Sono come squarci di esistenze apparentemente ordinarie quelle raccontate dall’autrice messicana Guadalupe Nettel nella sua nuova raccolta di racconti La vita altrove. Si sente forte l’influenza della mano – e della vita – di Nettel camminando per questi otto racconti: il Messico, la vita a Barcellona, la passione per la letteratura e per l’insegnamento. Con maestria l’autrice ci fa segno di seguirla tra storie dove l’elemento naturale si mette in relazione con l’elemento umano, trasformandoci in specchi dove si riflette la luce della natura più pura. Ricerca, evasione, famiglia, radici: elementi in comune di questi racconti che, inseguendo i vari protagonisti, divergono tra loro fino a farci vedere le sfumature possibili dell’animo umano.
La ricerca è il primo tema che ci accoglie tra le pagine del libro. Alcuni personaggi trovano quello che non stavano cercando; altri sono alla perenne ricerca di qualcosa che non hanno mai avuto. In L’imprinting Antonia si imbatte casualmente nello zio rinnegato dalla famiglia, che non vede da moltissimi anni ma con cui sente subito una familiarità silenziosa e avvolgente. Se Antonia potesse parlare con l’uomo protagonista della seconda storia, La confraternita degli orfani, gli direbbe di smettere di cercare quell’impronta nella memoria che lascia la nostra infanzia e che lui non riesce ad acciuffare. Se c’è qualcuno, anzi, che gli è stato vicino fino ad avvolgerlo in un calore che gli diventerà fin troppo familiare, sono proprio gli altri orfani come lui e che ha imparato a riconoscere dallo stesso dolore nei modi di fare. E travisano, forse, ciò che vedono, sperando di sentire quell’affetto materno a cui assistono solo dall’esterno, ma che cercano in ogni cosa che vedono.
Altrettanto forte è il tema dell’evasione – evasione dalla vita ordinaria, dalla vita scelta da qualcun altro per noi, da quella che ci è stata imposta dal caso. In Giocare col fuoco e Il torpore, le due donne che portano avanti la narrazione (entrambe insegnanti di letteratura con una famiglia sulle spalle) si trovano entrambe in un periodo di confinamento forzato dovuto a un virus. Possiamo facilmente comprendere il loro desiderio di scappare, che si concretizza in modo diverso ma dagli esiti ugualmente catastrofici. Nel primo caso, Gabriela e la sua famiglia evadono dalla reclusione nel loro appartamento organizzando una vacanza all’aria aperta, pedalando tra paesaggi naturali. In Il Torpore, l’evasione a cui tutti – nel mondo post-pandemico in cui vivono – ambiscono è il sonno; ma più passano il loro tempo in sogni d’altri tempi, più vorrebbero dormire, dimenticandosi della realtà. Quest’evasione onirica arriva al punto in cui sognare è l’unica cosa degna di nota nella vita confinata, tanto che la protagonista, quando se ne rende pienamente conto, capisce che scappare nella natura è l’unica soluzione. Gabriela, d’altro canto, nella natura ci va – una natura regnata da spiriti, quasi soprannaturale – ma essa finisce per essere maligna; non in sé stessa, ma quando messa in relazione con gli esseri umani e la malvagità di cui sono capaci.
In altri due racconti, La porta rosa e La vita altrove, l’evasione si intreccia all’elemento della famiglia. Seguendo la voglia di ribellione nei confronti della moglie, il sessantenne protagonista de La porta rosa si trova a mangiare delle caramelle e a vedersi catapultato in una versione della sua vita “migliore”, ma solo in apparenza. Continuando a non sentirsi soddisfatto, continua a cambiare la realtà delle cose finché non si rende conto che la moglie è l’unica costante di tutti questi cambiamenti e di quanto il nucleo della sua realtà sia il suo amore per lei. L’amore – in La vita altrove – ci porta, invece, incontro all’evasione di quest’uomo che non si sente a casa tra le mura della nuova abitazione, a Barcellona, ma sogna a occhi aperti una realtà diversa. Anche in questo caso, la sua vita non lo soddisfa pienamente – ed è così che si intrufola nella famiglia che abita dove lui avrebbe voluto, diventandone come un arto artificiale e perdendosi in una fantasia famigliare che non gli appartiene.
Il tema della famiglia ci conduce direttamente al tema delle radici – radici in senso letterale, ma anche legate al senso della famiglia, delle nostre origini, di dove scegliamo di andare, di cosa ci trattiene in un luogo. In Un bosco sotto la terra c’è un albero nella tenuta di famiglia, l’araucaria, le cui radici sono anche le radici della famiglia stessa. Man mano che la famiglia si allontana, man mano che il legame famigliare si allenta – anche le radici dell’araucaria si indeboliscono, fino a far perire da dentro quest’albero antico. Le nostre radici ci seguono ovunque andiamo – alla fine è questo che comprende la narratrice della storia. Ciò che ci lega a un luogo, tuttavia, può essere altrettanto forte? Possiamo tornare dove siamo fuggiti e ritrovare il luogo dove reinserire le nostre radici, come se niente fosse? Questo è quello che ci chiediamo leggendo Albatri vaganti, dove Camilo e la narratrice di questa storia si incontrando inseguendo strade opposte. Camilo arriva in Messico in esilio, cercando per tutta la vita di tornare indietro, e la narratrice tenta di radicarsi nuovamente in Messico dopo aver vagato, come un albatro, per il mondo. Ma forse non dobbiamo scegliere dove mettere radici, poiché le nostre radici le portiamo dentro.
Tutti i racconti di Nettel dialogano fra loro superando le distanze e gli spazi bianchi. I personaggi sembrano andare a braccetto in un dialogo continuo e complementare, dove ogni storia potrebbe rispondere alle domande di un’altra. Con una scrittura diretta e introspettiva, l’autrice messicana intesse una tela di storie che, in fondo, sono anche quelle delle nostre stesse esistenze.