J. Rodolfo Wilcock, Il libro dei mostri, Adelphi, pp. 143, euro 16,00 stampa, euro 8,99 ebook
Wilcock amava scrivere sulla prepotenza del potere letterario. Inviato feroce, non risparmiava, su giornali e riviste, dardi incendiari ai frequentatori dei salotti editoriali. Tutti sudditi d’influente abilità nel maneggiare patteggiamenti e certificati. La capitale dei mostri cresce sempre nelle stanze redazionali di palazzi impressionanti. Architetture distribuite in avenues famosissime di metropoli modaiole. Se ai suoi tempi erano territori molto occidentali, da ultimo questi si sono estesi a Emirati arabi, Cina e India. Nidi di patogeni tossici. Non a caso i virus (informatici) indiani fanno parte dell’immaginario fantascientifico dei moderni scrittori.
Il simpatico Edoardo Camurri scriveva, a proposito del Rodolfo, che “ogni tanto occorrerebbe (senza esagerare) essere più prudenti”. Poiché proporre all’imbecillità uno scrittore è sempre un parlare di sé: “ogni accusa è autobiografica”. Ecco un dardo che poco ha da invidiare all’autore di Buenos Aires. I cui pensieri, arbasinamente (copyright ignoto) “selvaggi”, ci hanno fatto godere per un bel po’ di anni quando eravamo giovani. L’esibizione degli autori (di ogni tipo e genere) tende al peggio, sempre più mancano strenne amene e scorci panoramici alla non affollatissima genìa di quelli che fanno shopping di serietà: a Wilcock tale suburra stuzzicava il palato e gli occhi immaginativi.
I mostri gli erano intorno (e intorno a noi), e lui non poteva che trarne gasiforme moralità, e stupenda voracità fisiologica. Ecco spiegato il Libro dei mostri, prima uscita 1978, ora tornato alla luce nel formato “panavision” di Adelphi. Ilare figurarsi le avventure libresche del nostro autore, nell’economia mondiale tratteggiata poc’anzi. Ha il sapore delle rivoluzioni leccate di striscio, in empito di serietà, per poi scostarsene fra risate e disgusto. La ricognizione pretende questi sacrifici, in compagnia dei leggeri conati che suscitano i personaggi narrati da Wilcock, nella confraternita della quotidiana follia: esilarante, senza dubbio.
Il grottesco è una brutta bestia, arduo restarne immunizzati, è una costante fisiologica godere e soffrire di pancia incontrando le molteplici forme di casalinga mostruosità. La sudditanza degli organi biologici alla mineralità del mondo, con fuoriuscita di olezzi maleodoranti e disgustosi tranci corporali, è l’arredo specialistico insito nel libro, quello che ancora conquista e, per così dire, ci lega mani e piedi al tavolo del convivio. L’ammasso materico ha il sapore rancido della malinconia, ma tant’è come allontanarsi da ciò che di più intimo e primitivo dimora nell’umanità? I mostri sono i vicini di casa, i mostri siamo noi in quanto vicini di casa di qualcun altro. Non c’è limite al serraglio. Né all’erudizione d’enciclopedica ferocia messa in campo dal ritrattista Wilcock nel suo ultimo libro, già poeta di canzonieri d’amore e dunque vedutista di orrori ed errori umani.
La mostritudine inizia già col nome dei personaggi, la cui improbabile vita attesta, se mai ve ne fosse bisogno, la necessità di un pianeta assurto al ruolo di zoo cosmico. Si potrebbe dire che luogo di maggior caos sembra impossibile possa esistere altrove. E i corpi, in questo serraglio a cinque stelle, s’alimentano di una calma quasi paradisiaca, come sotto l’effetto di farmaci psicotropi. Togliere l’angustia da quei cervelli (se mai vi fosse un cervello nel guazzabuglio organico e disorganico) è certamente azione giudiziosa e meritevole. Wilcock dispone sguardo e attenzione sorridenti, tutta la sua simpatia rivolta agli abitanti radunati e descritti nel Libro dei mostri. Lungi da lui, ormai cimeli, le creature orrifiche insediate nei tristissimi regni letterari.