Guido Crainz / Storia ad usum populi e sfide sovraniste: il futuro di un’Europa unita

Come immaginarne il futuro alla luce della pandemia che ci ha investiti, dell’invasione dell’Ucraina che ci costringe a interrogarci sulla sua ragion d’essere e sul suo ruolo? Come siamo giunti a questa duplice prova? Con quali contraddizioni, con quali elementi di crisi? In questo ampio scenario, quali sono le responsabilità e i compiti della cultura? Intervista a Guido Crainz

L’ultimo lavoro dello storico Guido Crainz (Ombre d’Europa. Nazionalismi, memorie, usi politici della storia, Donzelli Editore, euro 19,00 stampa, euro 8,99 epub) nasce da un’amara e preoccupante constatazione: i differenti vissuti dei vari Paesi europei alimentano talora “memorie incompatibili”, o comunque “aree di reciproca estraneità e insensibilità”. Nei rapporti tra gli stati dell’occidente e dell’oriente dell’Europa che si vorrebbe unita sembra quasi sia ancora in piedi una sorta di Cortina di ferro pur senza il comunismo, ancora pesi “l’ombra del Muro”. È insomma forte “l’impressione che le dissonanze e le divaricazioni siano cresciute talora più delle sintonie”, ed urge dunque invertire la tendenza, poiché anche da questo dipende il futuro dell’Europa.

Da tali premesse, l’autore pone alcune cogenti domande che si stagliano al centro del dibattito pubblico sul concetto di Europa unita e sulla sua effettiva realizzazione: come immaginarne il futuro alla luce della pandemia che ci ha investiti, dell’invasione dell’Ucraina che ci costringe a interrogarci sulla sua ragion d’essere e sul suo ruolo? Come siamo giunti a questa duplice prova? Con quali contraddizioni, con quali elementi di crisi? In questo ampio scenario, quali sono le responsabilità e i compiti della cultura?

Il volume, la cui agile consultazione non ne pregiudica la profondità di analisi, si compone di un’introduzione e due parti. Nella prima si esaminano le difficoltà cui è andato incontro un progetto complesso come quello di unità europea, soffermandosi sul percorso precedente al 1989, poiché già prima erano avvertibili sotterranee tensioni e incrinature, “ipoteche” mai risolte, nodi poi venuti al pettine con la difficile transizione dei paesi ex comunisti, sino alle questioni politiche spesso eluse del “grande allargamento” del 2004. Con l’ausilio delle riflessioni di storici e commentatori di livello, l’autore si interroga sul passaggio “dalla euforia al disincanto, se non al rancore” che progressivamente affiora in molte parti dell’“Europa ritrovata” dopo la caduta del Muro, tenendo in debita considerazione processi quali la deindustrializzazione e le trasformazioni produttive che hanno radicalmente mutato gli scenari geopolitici, il superamento della grande fase espansiva del secondo dopoguerra simbolicamente terminata con la crisi petrolifera del 1973, il progressivo smantellamento del sistema di welfare, gli effetti traumatici dell’ondata neoliberista degli anni Ottanta, il declino dei partiti di massa novecenteschi, l’affermarsi della “democrazia del pubblico” (Bernard Manin), con la trasformazione dei cittadini in una platea di telespettatori e di agiti dai social.

Tra le problematiche affrontate, vi sono le conseguenze del Trattato di Maastricht, con l’introduzione dell’euro e la priorità data alla dimensione economica che pose l’unificazione monetaria non come conclusione, bensì come premessa all’integrazione politica. Ed anche, la modifica che introdusse al sistema di governo, col depauperamento del ruolo della Commissione europea (composta da personalità nominate dagli Stati ma indipendenti da essi) ed il potenziamento di quello del Consiglio europeo (composto dai capi di Stato o di governo), cambiamento che spostò l’accento “da un organismo sovranazionale, per sua natura portato a privilegiare l’interesse europeo, al coordinamento governativo, luogo di mediazione fra i differenti interessi nazionali”.

In un simile contesto, Crainz sottolinea un ulteriore nodo spesso rimosso dal dibattito pubblico, l’evidenza storica che alcuni Paesi del blocco ex comunista non hanno mai sperimentato una democrazia liberale. Inglobare stati membri “privi di una sedimentata cultura dei diritti” si è rivelato prematuro, anche perché sono state sottovalutate alcune dinamiche, come la forza delle pulsioni nazionalistiche presenti in quei Paesi, gli effetti devastanti che avrebbe prodotto un troppo rapido passaggio da economie centralizzate ad un neoliberismo selvaggio, i fenomeni di corruzione e l’impreparazione delle classi politiche che hanno gestito la transizione, e, non da ultimo, il nodo mai risolto della “memoria divisa” d’Europa. L’autore lamenta inoltre l’assenza di una riflessione sulle prospettive e sulle incognite di un tale allargamento, “sulle misure necessarie a sanare distanze economiche e istituzionali, e a far dialogare differenti eredità storiche e visioni culturali”.

