Quando ero bambino nei primi ’70, ricordo che una canzone (mi comprai anche il 45 giri) aveva scalato i primissimi posti della – come la si chiamava allora – Hit Parade. Un ritmo tribale e ossessivo di tom tom, gran cassa e ride alla batteria, un paio di accordi basici di chitarra, e quattro versi di testo ripetuti continuamente per tutto il brano: “I’m a neanderthal man / You’re a neanderthal girl / Let’s make neanderthal love / In this neanderthal world”. Il gruppo che lo lanciò – ma le cover furono infinite – si chiamava Hotlegs (in seguito divennero i 10cc) e il pezzo ovviamente Neanderthal Man. Nessuno all’epoca ebbe mai il sospetto di aver intonato in quelle scarne e primitivistiche battute un inno che celebrava le radici dell’Europa.
E proprio quelle radici europee, Guido Barbujani – professore di Genetica all’Università di Ferrara, nonché romanziere e saggista – va a sbarbicare in questo libro, pubblicato per la prima volta nel 2008 e da poco ristampato in una nuova edizione, aggiornata ai più recenti dati scientifici e per tre quarti riscritta. Per cercare i veri europei, dice in sostanza Barbujani – quelli senza se e senza ma – siamo in ritardo di circa trentottomila anni, quando si sono estinti: i veri europei infatti erano loro, i neandertal. Già 300.000 anni fa abitavano il continente, adattandosi alle glaciazioni e ai periodi interglaciali, cacciavano e raccoglievano, mangiavano prevalentemente carne (con pochi e non accertati casi di cannibalismo), praticavano – con qualche margine di dubbio – il culto dei morti e forme di espressione artistica ed estetica, e avevano sicuramente una forte solidarietà di gruppo che permetteva anche ai più deboli di sopravvivere (lo dimostra il ritrovamento di scheletri con gravissime fratture riconsolidate: qualcuno deve aver nutrito e protetto individui dalla mobilità seriamente compromessa). Molto più tardi, solo quarantacinquemila anni fa, arrivarono i primi extracomunitari dall’Africa, e le due comunità convissero (e forse in qualche caso si incrociarono) per più di seimila anni. Trovare tracce di quegli africani – sempre senza se e senza ma – risulta invece molto più facile, è sufficiente guardarsi allo specchio: gli africani siamo noi, i sapiens.
Con buona pace del White Power, la nostra pelle è diventata bianca solo nel Neolitico, fra gli 8.000 e i 6.000 anni fa, quando la fusione con gli agricoltori provenienti dall’Anatolia ci ha portato – oltre alle tecniche agrarie, all’addomesticamento e all’allevamento di animali, alla pastorizia e al passaggio dal nomadismo alla stanzializzazione – anche i geni SLC24A5 e SLC45A2 (le varianti della pelle chiara) e la mutazione del gene LCT che avrebbe permesso anche agli adulti la tolleranza al lattosio, massimizzando così la sintesi di vitamina D presente nel latte.
Come sempre Barbujani usa le cognizioni scientifiche – non solo quelle della genetica, nel cui campo è un luminare riconosciuto internazionalmente, ma anche quelle della paleontologia, della storia, dell’antropologia e dell’archeologia – anche in senso politico, per disintossicare la nostra mente assuefatta da miti nefasti troppo duri a morire. Insieme a un altro fra i suoi libri più belli e utili, L’invenzione delle razze: capire la biodiversità umana – anche questo ripubblicato recentemente da Bompiani in un’edizione radicalmente riscritta e aggiornata rispetto a quella del 2006 – Europei senza se e senza ma dovrebbe circolare ampiamente in tutte le scuole, essere letto da studenti e ragazzi di tutte le età (Barbujani ha oltretutto il dono di una scrittura piacevole e chiara, capace di rendere comprensibili anche concetti tecnici complessi, spesso con profondo senso dell’ironia) e diventare un antidoto alla cloaca di ignoranza su cui prosperano, e sempre hanno prosperato, partiti e movimenti xenofobi e razzisti. L’evoluzionismo darwiniano contro l’integralismo e il fondamentalismo religioso, lo studio del DNA e del genoma umano contro il Blut und Boden – il sangue e suolo – neofascista e leghista. Che la società possa cambiare in meglio dipende solo da noi e dall’educazione che sapremo dare ai nostri figli: libri come questo, rigorosamente impiantati su fatti e concrete argomentazioni scientifiche, ci guidano nella giusta direzione. Nostro compito è saperli diffondere.
A demolire ogni ciancia dei mestatori che infestano il nostro desolato orizzonte mediatico ad esempio, ecco le riflessioni di Barbujani sul concetto di identità: “In italiano è uguale al singolare e al plurale, e da lì nascono equivoci. Infatti potrebbe venire in mente, e a quanto pare molti ci cascano, che l’identità sia una cosa sola, e addirittura si radichi in un preciso luogo geografico, che è poi quello di nascita, che è poi quello dove da sempre sarebbero vissuti gli antenati […] Un equivoco, si diceva, perché, come abbiamo visto, non vivevano certo tutti nello stesso posto i nostri 32 quadrisavoli, e men che meno il milione di nostri antenati di 600 anni fa […] È perciò evidente che ciascuno di identità ne ha tante, e costringere dentro ad un’unica definizione una persona, e peggio ancora un gruppo di persone, è operazione insensata. […] Non c’è nessuna radice unitaria europea, un’unica identità, una continuità, demografica, culturale o religiosa a cui riallacciarsi. C’è invece un intreccio di radici e identità, e forse è questa la caratteristica che può dirsi più europea: la pluralità di lingue, popoli, tradizioni e culture”, e più avanti: “In Italia questa ideologia, fasulla ma confortante, viene veicolata in dosi massicce da un sistema televisivo nel quale la nostalgia di un passato dolciastro e mai esistito è merce corrente e quotidiana. […] l’Italia dei poveri ma belli, in cui però la novità è che i belli siamo noi, i poveri sono gli altri e se ci disturbano si cambia canale. […] Gli studi archeologici, linguistici e genetici lasciano aperte moltissime questioni, ma provano in maniera definitiva che l’equazione fra un popolo tenuto insieme da relazioni di parentela, un territorio, una lingua e un insieme di tradizioni non ha basi scientificamente difendibili”.
Scienza e cultura, meglio non dimenticarlo, non sono neutre, scienza e cultura – anche le solide argomentazioni di Barbujani lo confermano – sono politiche.