Han Kang trascende la geometria illusoria del tempo, qualunque forma questa geometria approcci la visione umana, quasi mai esauriente ma mutevole o lussuosa. O velenosa se volgiamo lo sguardo agli Atti umani, così come fece la scrittrice – Premio Nobel 2024 – con il suo romanzo del 2014. Il tempo, se esiste, porta messaggi, e se non li porta ci pensa la mente di uomini e donne capaci con i loro scritti a immergersi in baratri e togliersene vincitori dopo aver scandagliato i crimini (tanti) e i momenti solenni (rari) generati dalla poesia nelle le sue diatribe con la realtà. E per fortuna ci sono risse e ribellione che schiariscono le idee. E aria non rarefatta tra i molteplici fiocchi di neve che sempre tentano in massa di coprire le pianure disseminate di cimiteri.
Questo accade nelle prima pagine di Non dico addio, ottavo romanzo della scrittrice pubblicato in Corea nel 2021. E grati siamo a traduttrice e editore di averlo tradotto direttamente dal coreano. Entriamo, con la protagonista Gyeong-ha, nel periodo segnato dalle stragi di civili tra la fine della Seconda guerra mondiale e la guerra di Corea, enormi ferite mai sanate verso cui strappando un volontario isolamento Gyeong-ha e l’amica In-seon vorrebbero portare lenimento con la costruzione di un’installazione artistica: piantare dei tronchi dipinti di nero aspettando poi la nevicata e il gelo di novembre – e filmare tutte le fasi del progetto. Passano le stagioni fra un rimando e l’altro, e nei sogni ricorrenti di Gyeong-ha appaiono migliaia di tronchi neri come tombe di cimitero trascinate da una marea che tutto travolge. La neve invade il viaggio della protagonista nel tentativo di raggiungere l’isola di Jeju dove l’amica, falegname, si è ferita gravemente.
È in questa fase che il romanzo si compie, trasmettendo a noi lettori la lentezza della neve che cade inesorabile, e al contempo la meditazione senza fine di Gyeong-ha mentre tra presagi, e spietati eventi, cerca di aiutare l’amica e gli uccellini che lasciati soli stanno morendo di fame. La leggerezza di questi animaletti dalle ossa cave si schianta nel baratro dei massacri che non smettono di imperversare nel ricordo che ora è ben più di un ricordo – e diventa la sostanza stessa della prosa di Han Kang trasferita in quella donna di cui segue l’epopea. Le ferite dilagano dalla scrittrice alla protagonista, fendono il paesaggio che fende noi dalla prima all’ultima pagina nel susseguirsi della storia, d’implacabile lentezza e corti circuiti fra storie personali e collettive. Nei decenni precedenti, a Gwangju le truppe aprirono il fuoco sui cortei di protesta, ora Han Kang prende su di sé il carico polifonico della carneficina trasformandolo nel terso scrutare il mondo percorso durante il viaggio faticoso della sua eroina, vero elter-ego che vede e continua a vedere le dissonanze della storia e della cronaca. Non c’è soluzione, l’autrice lo ha dimostrato nei suoi molti romanzi e nelle poesie, ma l’essere dolenti è una sfida contro l’orrore. I corpi lacerati, nell’ora del vero e nell’ora della testimonianza, sono appoggiati alla scrittura scabra e presente, limpida dopo le ferite.
Han Kang su Pulp Magazine