La narrativa fantastica di lingua tedesca ha storicamente due momenti d’oro: il primo coincide con l’affermarsi della temperie preromantica e romantica e con il consolidarsi della nozione di inconscio, attraverso la filosofia idealistica di Schelling e Fichte prima, e la reazione antidealistica di Schopenhauer e von Hartmann poi, con l’epicentro, ovvio, di E.T.A. Hoffmann. Ma non trascuriamo le raccolte minori di storie di fantasmi che, conosciute magari in traduzione, tanta influenza ebbero sul gotico anglosassone del primo Ottocento, si pensi al Fantasmagoriana la cui lettura scatenò il mitico agone letterario di Villa Diodati che originerà il Frankenstein di Mary Shelley e Il vampiro di John William Polidori. Un’influenza tale da costringere perfino Edgar Allan Poe, nell’introduzione alla prima edizione ai suoi Racconti del grottesco e dell’arabesco, a specificare che “il terrore non è della Germania ma dell’anima”. Il secondo periodo invece va dal primo Novecento fino alla fine degli anni ’20 e coincide con la fortunata diffusione proprio dell’opera narrativa di Poe che viene tradotto in tedesco: il “terrore dell’anima” tornava in Germania.
Molti sono in quegli anni gli autori e le opere che, procedendo in parallelo con la sensibilità allucinata dell’Espressionismo, influenzeranno anche il cinema nascente con film – horror ante litteram – dai numerosi e fortunati remake, come Lo studente di Praga (1913), Il Golem (1915), Il gabinetto del dottor Caligari (1920), Nosferatu (1922), La Mandragora (1928), ecc. Nel 1918 usciva a Monaco di Baviera addirittura la prima rivista interamente dedicata alla narrativa fantastica, avveniristica e orrorifica, Der Orchideen Garten, anticipando i più famosi pulp statunitensi dedicati al fantastico e alla fantascienza e facendo emergere i nomi dei principali autori germanofoni che si legheranno al genere. Il germanista Alessandro Fambrini in anni recenti ha tradotto e curato per le edizioni Hypnos vari testi tra i principali di quel periodo, permettendo finalmente al lettore italiano di conoscerli: Der Orchideen Garten – Il giardino delle orchidee di autori vari (2016), Alraune, la storia di una creatura di Hanns Heinz Ewers (2017), Lemuria di Karl Hans Strobl (2020), Immaculata e altre storie macabre di Hanns Heinz Ewers (2022). Un affascinante e spaventoso complesso di storie che svelano una faccia del fantastico tedesco, decadente, morbosa, perversa, erotica, sadiana, angosciosa; ma non è la sola, ne esisteva anche un’altra, mistica, magica, esoterica: quella di Gustav Meyrink.
Gustav Meyer (1868-1932), che prenderà il nome di Meyrink solo all’inizio del Novecento, quando sarà costretto ad abbandonare l’attività di banchiere per problemi giudiziari, dedicandosi alla letteratura e al giornalismo, non è, come molti pensano, nato a Praga, ma a Vienna. Crescerà in Germania, a Monaco e ad Amburgo, e solo a 15 anni si trasferirà nel capoluogo boemo dove passa circa vent’anni. Eppure la città resta per sempre legata al suo nome per avervi ambientato tutti i suoi romanzi più famosi – Il Golem (1915), Il volto verde (1917), La notte di Valpurga (1917), Il domenicano bianco (1921), L’angelo della finestra d’ Occidente (1927). In realtà lo scrittore vive molto più a lungo altrove, a Vienna, a Montreux, a Monaco. Praga resta però il luogo geometrico della sua immaginazione e della sua ispirazione letteraria, la città magica per antonomasia, la “soglia” (questo pare significhi il nome praha) che permette l’accesso a dimensioni ulteriori dell’esperienza umana. Per Meyrink infatti la letteratura è principalmente il veicolo di trasmissione di una conoscenza esoterica, di un sapere teosofico perseguito dall’autore fin dalla prima gioventù e che ha scandito ed orientato tutta la sua vita. Per quanto filosoficamente interessante questo onnipresente stigma metaforico e metafisico, questa ossessione per l’esoterismo, rende la sua opera assai più faticosa e datata di quella dei suoi colleghi debosciati e tutt’altro che mistici come Ewers e Strobl.