Nella parte seconda del volume si entra nello specifico delle difficoltà di dialogo esistenti tra i vari Paesi, con i conflitti di memorie, le deformazioni di eventi e significati del passato, le costruzioni e ricostruzioni di imperi: la Russia di Putin, la dissolta Jugoslavia (dove nelle varie nazionalità che dalle sue ceneri sono sorte la storia è impiegata come arma di guerra), i Paesi baltici con la loro nozione dei “due genocidi”, la Polonia con i suoi sovranismi e le “politiche della storia”, l’Ungheria di Orbán, la Slovacchia, la Romania, la Macedonia del nord: Crainz traccia analogie e differenze delle varie realtà nazionali e culturali, s’interroga sui tratti specifici dei sovranismi illiberali e antieuropei dilagati nell’Europa centro-orientale, considerati nella loro specificità ma anche inseriti nel più ampio irrompere di correnti nazionalistiche e populistiche, e termina il suo studio con un fondamentale capitolo dal titolo “Insegnare in Europa”, dove si affronta il problema scottante degli usi pubblici della storia nella manualistica storiografica.

Insomma, la posta in gioco è non poco alta, e non tutti gli “attori” sembrano esserne edotti. La sfida che ci attende è saper “rilanciare con forza iniziative pluralistiche volte a far dialogare le differenti sensibilità e memorie”, riconoscere “la necessità di definire identità e memoria storica collettiva dell’Europa come elemento centrale di una politica comune”, dare centralità ad una rete culturale e civile transnazionale in grado di generare incontro ed inclusione: in una parola, produrre mobilitazioni intellettuali e civili. In un tale contesto, conclude Crainz, è ineludibile l’importanza di preparare le nuove generazioni costruendo una diversa educazione e “una nuova visione della storia”.

Questo “piccolo libro”, che intende essere “un sommesso grido di allarme e un richiamo a un impegno talora disertato”, assume dunque una grande rilevanza in un dibattito sempre in divenire, poiché è proprio sul terreno della cultura che si dovrà costruire un futuro comune all’Europa, e non il ben noto, tragico scenario di contrapposizioni, divisioni, guerre d’aggressione.


Il professor Guido Crainz ha gentilmente risposto ad alcune domande relative a Ombre d’Europa in cui si interroga sul futuro dell’Europa unita.

Dal suo studio emerge che il convitato di pietra nel dibattito sull’Europa unita, sulla sua concreta realizzazione, sia proprio la politica. Se così, qual è la causa prima di questa assurda assenza?

Il libro indica certamente le responsabilità della politica ma richiama fortemente l’attenzione anche sulle responsabilità della cultura. Sulla troppo debole presenza, in altri termini, di quell’ “opinione pubblica europea” invocata spesso da Habermas e da altri. Lo abbiamo visto anche di fronte alla pandemia: dopo alcuni mesi di incertezza la politica alla fine ha fatto il suo dovere approvando il Recovery Fund, e senza quella scelta decisiva oggi parleremo di un’altra Europa (c’è da chiedersi, forse, se parleremmo ancora di Europa). Eppure in quei mesi, ove si eccettuino importanti appelli di intellettuali tedeschi, non si sono visti massicci pronunciamenti della cultura e della società civile che andassero nel senso della solidarietà. Mi sembra un elemento su cui riflettere.

C’è del vero nella percezione comune che le politiche economiche e sociali europee siano portatrici di una globalizzazione sregolata, che ha eroso welfare e sicurezze sociali, elemento sfruttato a fini propagandistici dai leader sovranisti?

Non sono state certo le politiche europee a provocare una “globalizzazione sregolata”, c’è però da chiedersi se si siano misurate adeguatamente con essa. Se si siano misurate adeguatamente, ad esempio, con il “mutamento d’epoca” segnato dalla fine dei “trenta anni gloriosi” del dopoguerra, quella straordinaria fase di sviluppo dell’Occidente che è messa in crisi già dalla crisi petrolifera degli anni Settanta. Vi è poi un problema specifico che riguarda i paesi ex comunisti, segnalato in modo concorde da numerosi osservatori: nel crollo del comunismo la democrazia liberale da costruire fu considerata strettamente intrecciata al liberismo economico, oltretutto in anni in cui soffiava forte il vento del neoliberismo. Di qui privatizzazioni “selvagge”, con forte crescita della disoccupazione, e al tempo stesso l’erosione di quel sistema di welfare, sia pur distorto, che aveva comunque caratterizzato i regimi comunisti (trova alimento anche qui la propaganda delle forze antieuropee). L’esatto contrario, in altri termini, di quel che era avvenuto nell’Europa occidentale del dopoguerra, ove la ricostruzione o il consolidamento della democrazia si sono strettamente intrecciati invece all’affermarsi del welfare state.

Il coinvolgimento emotivo e familiare di uno storico in un passato drammatico, come ad esempio nel caso di diversi studiosi estoni che hanno vissuto la realtà dei gulag, pone problemi in merito all’attendibilità scientifica dei loro lavori?

