Ammetto che, quando ho preso in mano il secondo volume di Oceano rosso, non mi sarei aspettato di divorarlo con tanta rapidità e ingordigia. Il precedente (qui la recensione), infatti, si presentava (volutamente, s’intende) come una storia imperscrutabile, claustrofobica e psichedelica come gli abissi oceanici in cui era ambientato. In questo, invece, i tanti misteri e le domande messi davanti al lettore trovano finalmente, se non proprio compimento, almeno una spiegazione, una traccia.
Se il primo volume si svolgeva nel “nostro presente” e nel “nostro passato”, quello di una umanità sottomarina reduce da una terribile catastrofe collettiva che ha cancellato la precedente civiltà, il secondo presenta invece “il passato del nostro passato”. L’autore, Han Song, racconta le vicende che hanno portato alla catastrofe e lo fa attraverso diversi flash, con personaggi e nazioni diversi (nessuno dei quali è un vero e proprio protagonista, come poteva essere Stellamarina nel primo libro), il che conferisce alla narrazione uno sguardo epico e globale, con una forte impronta ecocritica, visto che al centro c’è la crisi climatica, ma anche di critica politica in generale. E non solo perché non è forse esagerato scorgere un velato attacco al colonialismo europeo dietro i Bianchi che minacciano il mondo, ma soprattutto perché vengono messe a fuoco le conseguenze della crisi climatica: la riduzione delle risorse a disposizione porta a un inasprimento dei conflitti per la loro spartizione e a ripiegamenti nazionalistici (o tribali). Del resto, la divisione dell’umanità in terriani, acquatici, Naviganti e Bianchi in lotta fra loro non è forse una deglobalizzazione ante litteram? Tutto questo, con il corollario dell’inesorabile caduta nella barbarie, esemplificata dai giovani che, esposti alla violenza più cruda, tendono a riprodurla quasi automaticamente, riportando all’ordine del giorno il messaggio di Lu Xun, il grande scrittore di inizio Novecento che vedeva proprio nelle nuove generazioni la speranza di rompere con le ristrettezze dell’esistente (e non a caso riemerge il topos del cannibalismo, usato da Lu Xun proprio come metafora della società che divora i suoi figli).
Una forza del romanzo resta comunque il fatto che una spiegazione vera e propria non viene data: al lettore l’arduo compito di ritrovare il filo per riemergere da questa tana sottomarina del Bianconiglio (o, forse, perdervisi ancora più a fondo). Proprio questo salva la scrittura di Han Song da quel filone interpretativo che riduce (non sempre a torto) certa fantascienza cinese, in primis il Liu Cixin del Problema dei tre corpi e Wandering Earth, a espressioni dell’ideologia dominante. Han Song sfugge a questo rischio presentando senza mezzi termini un’umanità alle prese con sé stessa e non sottraendosi a mettere in luce la violenza presente anche nella propria cultura “madre”. Il che ci porta, appunto, alla parte finale del romanzo, quella sul “nostro futuro”, che si configura (no spoiler) come una visione alternativa (ucronia? Dimensione parallela?) di un passato (in anticipazione di un presente) a noi molto noto, dove di nuovo il sottotesto dominante è quello del rapporto tra diverse culture nello sforzo di evitare il disastro. Ora, Han Song non è noto per la sua critica sociale (in luogo, invece, di narrazioni audaci con chiari sfondi politici), e per questo e altri motivi non gli si può chiedere una soluzione rivoluzionaria alla crisi del capitalismo (e dell’imperialismo) contemporaneo che mette a luce con la dimensione fantascientifica di Oceano rosso; ma già una messa in discussione del nazionalismo culturale non è affatto di poco conto. Song si conferma un gigante della letteratura di fantascienza contemporanea (e, per molti versi, l’erede di Ursula Le Guin). Sapendo di ripetermi, va ribadito il plauso alle traduttrici, Chiara Cigarini e Martina Renata Prosperi, per essere riuscite a portare nella nostra lingua le sfumature e le ricchezze di un linguaggio tutt’altro che semplice.