorie estreme, di interpretazioni forti. Egli è sempre stato fautore di una testualità forte, anzi, talmente forte che arriva a dissolvere il testo (non ci sono testi, ma solo interpretazioni). Nella nostra epoca tardiva, in cui le persone che amano la letteratura sono drasticamente diminuite, in cui scarseggiano i cosiddetti lettori forti, c’è bisogno di interpretazioni estreme, c’è bisogno di lettori-interpreti estremisti, di lettori e interpreti che propongano una significato talmente eccentrico da spezzare le catene che tengono prigioniero il significato e gli consentano di ricominciare ad errare. Questa necessità della mislettura (misreading) esposta in modo magistrale nel suo libro Una mappa della dislettura, Bloom la fa risalire alla tradizione cabalistica degli ebrei di Spagna costretti all’esilio, che avevano un disperato bisogno di aprire il testo (la Thorah) alle sofferenze del presente, cioè di trovare nel testo della Thorah una spiegazione alle loro tribolazioni. Questa psicologia della tardività la ritroviamo nei cosiddetti “rapporti revisionistici” (revisionary ratios) che caratterizzano la poesia degli ultimi tre secoli, in cui la presenza di poeti fortissimi costringe i poeti tardivi a delle spaventose autolimitazioni e auto-mutilazioni, a dei veri e propri svuotamenti di significato pur di rimarcare la propria distanza dal precursore. Ecco perché l’interpretazione della poesia deve prescindere totalmente da qualsiasi considerazione morale o ideologica, La poesia non ci rende migliori, non ci rende più buoni, ma ci rende più consapevoli, che è una cosa diversa.
Forse abbiamo sbagliato a idealizzare la letteratura, dice Bloom: i poeti e gli scrittori in genere non sono affatto degli altruisti, non sono affatto delle belle persone: anzi, essi sono sempre profondamente ingrati ed aggressivi nei confronti dei loro precursori, e tutto ciò dovrebbe farci riflettere su quanto sia sbagliato analizzare la Letteratura utilizzando categorie morali o ideologiche, attribuire alla Letteratura un potere salvifico per l’Umanità. Forse abbiamo sbagliato a fondare sui testi letterari il nostro Umanesimo.
Eppure, nonostante tutto, la Letteratura ci rende migliori di quello che siamo. Leggere i testi di Bloom non è solo un’esperienza straordinaria dal punto di vista intellettuale, ma è un’esperienza che ci trasforma e ci rende migliori. Grazie ad essi anche noi possiamo camminare con J sulla strada di Sodoma, discutere con Amleto, banchettare con Falstaff, contemplare – se pure a distanza – la grandezza di un pensiero critico che ci prende e non ci lascia più, che è sempre più intelligente e più originale del nostro. Forse tra tanti anni leggeremo le sue opere non soltanto come testi di critica letteraria, ma per cercarvi la Luce della Gnosi o della Kabbalah, quella “perfezione che annienta” (Gerschom Scholem).
Ecco perché Bloom è venuto tra noi, ha camminato sulla Terra insieme a noi come lo Jahveh di J, ha mangiato del vitello arrosto con noi, per poi tornare nella Luce.
Harold Bloom – Opere essenziali
The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry , New York, Oxford University Press, 1973 (tr. L’angoscia dell’influenza: una teoria della poesia, Feltrinelli, 1983).
A Map of Misreading , New York, Oxford University Press, 1975 (tr. Una mappa della dislettura, Spirali, 1988).
Kabbalah and Criticism, New York, Seabury Press, 1975 (tr. La Kabbalà e la tradizione critica, Feltrinelli, 1981).
Poetry and Repression: Revisionism from Blake to Stevens, New Haven, Yale University Press, 1976.
Agon: Towards a Theory of Revisionism, New York, Oxford University Press, 1982 (tr. Agone, Spirali, 1985).
The Breaking of the Vessels, Chicago and London, The University of Chicago Press, 1982 (tr. I vasi infranti, Mucchi, 1992).
The Book of J (scritto in collaborazione con David Rosenberg), New York, Grove Weidenfeld, 1990 (tr. Il Libro di J, Leonardo, 1992).
The American Religion. The Emergence of the Post-Christian Nation, New York, Chu Hartley Publishers, 1992 (tr. La religione americana. L’avvento della nazione post-cristiana, Garzanti, 1994).
The Western Canon. The Books and School of the Ages, New York, Riverhead Books, 1994 (tr. it. Il canone occidentale, Milano, Rizzoli, 2008)
Shakespeare: The Invention of the Human, New York, Riverhead Books, 1998 (tr. Shakespeare: L’invenzione dell’uomo, Rizzoli, 2001).
Where Shall Wisdom Be Found?, New York, Riverhead Books, 2004 (tr. La sapienza dei libri, Rizzoli, 2004)