Negli Stati Uniti 48 milioni di persone hanno deciso di licenziarsi nel 2021, oltre 50 milioni l’anno successivo. Questa ondata di dimissioni silenziose cominciata durante la pandemia – e ribattezzata con un termine oggi di moda quit quiting – da un’idea della “rigidità” che il mercato del lavoro oggi oppone alle aziende nell’organizzazione dei servizi e della produzione. Un cambiamento enorme anche al netto dei fattori macroeconomici in parte eccezionali dello scenario post-covid (l’ambizioso American Rescue Plan Act di Biden, l’unbundling e la crisi delle filiere, ecc). Un “rifiuto del lavoro” che ha assunto per lo più forme non eclatanti, con milioni di offerte di lavoro cadute nel vuoto o l’estrema riluttanza ad abbandonare lo smart working per tornare in ufficio, ma anche simbolicamente consistenti, come l’ingresso, per la prima volta, del sindacato in una sede di Amazon. Un’onda che ha raggiunto l’India e la Cina e che nella controcultura giovanile fa condensa con le aspettative tradite di una generazione, quella della Y e dei Millennials, che raggiunta la maturità si scopre azzerata secondo ogni parametro – stipendio, risparmio, qualità e tempo di vita, prospettive future – rispetto a quelle precedenti.
In Grandi Dimissioni (Einaudi, euro 17,50 stampa, euro 9,99 epub ), un testo bello e rigoroso già arrivato alle ristampe, la sociologa Francesca Coin analizza il fenomeno a partire dalla mole delle statistiche e da un’ipotesi interpretativa precisa: l’emergenza pandemica ha rappresentato solo la cartina al tornasole delle condizioni di stress lavorativo accumulato a cui sono stati sottoposti interi comparti come quelli, in particolare, della logistica, della ristorazione e dei servizi, confermando quanto le indagini sociologiche già suggeriscono da anni. E cioè che la disaffezione verso un modello economico e organizzativo che negli ultimi decenni ha puntato sullo sfruttamento del personale e la sua responsabilizzazione verso il brand aziendale senza dare nulla in cambio non è mai stata così alta. Nella seconda parte del libro la parola passa poi alle interviste sul campo, il focus si sposta in Italia dove, dopo trenta anni di deregulation lavorativa, si continua a dare la colpa al Reddito di Cittadinanza se non si trovano camerieri sottopagati per la stagione estiva.
Va sottolineato che Coin allarga da subito la prospettiva storica, andando indietro nel tempo, agli anni Venti del Novecento e alla nascita del fordismo, per restituirci in grandangolo la complessità delle relazioni e del conflitto capitale lavoro. La “fuga dal lavoro” emerge così come un comportamento non nuovo ma socialmente vecchio come il capitalismo e forse rimasto troppo a lungo fuori campo, ai limiti della nostra percezione politica e intellettuale. E da questa prospettiva il saggio offre uno strumento prezioso per comprendere il grado di sofferenza che attraverso il mondo del lavoro sale oggi dalle nostre società.
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PULP: Vorrei richiamare la prospettiva su cui il libro si apre. L’idea che lo scontro sociale emerga sintomaticamente anche attraverso il quitting, le dimissioni, la disaffezione e, spesso, il ritiro dal mercato del lavoro suona oggi almeno in parte controintuitiva. In effetti è estranea alla memoria collettiva, sia di chi ha conosciuto i diritti sociali e il patto capitale lavoro, sia di chi è entrato nel mondo del lavoro “postfordista” con il toyotismo, il just in time etc. Il bottom line è che forse leggiamo il conflitto ancora esclusivamente attraverso scioperi, lotte sindacali ecc. Il libro confronta invece la fase che stiamo vivendo – cioè, semplificando, la crisi dell’organizzazione neoliberale del lavoro – con altri momenti storici, in particolare quelli intercorsi negli anni ‘20 del secolo scorso con il fordismo e l’introduzione della catena di montaggio. Potremmo dire che in un certo senso è “sempre stato così”, dopo l’introduzione di ogni nuovo modello organizzativo?
FRANCESCA COIN: In realtà non penso che lo scontro sociale si esprima attraverso il quitting, penso che le fughe dal lavoro siano il sintomo di un malessere che ha radici più profonde di quanto può spiegare la sola emergenza covid. Il covid è stato un periodo di emergenza, in cui diverse categorie di lavoratori e lavoratrici essenziali e inessenziali hanno messo in discussione la propria relazione con il lavoro. In molti casi, a seguito di mesi di lavoro a ciclo continuo o di non lavoro hanno iniziato chiedersi se il nostro modo di lavorare fosse realmente l’unico possibile. Nel libro, cerco di dare respiro storico a questa fase finale, mostrando come essa sia la cartina tornasole della fine di quel processo di fidelizzazione che per buona parte del ventesimo secolo ha permesso alle aziende di disciplinare il personale al loro interno. Per fidelizzazione, intendiamo tutte quelle forme di retribuzione diretta, indiretta e differita che sono state introdotte a partire dall’epoca fordista, quando l’aumento vertiginoso della mole di lavoro seguita all’introduzione della catena di montaggio ha generato nelle fabbriche una crescita del turn over volontario anche del 370%. Un secolo fa, le fughe dal lavoro e la crescita dell’assenteismo impedivano di dare continuità produttiva alle nuove fabbriche fordiste e di far funzionare la catena di montaggio a pieno regime. Per porre fine a tutto questo, già nel 1914 Ford ha deciso di raddoppiare gli stipendi – il five dollars day – inaugurando la fase storica che ha fatto ampio ricorso a forme di retribuzione diretta, indiretta e differita per disciplinare il lavoro e prevenire le prime forme di sindacalizzazione moderna con salari più alti, pensioni e progressioni di carriera. Il covid arriva quando quelle forme di retribuzione per trenta o quarant’anni sono già state smantellate. E dobbiamo chiederci cosa resti di quella capacità di fidelizzare e disciplinare il lavoro ora che sono state smantellate.