Tutti finiti male, tra l’altro, divenuti fiancheggiatori e propagandisti del nazismo – chi per fanatismo (Strobl), chi per opportunismo (Ewers) – dopo l’avvento di Hitler al potere, circostanza che ha assicurato loro la damnatio memoriae, non del tutto giustificata, almeno letterariamente, dal secondo dopoguerra. Il povero Meyrink resta invece completamente estraneo a queste sgradevoli derive, intanto perché scompare nel 1932 – non proprio casualmente se è vero che lo scrittore si sia lasciato morire, forse intuendo in quale baratro l’Europa si stesse gettando – un anno prima che l’imbianchino austriaco diventasse cancelliere, poi perché tutta la sua opera dimostra una fiera avversione per ogni forma di nazionalismo, patriottismo, militarismo e, soprattutto, antisemitismo, tanto che si diffuse la voce erronea che lo stesso Meyrink fosse ebreo.
Di tutti gli scrittori fantastici tedeschi di quel periodo Meyrink è quello politicamente più immacolato. Non si capisce dunque perché l’estrema destra “culturale” italiana abbia messo gli occhi su di lui includendolo nel pantheon dei suoi autori di riferimento. Già il poligrafo razzista, icona del neofascismo italiano, l’autoproclamato “barone” Julius Evola, tradusse vari suoi romanzi, implicando che le convinzioni teosofiche e mistiche di Meyrink facessero parte di quel fumoso e arbitrario concetto da lui definito – rubando il termine a un pensatore più originale e rispettabile, René Guénon, che, almeno, non strumentalizzò mai la “spiritualità” per propagandare il razzismo – “tradizione” (scritto, da loro, sempre con la maiuscola): così fino a oggi Meyrink è stato arruolato – senza il suo consenso – fra gli autori “tradizionali”, “tradizionalisti”, “non conformisti”, o simili, e quindi automaticamente “di destra”, o lato sensu, “per neofascisti”. Questione tutta da dimostrare.
Tali discutibili esegeti andrebbero in sollucchero vedendo campeggiare nel corredo di immagini, incluso nella bella edizione di Pipistrelli appena pubblicata da Tre Editori, la copertina originale della prima edizione del volume, con una swastika in primo piano. In realtà, come ci spiega Anna M. Baiocco nella sua dettagliata introduzione, quella particolare croce uncinata è composta di quattro gambe che corrono e non ha niente a che fare con l’hitlerismo ma con i Templari e con il simbolo buddhista associato a quello del pipistrello, segno delle “diecimila cose”, la manifestazione.
La raccolta, i sette racconti originali con in più altri dodici successivi, offre una completa panoramica sulla narrativa breve dello scrittore: da solidi racconti horror fra i migliori da lui scritti – Il gioco dei grilli, Il cardinale Napello, Immagini allo specchio, Spettro – a suggestivi bozzetti praghesi, fino a meno riuscite fiabe umoristiche. Oltre a una sincera spiritualità emerge in molti dei testi il tema sociale, la solidarietà con i poveri e gli sconfitti e la riprovazione per la cieca arroganza delle élites che hanno scatenato l’immane strage della Prima guerra mondiale. Nonostante la quasi-swastika in copertina, il libro, insieme con tutti quelli dell’autore, brucerà nei roghi del “ciarpame antinazionale” voluti da Goebbels: ma Meyrink ormai è al sicuro, nessuno può più fargli del male, riposa da tre anni sotto una lapide dove si legge una sola scritta: “Vivo”.