Ho fatto l’esame di macroeconomia nel 1982
Il neoliberismo era come l’universo: in espansione
L’assistente mi chiese di Blade Runner.
Le risposi che Roberto Silvestri sul Manifesto aveva ragione e che, androidi o no, solo John Carpenter avrebbe saputo girare il film nel modo giusto.
L’assistente non ritenne di fare altre domande. [1]
Negli ultimi 40 anni ho cambiato diverse volte idea su Do Androids dreams of electric sheeps?, il libro, e Blade Runner, il film, più o meno quante le traduzioni e le riedizioni in italiano apparse nel frattempo [2] di Do androids…, il libro, o le versioni[3] di Blade Runner, il film, per tv, dvd, blue ray, etc. Ma al tempo.
Appena uscito dalla sala Blade Runner risultò al mio insindacabile giudizio di ventenne un’inutile e patinata fantasia autoriale, lontana anni luce sia dal cinema che amavo – Carpenter, Hill, Cronenberg .. – sia dal mondo dickiano che conoscevo, principalmente attraverso le pessime traduzioni di Urania. Il romanzo lo lessi qualche anno dopo e qui gli androidi mi sembrarono cattivi come lavatrici assassine (nella traduzione della Nord saltavano anche fuori circuiti elettrici quando venivano colpiti)[4] ma per il resto – devastazione post atomica, alterazioni psichiche, falsi profeti, trance televisive, migrazioni forzate su Marte, ebeti con visioni da illuminati – mi sembró tutto sommato l’ennesima riproposizione del pacchetto base dickiano. Su una cosa però avevo ragione: Do androids..., il libro, e Blade Runner, il film, sono due cose completamente diverse, con meno punti di contatto di, per dire, The Truman Show con qualsiasi romanzo dickiano. Con il tempo ho capito anche che il concetto di film-tratto-dal-romanzo è un arma a doppio taglio, che funziona si e no a proposito di John Grisham. Figuriamoci con Philip K.Dick.
Fosse vissuto in un posto e in un’epoca meno ottimistici dalla California degli anni ‘60, Philip K. Dick secondo me sarebbe diventato un filosofo pessimista ma anche così continua a sembrarmi uno speculativo che scrive storie più che uno scrittore di letteratura speculativa. I suoi romanzi sembrano un laboratorio di esperimenti filosofici che uno scienziato pazzo si diverte a incastrare in trame impossibili e a travestirli da banali pulp fiction. In Do androids… il pessimismo è del tipo cosmico: ogni cosa corre all’impazzata verso l’entropia e prima o poi si dissolve nel kipple, un neologismo che Dick inventa per indicare il disfacimento accelerato della materia prodotto dal tempo, e destinato a confondersi con la polvere nucleare del dopo bomba. Scrivendo di fantascienza Dick gode di una libertà pressoché illimitata che nessuna pubblicazione accademica avrebbe potuto assicurargli. A metà di Do androids…, ad esempio, il cacciatore di androidi Deckard scopre che, sorprendentemente, nel cuore di San Francisco opera da sempre un’intera centrale di polizia formata da poliziotti androidi che agisce segretamente, all’insaputa degli umani. Sembra un colpo di scena e per un’attimo la scoperta manda effettivamente in corto le certezze accumulate fino a quel momento dal lettore attraverso il protagonista. Invece, qualche pagina dopo, “ritirato” l’androide sulla lista dei ricercati, l’esperimento finisce lì e l’episodio diventa solo un vago ricordo. Per Dick contano le intersezioni tra i personaggi, fin tanto che possono illuminare un esercizio del pensiero o una nuova piega del discorso, non certo la trama o il “contesto”, congelato all’America anni ‘50 con la sua profusione di televisori, auto, aspirapolveri, etc animati o meno dall’effetto Rushmore (se Dick avesse accettato di scrivere la novelization di Blade Runner qualcuno alla Warner sicuramente avrebbe perso il posto, ma oggi figurerebbe in combo con il libro originale nei Meridiani e il commento di Carrère).
