L’ora di greco è il tempo e il luogo (un’ora di lezione, in un’aula asettica) in cui due vite molto particolari si incontrano e si specchiano, l’insegnante e una allieva, ambedue rappresentazioni di una privazione sensoriale: lui sta gradatamente perdendo la vista, situazione che sta gestendo da tutta la vita con l’unico intento di non essere un peso, e per poter sopravvivere da solo; lei è afflitta da mutismo selettivo che si scatena a seguito di eventi più o meno impattanti emotivamente. Sono vite spezzate, che continuano a essere tali malgrado quella privazione – o forse soprattutto grazie ad essa. Sono vite scisse anche materialmente: quella di lui è divisa tra Germania e Corea, fra un prima (della diagnosi) fatto di famiglia, di viaggio, di scoperta e un dopo alla ricerca di certezze; quella di lei è segnata da abbandoni e da un divorzio a causa del quale ha perso la tutela del figlio.
Costante nel vissuto dell’insegnante è lo studio delle lingue morte, latino e greco, che lo avvicinano anche a quel padre che con la fissa per Platone gli ha sempre detto che “non ci sono idee nell’oscurità, poiché deve esserci luce”, a lui che da sempre sa che la notte sarà il suo unico rifugio. Questo rapporto generazionale e con il non-detto lo accumuna alla coprotagonista; l’unica costante della quale è la ricerca spasmodica di lemmi, di significati e di simboli che corrispondano a una parola e quindi a un ente, alla ricerca di una affermazione che sia anche atto fisico, propagazione di un suono che segnali la presenza e l’occupazione di spazio.
Han Kang (nata nel 1970 in Corea del Sud, a Gwangju, la città del massacro seguito alla rivolta popolare del maggio 1980) sa giocare benissimo coi segni linguistici tanto da ricordare al lettore in più punti i legami tra significati, ma anche le costruzioni proprie di ciascuna lingua: quella coreana, col suo sviluppo verticale, quasi pittorico e quella occidentale (del Greco antico) orizzontale, fatta di simboli in sequenza. Entrambe, però, capaci di celare connessioni importanti tra i significati riprendendo più volte in maniera sempre più tagliente i grumi di riflessione.
La vista diviene centrale non più solo come senso ma come abilità e come relazione tra divino e sacro: è la stessa capacità di visione che permette la areté, il fare una cosa nel migliore dei modi con i mezzi a disposizione per conoscere la vita in tutti i suoi aspetti, forse e soprattutto attraverso la morte e la privazione della luce. Il richiamo diviene continuo tra la cultura orientale e quel pensiero occidentale che riemerge anche nelle poesie, o composizioni non in prosa, che colmano gli spazi bianchi tra un capitolo e l’altro, come Rilke scriveva nel poemetto La cieca: il cieco è colui che più di tutti riesce a vedere ciò che brilla.