Nel gennaio del 1506, in una vigna sul colle Oppio a Roma, fu ritrovato il gruppo del Laocoonte, una scultura in marmo che rappresenta il sacerdote troiano e i suoi due figli mentre si dibattono disperatamente in lotta con un serpente. Tuttora gli studiosi dibattono sulla datazione e la paternità dell’opera: un originale ellenistico o una copia romana di un originale forse di II secolo a.C. (e forse in bronzo)? La scultura non era integra e mancava dei tre bracci destri. 399 anni dopo, nel 1905, un mercante e antiquario di origini ceche ma da molti anni risidente a Roma ritrovò nella bottega di uno scalpellino presso via Labicana il braccio destro mancante di Laocoonte, sino ad allora nelle ricostruzioni ipotizzato teso verso l’alto. Il mercante si chiamava Ludwig Pollak. Il vero braccio destro è piegato e avvolto dalle spire del serpente. Il braccio di un uomo già vinto.
Il romanzo di Hans von Trotha vede nel braccio di Laocoonte la chiave di lettura per comprendere l’intera vita di Ludwig Pollak (il titolo originale del libro è Pollaks Arm, “Il braccio di Pollak”). Ebreo, nato a Praga nel 1868, laureatosi a Vienna e giunto a Roma nel 1893, fu collezionista, mercante di oggetti antichi ma anche studioso e soprattutto un virtuoso nell’arte del vedere; era dotato di un occhio infallibile, di una capacità dello sguardo a scorgere dettagli e affinità e di un grande fiuto per l’autentico e il falso. Catalogò molte collezioni di antichità (tra cui quella di Sigmund Freud) in un’epoca in cui, come gli fa dire l’autore, “il mestiere dell’antiquario era tipico dell’Italia, come i limoni o l’opera lirica”; fu il primo conservatore e poi direttore onorario del Museo Baracco di sculture antiche, smantellato negli anni ’30 da Mussolini e ricostituito nel dopoguerra. Le gerarchie vaticane tentarono senza successo di salvarlo dalla deportazione tedesca, in virtù delle sue qualità di conoscitore d’arte e in particolare per il ritrovamento del braccio del Laocoonte (che Pollak donò al Vaticano dove la scultura è sempre stata conservata, eccetto un breve parentesi in Francia in età napoleonica). Il 16 ottobre 1943 fu prelevato dalla sua casa a Palazzo Odescalchi con la moglie e due figli e mandato insieme a più di mille altri ebrei romani ad Auschwitz, da dove non ritornò.
Il racconto si svolge tutto in poche ore del giorno precedente: un emissario del Vaticano, un certo professore K., va dal settantacinquenne Pollak per convincerlo a rifugiarsi subito, con la famiglia, in Vaticano. Inspiegabilmente Pollak tergiversa, perde tempo a raccontare la sua vita, pensa di essere troppo vecchio e innocuo per essere preso di mira dai tedeschi, infine rifiuta. Racconta della sua infanzia a Praga, di Vienna e di Roma, degli amici, dei grandi personaggi incontrati (Mahler, Strauss, Rodin, Freud) della crescente discriminazione subita in età fascista, dell’amore per le antichità. Come se dalla sua storia non potesse più fare ritorno al presente. O forse perché “Il serpente vince comunque. Questo ci insegna il Laocoonte. Contro i serpenti inviati dagli dei l’uomo non vince mai, non in questo mondo almeno”.
Laocoonte, insieme a Cassandra, fu l’unico troiano a comprendere il pericolo che si celava nel cavallo di legno; scagliò un giavellotto contro la pancia del cavallo dicendo (secondo Virgilio) la famosa frase “Temo i Greci anche quando portano doni” e fu per questo punito da Atena o da Poseidone che mandarono due enormi serpenti marini a ucciderlo.
Laocoonte è un’espressione di dolore indicibile come poche altre immagini dell’arte figurativa antica. Un uomo e i suoi due figli si sono rifugiati vicino all’altare; i vestiti sono scivolati a terra, nei movimenti contorti per divincolarsi dalla bestia. Non si possono salvare perché stanno subendo una vendetta divina. Li vediamo subito prima dei primi morsi del serpente, a pochi istanti dalla morte che è certa, senza scampo.
Alla scoperta rinascimentale dell’opera avrebbe assistito anche Michelangelo, avvisato del ritrovamento in corso da papa Giulio II. Proprio a Michelangelo è attribuita, probabilmente erroneamente, una proposta di ricostruzione del braccio destro di Laocoonte: in marmo, incompiuto, piegato e avvolto dalle spire del serpente. Le ricostruzioni ufficiali hanno invece sempre mostrato il braccio teso verso l’alto, a cercare la salvezza come se questa fosse ancora possibile; a chiedere aiuto, a far sentire partecipe e non del tutto impotente chi guarda. Il braccio teso verso l’alto come quello di una popstar sul palco. Il paragone non è irriverente, perché Laocoonte è diventato quasi un’icona pop, conosciuto ben al di fuori del cerchio degli amanti dell’arte antica, molti dei quali anzi lo guardano con imbarazzo perché è ormai, ha scritto Salvatore Settis, “sul versante del ‘troppo facile’, del ‘troppo noto’, del ‘popolare’”.
Oggetto di molte riprese e rivisitazioni moderne, come tutte le immagini esageratamente dolorose si presta anche a un uso caricaturale e pubblicitario. Ha un corpo bellissimo, sex appeal e una certa bidimensionalità da vetrina. Non a caso è “testimonial”, da qualche anno, della casa di moda Moncler e alcune settimane fa nell’omonima vetrina di Galleria Vittorio Emanuele II a Milano Laocoonte campeggiava, a grandezza ben maggiore del naturale, trafitto da due tubi al neon e con indosso un piumino giallo. Chissà cosa ne penserebbe Pollak: non dei neon e del piumino, ma del fatto che il braccio destro è teso verso l’alto.
Un braccio teso è consolatorio mentre un braccio piegato all’indietro appartiene a un uomo perduto e a nessuno piace immaginarsi tale; “è il braccio destro a decidere. (…) il modo in cui lui affronta il serpente, quel che ci fa e che fa il serpente con lui, è il braccio destro a determinarlo”. Certi pensieri sono più rassicuranti di altri: che i Greci abbiano davvero portato un dono; che in quell’istantanea che vediamo, proprio in quell’attimo lì, Laocoonte potesse avere ancora una possibilità su un milione di afferrare il serpente nel punto giusto e liberarsene. Come Laocoonte, il Pollak di Von Trotha ha annunciato qualcosa che forse sarebbe stato meglio non sapere, per poter continuare a pensare ciò che si desidera; foss’anche solo per qualche minuto, prima che gli dei stabiliscano come lo spettacolo deve continuare.
La citazione di Settis è tratta da: Salvatore Settis, Laocoonte, Donzelli 2006