Sul suo profilo Facebook, Gwenn Rigal si definisce guida, saggista dilettante, métarobologue amatore (il riferimento è a un termine popolare, non traducibile in italiano, per definire gli studiosi, collezionisti o artigiani di puzzle meccanici) ed ex giornalista che scriveva di poker. Il suo Il tempo sacro delle caverne, una summa delle conoscenze e delle teorie sulle pitture nelle caverne del Paleolitico superiore europeo, tra gli elementi di interesse ha proprio quello di essere stato scritto non da un preistorico professionista ma da un appassionato, dal 2003 guida nella celebre grotta francese di Lascaux. In Francia il libro è uscito nel 2016 in occasione dell’inaugurazione della prima replica completa in scala 1:1 della grotta scoperta nel 1940 vicino a Montignac, nel Périgord Nero, e dal 1963 chiusa al pubblico per preservare i dipinti.
In qualche modo Rigal è continuatore ed erede di tutta una serie di amatori della preistoria che hanno operato al di fuori delle istituzioni accademiche, figure non poco frequenti nella storia dell’archeologia, in particolare preistorica, ottocentesca. A partire da Marcelino Sanz de Sautola, un marchese e un avvocato, appassionato di storia e di botanica, che nel 1879 vicino a Santandér, nella Spagna settentrionale, scoprì la grotta di Altamira e le sue meravigliose pitture, il primo complesso di arte paleolitica a diventare noto. Sautola si convinse subito che le pitture risalivano a un’età molto antica, come indicavano le ossa degli animali pleistocenici da lui ritrovate sul suolo della grotta, ma quasi tutti i rappresentanti della scienza ufficiale non gli credettero – era inverosimile, allora, pensare che gli uomini preistorici potessero essere così abili e capaci di un pensiero astratto e simbolico tale da produrre arte – e, anzi, alcuni misero in dubbio la buona fede del marchese, ipotizzando che fosse lui, in cerca di notorietà, ad aver realizzato i dipinti. Sautola morirà nel 1888 amareggiato e disilluso; l’antichità da lui ipotizzata sarà riconosciuta e accettata soltanto all’inizio del XX secolo, dopo la scoperta di numerose altre grotte simili.
Rigal conosce i rischi che corre in quanto amatore e nella prefazione mette subito le mani avanti, riconoscendosi nel “modesto ruolo di dilettante informato”. Non propone nuove teorie ma si pone il compito, ambizioso e umile nello stesso tempo, di riportare tutte le principali note e, idealmente, di rispondere alle domande delle migliaia di visitatori che ogni anno arrivano a Lascaux. Un sapere complesso, non puramente didascalico, che non si può trasmettere nell’arco breve di una visita guidata.
Il libro è sicuramente riuscito anche se, per chi conosce poco o niente l’argomento, può risultare di non facile lettura, per la quantità dei dati riportati e per il riferimento continuo ai vari periodi in cui è convenzionalmente divisa la Preistoria (Castelperroniano, Aurignaziano, Gravettiano, Solutreano, Magdaleniano) proposti per la prima volta da Gabriel de Mortillet (1821-1898) per distinguere le industrie litiche individuate nei siti francesi. Riesce però a rendere l’idea della complessità di quest’arte eccezionale, prodotta durante il Paleolitico superiore (tra i 40.000 e i 12.000 anni fa), apparentemente già nata nella sua forma completa (le pitture della grotta di Chauvet, scoperta nel 1994, sono datate a 37.000 anni fa). Nei dipinti sono rappresentati soprattutto animali (grandi erbivori: bisonti, uri, cavalli, cervidi, stambecchi, mammut; meno frequenti orsi, felini, rinoceronti), quasi sempre di profilo e accostati, talvolta sovrapposti. Compaiono diversi segni, simboli sessuali (soprattutto femminili), poche figure umane; nessun accenno al paesaggio o ad altri elementi di contesto. È evidente, però, una grande integrazione tra le figure e la morfologia delle pareti della grotta (gli elementi naturali), un’armonia cioè tra forma e decoro. L’arte paleolitica è diffusa dall’Atlantico sino agli Urali e copre un arco temporale molto ampio. Come scrive l’autore, “tra Chauvet e Lascaux è passato altrettanto tempo che tra Lascaux e noi” e quando ci si approccia a donne e uomini dai quali ci separa un’enorme distanza temporale, è meglio diffidare di termini come arte, cultura e religione, legati a sistemi di pensiero moderni e occidentali. Che l’abisso temporale sia riconosciuto in modo epidermico e spontaneo, è indicato anche dal fatto che per le cronologie della preistoria non si usa il sistema di datazione a.C./d.C., basato su un riferimento storico e culturale preciso, ma si preferisce un riferimento universale, BP (= Before Present, dove il presente è convenzionalmente fissato al 1950).