 Credo che dovremmo tener presente molti aspetti, legati alla realtà dei regimi comunisti: dall’impossibilità (o dai forti limiti) di una ricerca storica e di una discussione libera all’interno di quei paesi, al peso che viene ad assumere, nel crollo del comunismo, la storiografia della diaspora, cresciuta cioè nei paesi dell’esilio e spesso portata ad assumere toni nazionalistici. È nella diaspora baltica, ad esempio, che si afferma l’idea di “due genocidi”, nazista e comunista (e l’accento tende spesso a spostarsi maggiormente sul secondo). Con importantissime eccezioni, naturalmente: penso ad una rivista dell’emigrazione polacca come “Kultura”, straordinariamente lungimirante, e ad altro ancora.

Nei Paesi dell’Est europeo molti politici emersi negli anni Novanta erano studiosi di storia coinvolti direttamente in una riscrittura nazionalistica del passato. Che considerazioni si possono fare su questa particolarità?

C’è un aspetto segnalato con grande forza all’indomani del 1989 dal polacco Bronislaw Geremek, storico di primissima grandezza e una delle voci più importanti di Solidarnosc: di fronte a una dominazione sovietica che si ammantava di internazionalismo il richiamo alla nazione era un elemento importante ma può trasformarsi anche in altro. Lo si era già visto nella crisi che inizia ad investire la Jugoslavia dopo la morte di Tito: è uno storico il presidente croato Tudjman, portatore di una visione nazionalistica, e si deve probabilmente a lui anche il Preambolo della Costituzione croata. E nel giugno del 1989 il presidente serbo Milosevic lancia esplicitamente l’offensiva nazionalistica in una enorme manifestazione di massa alla Piana dei Merli, in Kosovo: quella manifestazione è la celebrazione storica di una battaglia di seicento anni prima ed è l’occasione per chiamare i serbi alla “riscossa nazionale”. Nell’Europa occidentale del dopoguerra, invece, la costruzione dell’Europa era stata la risposta alle tragedie provocate dai nazionalismi, all’insegna del “mai più guerre fra noi”.

Alla radice dei nazionalismi e dei sovranismi che caratterizzano le politiche di più d’un Paese dell’Europa orientale c’è l’incapacità di fare i conti con il proprio passato, con le proprie responsabilità storiche e civili, ineludibile percorso per superare tensioni e lacerazioni, configurare un’equilibrata identità nazionale. È un problema che continuiamo ad avere anche noi italiani, con le vicende del fascismo e della Resistenza?

Mi sembrano due cose molto diverse. Nel considerare i paesi ex comunisti, ad esempio, non dobbiamo sottovalutare almeno due aspetti: da un lato essi non avevano conosciuto una vera democrazia neanche prima del comunismo, ove si eccettui la Cecoslovacchia fra le due guerre. E dall’altro, in alcuni di questi Paesi lo stato nazionale è relativamente recente, o era scomparso per lunghi periodi, come in Polonia. Di qui il ripresentarsi talora di toni nazionalistici scomparsi o declinanti da tempo in Occidente.

Nell’ultimo capitolo del libro lei affronta la problematica dei manuali storici nei Paesi dell’Est europeo, dove la storia è insegnata in modo “nazionalistico”. Qual è la situazione in Italia? Anche qui la manualistica che ha visto la luce nell’ultimo torno di tempo risente in maniera preoccupante degli usi pubblici della storia?

Da noi la situazione non è certo questa: anzi, in passato, vi era stata semmai un’offensiva della destra contro i manuali di storia, considerati troppo di sinistra. Ne era stato alfiere Storace, quando era Presidente della Regione Lazio, ma non è andato molto lontano. Direi che da noi pesano negativamente soprattutto due aspetti. Vi è in primo luogo una conoscenza inadeguata dei Paesi dell’Europa centro-orientale: “avete vissuto per trent’anni con le spalle al Muro di Berlino” ci diceva negli anni Ottanta l’ungherese György Konrad, ed aveva ragione. Dall’altro lato, in questa prospettiva appare ancor più grave lo scarso spazio che hanno di fatto gli anni più recenti nell’insegnamento reale della storia (al di là di quello che i programmi e i manuali prevedono). Non si tratta di aggiungere qualche centinaio di pagine a manuali già fin troppo “poderosi” ma di ripensarli radicalmente.

Quali sono a suo avviso gli strumenti più idonei a stimolare negli studenti un approccio pluralistico e comparativo allo studio della storia, una riflessione sul ruolo delle differenti memorie tra i popoli?

Mi ha molto colpito il manuale tedesco-polacco realizzato di recente, dopo un lungo lavoro, da una commissione di storici dei due paesi: una sintesi storica agile, con tutti i necessari rimandi per gli approfondimenti (anche on line); ampio spazio a documenti, anche iconografici; l’esposizione dei differenti punti di vista e domande rivolte direttamente agli studenti, capitolo per capitolo. Un modello che meriterebbe una maggiore attenzione.