Nel romanzo Dick si interroga sul significato di “vero”, “falso”, “naturale”, “innaturale” e, ovviamente, di “umano” in una civiltà psicotropa come quella che, migliaia di anni dopo la scoperta del bronzo, ha prodotto il sogno americano. Do androids… si apre su Rick Deckard che litiga con la moglie Iran: i due devono decidere quale umore diffondere nelle proprie menti con un apparecchio per affrontare la routine giornaliera. La narrazione – come spesso nei romanzi di Dick – è tragicomica: lui suggerisce a lei “compiaciuto riconoscimento della superiorità del marito in ogni campo”, lei minaccia di programmare “sei ore di depressione autoaccusatoria” . Ma è solo l’inizio. La religione empatica del profeta Wilbur Mercer e quella catodica del presentatore tv Buster Friendly sono i principali vettori psicotropi attorno a cui ruota la società di Do androids… – che, in corso di spopolamento o no, resta comunque “massificata” quanto a caratteristiche comuni – alla disperata ricerca di sollievo e di senso.
Deckard, il cacciatore di androidi, è un eroe dickiano, un americano medio che sogna un animale vero come quello del vicino e non uno elettrico da loser. La sua “umanità” è un enigma in primo luogo per se stesso. Che cos’è la “natura umana” in una società psicotropa? Cosa può significare per un “assassino di androidi”? Dick offre due termini di paragone: da un lato, Isidore, l’altro protagonista, un reietto empatico ma discriminato dallo stigma sociale per la sua “subumanità” intellettuale; dall’altro gli androidi evasi, privi di empatia, non importa se crudeli e stolidi come Roy Bates, ingenui e struggenti come Luba Luft, abili e manipolativi come Rachel, l’androide aziendale della Rosen Corporation, la compagnia che li produce come tanti modelli Ford, seduttrice seriale di sbirri per assicurarsi i loro favori. Deckard, a differenza di Phil Resch, il suo collega meno “umano” che solo il test Voight-Kampff riesce a distinguere da un “vero” androide, se ne innamora. Il suo problema da quel momento è uno solo: riuscire a uccidere il modello della serie Nexus-6 identico a Rachel. Lo farà senza perderci il sonno, un po’ per i soldi, un po’ perché nello spettro del romanzo gli androidi offrono, dopotutto, l’unica certezza disponibile, anche se probabilmente convenzionale: quella della propria non umanità. Quella che basta agli umani per definirsi umani e tirare avanti.
Se Do androids… è un romanzo “ontologico”, nel senso che ci interroga sulle categorie dell’essere che diamo per scontate quando ci svegliamo la mattina, Blade Runner è un film “ermeneutico”, nel senso che ci guida nell’interpretazione di quello che abbiamo sotto gli occhi la stessa mattina. [5] O, meglio, ogni mattina di un futuro che il film trasforma nel simulacro del nostro inevitabile presente. Blade Runner è infatti una detective story, una storia noir che fruga tra le foto e i falsi ricordi di umani e androidi. Siamo nella Los Angeles di Philip Marlowe, dopo un secolo di globalizzazione e di piogge acide. Al posto di palazzinari e squali dell’edilizia c’è la Tyrell Corporation ma il mondo resta fondamentalmente un posto che si può soltanto interpretare, non cambiare. O, al massimo, attraversare restando fedeli ai propri principi romantici. “Essere Philip Marlowe” vuol dire essenzialmente questo: risolvere un caso dopo una congrua quantità di botte sulla testa, andare a letto con la propria cliente, incastrarla o salvarla a seconda della piega degli eventi.