Un grave limite, che vale per tutte le conoscenze discendenti dalla ricerca archeologica ed è proporzionatamente maggiore più andiamo indietro nel tempo, è quello legato alla selezione dei reperti ritrovati. Le testimonianze materiali del passato si fanno via via più rade allontanandosi dal presente. In Europa, per quell’arco di preistoria di trentamila anni, sono conservati circa quattrocento tra grotte e ripari decorati e poche centinaia di scheletri di Homo sapiens. Conosciamo pochissimo dell’organizzazione sociale, delle credenze, dei pensieri e degli immaginari di questi gruppi umani forse composti da poche decine di individui, semi-nomadi, che popolavano un’Europa con una densità di popolazione che era da mille a diecimila volte inferiore a quella attuale.
Da sempre gli studiosi credono che le pitture nelle grotte non siano una semplice tappezzeria e cercano di associarvi una simbologia e un significato. Rigal passa in rassegna tutte le principali teorie elaborate, a partire dall’abate Henri Breuil, passando per André Leroi-Gourhan e sino a ipotesi più recenti come la zoocenosi di Francois Djindjian (le grotte come mappe simboliche di un territorio). Che si tratti di pratiche rituali, magia della caccia, sciamanismo, rappresentazione di miti scomparsi, di segni del rapporto con il mondo naturale permeato di sacro secondo le categorie antropologiche di animismo, totemismo, analogismo o naturalismo (elaborate dall’antropologo Philippe Descola), in ogni caso Rigal non ha dubbi che le grotte siano configurate come degli spazi sacri, come sembra suggerire anche la frequente presenza di oggetti (lame o strumenti in selce, pezzi d’ocra) interrati profondamente oppure infilati di proposito negli anfratti delle pareti, nei pressi delle pitture.
Gli studiosi, sulla base dell’associazione e della posizione dei vari animali, vanno alla ricerca dell’ombra di una struttura logica, degli schemi alla base delle decorazioni (schemi che secondo Leroi-Gourhan devono essere state concepiti a priori, prima di iniziare a dipingere una grotta: la sua teoria è stata perciò definita “strutturalista”). Il progredire degli studi rende evidente che non si troverà mai nulla di così probante da permettere di scegliere una teoria con assoluta certezza; a molte ipotesi si può contrapporre quella opposta, in entrambi i casi basandosi su poche manciate di resti (un esempio è il passaggio dall’idea di una società violenta e di Homo homini lupus a quella dell’uomo della preistoria come campione di solidarietà e di mutuo soccorso). Quel che sembra certo è che quello che noi pensiamo di loro non coinciderà mai esattamente con quello che loro pensavano di se stessi.
Tra i temi non trattati nel libro, o passati in rassegna rapidamente, ci sono la questione delle copie delle grotte (ormai nessuna grotta originale è visitabile, per tutelare le fragilissime pitture; quello dell’arte preistorica è forse l’unico contesto in cui accettiamo senza troppe lamentele di andare a vedere una replica facendo finta che sia l’originale) e quella relativa agli autori delle pitture. Riguardo a questi ultimi, generalmente si ritiene che si tratti di Homo sapiens, anche se pure Homo neanderthalensis conosceva forme di pensiero simbolico (nonché di spiritualità e forse di credenza di vita oltre la morte: le prime sepolture europee note sono proprio di Neanderthal, nel sito di Le Regourdou presso Lascaux, datato ad almeno 80.000 anni fa). L’autore curiosamente dà per scontato che gli ‘artisti’ siano stati uomini e non donne; lo studio delle caverne, scrive, fa pensare a “un’arte di cacciatori – dunque di maschi”: siccome gli animali sono resi con grande precisione anatomica chi li disegnò doveva averli visti da vicino; e chi, se non gli uomini? Una spiegazione un po’ flebile perché, se anche ammettiamo che la caccia fosse un’attività esclusivamente maschile, è verosimile che gli animali – quantomeno da morti – siano stati ben visti anche dalle donne, magari nel corso di tutte le attività successive alla caccia (lo scuoiamento, la preparazione delle carni, il trattamento delle pelli, ecc). Il problema è che è quello che pensiamo oggi, quello che ci sembra ragionevole pensare – ad esempio sulle divisioni di genere, di ruolo, di competenze – a invadere e a dare forma alle nostre ipotesi relative anche a mondi completamente altri, passati ed estinti, millenni Before Present.