La poesia di Guido Monti assomiglia a quella dei grandi narratori in versi americani, tipo Stephen Crane, Robert Frost e, ancor di più, Mark Strand. Classe ’71, originario di San Benedetto del Tronto ma residente a Reggio Emilia, collaboratore del manifesto e di Doppiozero, Monti ha pubblicato sinora Millenario inverno (postfazione di Alberto Bertoni, Book editore, 2007), la plaquette Eri Bartali nel gioco (Grafiche Fioroni, 2008), Fa freddo nella storia (Stampa, 2014). Le liriche comprese nella sua ultima silloge, Le stanze (impreziosita dalla copertina di Tullio Pericoli), appartengono dunque al periodo 2015-2021 e, per ammissione dello stesso autore, “il tributo di questo libro va naturalmente ai miei grandi amori di vita e letterari, di loro risuonano le mie parole, quindi non solo più mie”.
Le stanze è un titolo in tutta evenienza montaliano (come non ricordare le monumentali Stanze e Nuove stanze nelle Occasioni?), che si colorisce di un duplice significato: gli ambienti in cui è possibile vivere e rammemorare momenti salienti dell’esistenza, ma persino, sotto il profilo metrico, le strofe di una canzone che racchiudono in sé un senso già compiuto. In effetti, non c’è testo delle Stanze che sia fisionomicamente monostrofico, quasi a rimarcare l’esigenza insopprimibile di uno stacco, di una pausa, di un riposo. La raccolta – divisa in due ampi tronchi, Trittico marino e Trilogia della fantasia, preceduti da un brano proemiale, Il tuo sorriso che qui gira – è costellata di presenze amiche e benevole che accompagnano il poeta nel tortuoso itinerario della realtà.
Si tratta forse di una “liturgia d’amore” – particolarmente per ciò che riguarda Nina (“Toccò a me sostenerla appena nata io di colpo padre / e al padre affidata, Nina, con quello sguardo scuro / e muto che veniva da dietro la memoria della specie / ecco l’ostetricia a dirmi nella stanzina post-parto / come rivoltarla, lavarla, tra gli scatti del corpicino / tinto sangue”) –; certo è che l’intento precipuo di Monti è quello di popolare l’effettualità lirica di un’efficace alterità “tra la magica progressione dei tempi e le solite storielle”. Oltre ai numerosi richiami del femminino, sorprende il diluvio di intertestualità, spesso concretamente nominata: Montale su tutti (con numerose citazioni, paronomasie e due poesie in dedica, Mi scuserà quel burbero di Eugenio, Paola di Montale) e anche Larkin (citato in esergo), Dante (vd. Vasel), Pessoa, Auden, Herbert, Borges, Pasolini, Keats, Gadda, Rodari, Zagajewski, Leopardi. Nonostante l’estrema concentrazione culturale, i versi di Monti mantengono levità e politura, come accade nella splendida lirica conclusiva, La nuova primavera: “Lei che entra nell’anello rosso del campo che mi saluta / e se ne va io che la seguo, la nuca saltella, le gambe, i piedi / le scarpe lucenti, tutto in lei è rintocco che da tanto attorno non tornava // ecco il ciuffo ballarle alla prima ripetuta sull’occhio / e poi sull’altro, oh sembro dentro le primavere di prima / è ora all’ultima tornata, i cento spinti con gli altri / mi guarda la boccuccia semi aperta in un sorriso / assetato, il corpo scomposto negli ultimi metri / mi fa un cenno ma che troppo non si veda. // Primavera di prima bellissima, sepolta da tanto, eccoti / in quest’attimo inatteso, negli occhi dilatati e contraddittori / di questa bimba, che sì all’ultimo metro non mi guarda più / presa dalla sua tempesta, ecco la voce le spizzica affannata / – forza!! su!! – dice forse a me di sparire per sempre? // O all’amica in apnea lì accanto, di non fermarsi proprio ora / all’ultimo secondo, di farcela, Nina spirito della via”. Ancora un cenno a Montale, alla Primavera hitleriana, dove la potenza del femminile restituiva dignità e forza all’io lirico sfibrato e all’intera umanità attanagliata dal dolore. Si inserisce in questo solco Monti con un libro levigato e sonante, solenne e generoso.