Guillem López, Dale Bailey / La fine del sé e la fine del mondo

Guillem López, Ragni di Marte, tr. Francesca Bianchi, Eris, pp. 288, euro 15,00 stampa
Dale Bailey, La fine della fine di ogni cosa, tr. Thomas D’Aguì, Zona 42, pp. 73, euro 9,90 stampa, euro 4,99 epub

Il plot iniziale è quello del più classico dei thriller psicologici: lei e lui coppia di mezza età in crisi alle prese con i rituali per elaborare il lutto per l’unico figlio, scomparso appena un anno prima. Ovviamente non funziona per nulla.  Lei, Hanne, ex biologa sottomarina costretta al ritiro dalla fobia del mare, da anni sottoposta a cure neurologiche, anzi, sta sempre peggio. Le viene diagnosticata una malattia sconosciuta. Sempre più spesso non si riconosce nei ricordi del marito – foto, incontri, vacanze – che si suppongono condivisi nel matrimonio. In compenso scopre di averne ogni giorno di nuovi, sempre meno coerenti con la realtà su cui si apre il romanzo che, detto per inciso, è ambientato in una Spagna scalcinata e in declino che Guillem López proietta di qui a pochissimi anni. Tra questi “falsi ricordi”, ovviamente, c’è quello del figlio che nel vissuto di Hanne è ancora vivo, una figura intermittente ma affettivamente sempre vivida e irrinunciabile nella sua quotidianità, sempre più vaporosa e disfunzionale, da realtà alternativo, grazie agli psicofarmaci generosamente ingurgitati assieme all’alcool. Sua madre, Hanne anche lei, clinicamente schizofrenica e da anni ricoverata in una casa di cura, fa capolino qua e là tra un vecchio armadio e le memorie delle vacanze da adolescente anni ’90 in Costa del Sol.

A questo punto, se Guillem López fosse semplicemente un autore di genere, nel senso di thriller, i nostri sospetti sarebbero ovviamente già tutti per il marito che nel frattempo, scopriamo, la tradisce (o, forse, è solo una proiezione). Lo scrittore spagnolo, classe 1975, diversi romanzi pubblicati in patria e uno (Challanger) anche in Italia, sempre da Eris, è invece un tessitore di complesse e raffinate trame di confine, a suo agio con le atmosfere del weird e della fantascienza moderna. Così i Ragni di Marte, un dimenticabile pulp che parla di aracnidi extraterrestri che si annidano dentro ai cervelli umani per nutrirsi dei loro ricordi, si affaccia nella mente di Hanne per diventare passo dopo passo la chiave di un passato perturbante, attorno a cui ruota la spirale dei molteplici presenti che la protagonista attraversa come una sonnambula, in preda allo smarrimento e alla nota dickiana (cos’è la realtà?) di una crescente disperazione. Tra un Flashforward e un Dejavu, López non si fa mancare nulla, dallo psichiatra da talk show, piovuto direttamente dagli anni ’70 con il suo studio di cattivo gusto, ad arcani riferimenti tipo la teoria quantistica della coscienza.

Un’altra coppia in crisi, in un futuro assai più distopico e definitivo, proprio da fine del mondo, è quella che incontriamo in La fine della fine di ogni cosa di Dale Bailey. I protagonisti sono gli ultimi privilegiati sopravvissuti di una realtà che cade letteralmente a pezzi e, una villa dopo l’altra, un brandello alla volta, finisce catturata nell’entropia senza vie di scampo. L’ultimo gioco in città è infatti il suicidio artistico, che gli ultimi abitanti della terra – una comunità di affermati creativi dell’arte e della moda – mettono in scena con estremo, spettacolare e crudele gesto di vanitas.  In un’atmosfera che più ballardiana non si può – e che idealmente omaggia tanto il clima distopico di The Drowned World e dei primi romanzi quanto l’atmosfera di disfacimento antropologico di Super Cannes o High Rise – il protagonista, imbucato nel giro delle Atrocity Exhibition grazie ad amici più ricchi e famosi di lui, si abbandona a un carpe diem alimentato dalla novità dello scambismo e del glamour immancabilmente pervert. Mentre il tempo scorre e l’istinto di morte gioca sempre più scopertamente con le prospettive di Eros, c’è un tempo per vivere e uno per accettare la fine, che nel nostro caso si annuncia anche straordinariamente breve.

Dale Bailey (1968) è uno scrittore americano relativamente poco noto di dark fantasy e fantascienza speculativa, con cinque romanzi all’attivo e una lista di nomination lunga da qui alla Virginia dove è nato. Dice di se stesso: “Una delle delusioni durature della mia vita è che non ho mai avuto nessuno dei lavori interessanti che dovrebbero avere gli scrittori. Non sono mai stato un ballerino Gandy o uno scaricatore. Non ho mai guidato un’ambulanza sul Fronte Italiano. Sono appena andato a scuola per studiare letteratura e ho iniziato a scrivere storie”. Il racconto The End of the End of Everything – pubblicato ora da Zona 42 nella collana di short stories – dà anche il titolo all’antologia da cui è tratto, apparsa qualche anno fa sul tema della “fine del mondo”, che alla luce di quanto letto speriamo di vedere prima o poi tradotta per intero (e in un unico volume).