Harrison Ford, un attore arrivato all’apice del successo solo attorno ai quarant’anni, non è il miglior Marlowe cinematografico (quello, per intendersi, portato sugli schermi da Robert Mitchum quasi sessantenne) ma il migliore che Hollywood può permettersi nel 1982. Dopotutto non è veramente Marlowe ma Rick Deckard, è un cacciatore di taglie con i modi da sbirro, che non va a letto con le clienti ma con una affascinante androide che dormirà per il resto del film, dopo averle brutalmente estorto il consenso per il primo amplesso interspecifico tra uomo e replicante. Ma Deckard/Harrison Ford, lo sappiamo, è anche il detective sulla cui natura – umana o artificiale – si disputerà appassionatamente per un decennio, almeno fino al Director’s Cut del 1992. E poi ancora, e ancora, fino al sequel di qualche anno fa. L’idea di Ridley Scott (e dei due sceneggiatori, Hampton Fancher e David Peoples) in fondo era tutta qua: “disumanizzando” Deckard e “umanizzando” Roy Bates, chiudere il cerchio e portare alla fine lo spettatore a identificarsi con i replicanti aka classe dominata.
Il resto, più o meno, è storia: gli androidi angeli ribelli, la musica di Vangelis, l’origami, ho visto cose che voi umani ecc… Duemila parole di dialoghi a dir tanto, la metà di esse oggi reperibili in wikiquote dopo aver risuonato per anni nelle segreterie telefoniche dei boomers. Un film che, dopo il mezzo flop iniziale, l’immaginazione collettiva ha risuscitato e sezionato fino all’ultimo fotogramma, come forse solo “Casablanca” in un’ epoca molto remota.
In Blade Runner tutto è icona: le auto volanti, la pioggia, Rachel, Roy Bates, il sushi. Tutto è l’icona di una metropoli che nei decenni successivi ha dettato il modello architettonico e cinematografico anche a Gotham City, l’icona di una distopia sociale che ha preteso mostrarci il futuro che stavamo già vivendo, riversatasi pochi anni dopo nell’immaginario cyberpunk e di lì in centinaia di film e serie televisive. Un incubo seducente da cui non si poteva uscire e in cui si poteva sopravvivere solo con generose dosi di romanticismo tecnologico.
L’icona di un domani distopico che dopo 40 anni si fatica ancora a immaginare diverso ma che capitalismo green, smart cities e de-globalizzazione hanno già “ritirato” come un androide in scadenza.
NOTE
[1] parafrasando Robespierre, Offlaga Disco Pax, Socialismo Tascabile, 2004
[2] Questo ad oggi l’elenco di traduzioni e edizioni italiane:
- Philip K. Dick, Il cacciatore di androidi, traduzione di Maria Teresa Guasti, collana Galassia nº 152, Piacenza, Casa Editrice La Tribuna, 1971, p. 192.
- Philip K. Dick, Cacciatore di androidi, collana Cosmo Oro n° 78, Editrice Nord, giugno 1986, p. 232, ISBN 88-429-0375-2.
- Philip K. Dick, Blade Runner, traduzione di Riccardo Duranti, collana Economica Tascabile n° 47, Fanucci Editore, 1996, p. 253, ISBN 88-347-0544-0.
- Philip K. Dick, Ma gli androidi sognano pecore elettriche?, traduzione di Riccardo Duranti, introduzione e cura di Carlo Pagetti, postfazione di Gabriele Frasca, collana Collezione Immaginario Dick, Fanucci Editore, 2000, p. 286, ISBN 88-347-0736-2.
- Philip K. Dick, Blade Runner, traduzione di Riccardo Duranti, introduzione e cura di Carlo Pagetti, Fanucci Editore, 2017, pp. 297
- Philip K. Dick, Gli androidi sognano pecore elettriche?, traduzione di Marinella Magri a cura di Emanuele Trevi, introduzione di Emmanuel Carrère, Mondadori, 2022, pp.250
[3] Le versioni documentate di Blade Runner sono 7, l’ultima è la Final Cut (117 minuti) del 2007.
[4] Sugli incerti e gli imbarazzi delle traduzioni dickiane si veda a questo articolo di Giuliano Spagnul.
[5] Si ignora l’opinione degli androidi al riguardo ma il bot di un’AI attualmente piuttosto popolare (https://chat.openai.com/chat#) mi ha fornito questa risposta: