La struttura nascosta del mondo

Hao Jingfang, Pechino pieghevole, tr. Silvia Pozzi, ADD Editore, pp. 352, euro 18,00 stampa, euro 9,99 ebook

In un futuro che non è tanto un futuro, perché si è lasciato alle spalle da un pezzo i temi e le illusioni della modernità, Pechino è una metropoli che ha abbandonato qualsiasi velleità smart per ripiegare su un’architettura sociale che, manipolando lo spazio-tempo dei suoi abitanti, ne garantisce la sopravvivenza e la coesione sociale (se vi suona distopico, sappiate che in ottica confuciana la sicurezza non mai è poca cosa). Nella nuova normalità la città si ripiega ogni 12 ore come un cubo di Rubik di proporzioni metropolitane, assumendo la configurazione funzionale (Spazio 1, Spazio 2, Spazio 3…) a una delle tre classi che ne assumono temporaneamente il controllo. Così la massa stracciona e proletaria a cui è riservato il lavoro sporco e il cibo bisunto, lascia il campo alla classe riflessiva con i suoi ufficetti e quartierini gentrificati, e questa, a sua volta, all’élite vera e propria, che mentre gli altri dormono decide praticamente tutto, dal prezzo delle ostriche ai destini della città. Sì perché tra uno shift e l’altro gli ingranaggi girano, i grattacieli compaiono a rotazione e si incastrano con i marciapiedi e muri, mentre i cittadini di turno si risvegliano nei loro loculi o loft di lusso, a seconda della fortuna e dello status, mentre quelli non di turno si sottopongono volontariamente a un sonno ipnotico fino al prossimo giro. A finire negli ingranaggi è Lao Dao, la classica ultima ruota del carro, un lavoratore costretto suo malgrado a infrangere le regole del sistema e a correre il rischio per sopravvivere all’iniquità.

Con Pechino pieghevole Hao Jingfang, 36 anni, una laurea in fisica e un’altra in economia che le dà da vivere come consulente di management, nel 2016 è stata la prima scrittrice asiatica a vincere un Premio Hugo, che ora ADD Editore pubblica all’interno di un’antologia di suoi racconti sotto gli auspici dell’Istituto Confucio.

Nel racconto di Hao Jingfang, come nella Cina contemporanea, l’ingiustizia è sistemica, la ribellione – che non sfiora neppure il cervello del protagonista – futile. Come in tante storie di Philip K. Dick la normalità apparente di Lao Dao va in frantumi non appena a contatto con mondi che non era neppure previsto conoscesse nell’arco di una vita monotona e compartimentata. Ma, a differenza dei protagonisti dickiani, Lao Dao non è un uomo della classe media, è un povero spazzino che lavora in discarica e il vero choc per lui non consisterà in un qualche capovolgimento ontologico, ma nella scoperta che per i “piani alti” la sua esistenza e quella dei suoi compagni, scampata alla lama dell’automazione solo grazie alla lungimiranza di un autocrate compassionevole, è semplicemente diseconomica.

Negli altri nove racconti che compongono l’antologia, il mondo di Hao Jingfang appare freddo, irrecuperabile. Sotto a uno strato di ghiaccio la natura è per lo più un ricordo o una superstizione di un’epoca che non vale la pena di tramandare. Solo la condizione umana si definisce ora attraverso la solitudine e la perdita: perdita di memoria (con le clonazioni seriali de “L’ultimo eroe” o le terapie di autostima de “Le stanze della solitudine”), perdita della socialità (saturata dalle AI tuttofare de “Le stanze della solitudine” o rimossa assieme alle festività abolite de “Il teatro dell’universo”), perdita della vita (“Tra la vita e la morte”). Ma, prima di tutto, perdita di umanità, a cominciare dai tre racconti dove la Terra è stata colonizzata da una razza aliena interessata esclusivamente alle eccellenze umane. Rispetto a “Pechino Pieghevole”, la meccanica della distopia non copre qui l’orizzonte dell’azione, con l’impatto dei dettagli che ne deriva, piuttosto si rivela gradualmente attraverso l’esperienza e la presa di coscienza dei personaggi, mano a mano che il loro disincanto si consegna a un mondo definitivamente disumanizzato. La resistenza individuale, possibile ma futile, non esime in ogni caso dal doveroso distacco della conoscenza, che sembra la vera cifra narrativa di questa autrice sorprendente: “La vita della maggioranza delle persone va in scena con storie piene di alti e bassi ma pochi si domandano come queste storie rivelino la struttura del mondo. Pechino è una megacity la cui scala per molti definisce l’immaginazione. In questa città l’esistenza individuale è travolta dalla struttura nascosta del mondo, che ho voluto mostrare.” (da Uncanny Valley Magazine)