PULP: Grandi Dimissioni ridimensiona alcune narrazioni attorno alle “grandi dimissioni”, che solo negli Stati Uniti hanno superato i 100 milioni nel biennio 2021-2022. La prima è che il fenomeno riguardi soprattutto i lavoratori affluenti, lo smart working, etc con la temuta ricaduta sul mercato immobiliare, gli uffici, i coworking etc. Invece il turnover è esploso soprattutto nell’inferno della grande distribuzione e della ristorazione di Amazon, WalMart, McDonald. A un certo punto non c’era più la fila fuori per coprire questi jobs. Graeber diceva che più un mestiere è indispensabile e peggio sei trattato e retribuito, è questo oggi l’anello debole del sistema?
FC: Tutte le narrazioni – quella “generazionale”, quella dello smart working etc. – offrono elementi di analisi giusti ma insufficienti se li prendiamo singolarmente. In realtà è difficile generalizzare: ogni settore andrebbe analizzato a sé, ha una logica organizzativa propria e specifiche cause di abbandono. Io nel libro ho deciso di concentrarmi nei settori “a saldo negativo”, in cui le fughe di personale sono maggiori in numero rispetto alla capacità del settore di attrarre manodopera, il che indica una disaffezione che spesso è il riflesso di problemi organizzativi. È il caso della ristorazione, della grande distribuzione, in generale dei servizi. È anche il caso della sanità, che rimanda a logiche diverse e a fughe verso il privato, verso il lavoro autonomo o verso l’estero. In ciascuno di questi settori le cause dell’abbandono sono specifiche. Nella ristorazione prevalgono il lavoro sommerso, il part-time involontario o la precarietà del lavoro stagionale, tutti fattori che impongono turni lunghissimi e paghe basse, così che il rapporto costi benefici è sfavorevole per chi lavora, non a caso sentiamo da anni parlare di una carenza di personale in questo settore. Nella grande distribuzione troviamo spesso turni massacranti, vessazioni sul luogo di lavoro e in molti casi, le dinamiche a lavoro sono a tal punto tossiche che il salario non è una contropartita sufficiente per chi lavora. Si dice spesso che il reddito di cittadinanza è un disincentivo al lavoro, invece il vero disincentivo al lavoro sono i bassi salari, perché al di sotto di una certa soglia, giustamente c’è chi dice che non ne vale la pena.
PULP: Eppure il lavoro remoto, con lo stereotipo della conference zoom in pigiama, sconosciuto fino a tre anni fa fuori dalle aziende tech, ha rimesso in discussione persino in Italia l’organizzazione degli uffici. Per un attimo, il dogma che ha reso le nostre vite inestricabili dal tempo di lavoro è sembrato giocare a favore di chi è subordinato, e abbiamo visto le uscite del sindaco Sala a Milano durante il lockdown. Ora anche negli USA, molte aziende – Musk in testa – sembrano intenzionate a passare alla maniere forti. Quale è la tua opinione al riguardo?
FC: Il tema dello smart working mi è sempre parso ambilvalente. Da una parte, dobbiamo dirci che la possibilità di allontanarsi dal lavoro non genererebbe un tale entusiasmo, se questi stessi luoghi di lavoro non fossero spesso diventati tossici. Dall’altra, sappiamo che da remoto si finisce spesso per lavorare di più, le ricerche parlano di tassi di burnout elevati e di un personale che lavora sempre per “ripagare” il datore di lavoro per la possibilità di non andare in azienda. La parte contraddittoria è che in molti casi, i datori di lavoro scoraggiano il lavoro da remoto nonostante la maggiore produttività di chi lavora da casa. Per molti versi, è una specie di sindrome del nido vuoto, il timore che l’allontanamento del personale implichi una perdita di controllo aziendale sulla sua vita. Purtroppo, in Italia nelle piccole e micro imprese non è raro che si trovino contesti lavorativi dalla cultura arcaica, con un retrogusto patriarcale in cui esiste ancora la figura del padrone, che a volte sembra uscire dal romanzo di Goffredo Parise: il patriarca che pensa che chi lavora sia di sua proprietà. In questo contesto è possibile che il lavoro da remoto sia diventato uno dei terreni di scontro, il simbolo della necessità di maggiore libertà da parte di chi lavora, e di una cultura del controllo da parte delle aziende.
PULP: Al di là della narrazione finanziaria, che in questi mesi ha fatto rifiatare il NASDAQ, le AI generative, Chat PGT etc pongono oggi il tema della nuova automazione. Secondo autorevoli voci del MIT come Erik Brynjolfsson e Andrew McAfee, l’automazione negli uffici già dieci anni fa viaggiava con il freno a mano tirato per timore dell’impatto socioeconomico immediato. Tra disoccupazione intellettuale e contenimento dei costi del lavoro, come vedi invece adesso l’effetto delle tecnologie cognitive?
FC: Non so se le nuove tecnologie cognitive serviranno a tagliare posti di lavoro, sicuramente saranno usate per tagliare il costo del lavoro. Mi viene da pensare, in questo senso, che l’automazione e l’intelligenza artificiale cambieranno il mondo del lavoro, ma resto cauta rispetto agli scenari apocalittici che ci paventano da anni. Di recente, Aaron Benanav, autore di Automazione (Luiss University press 2022) ha scelto di fare propria una terza via rispetto alle previsioni polarizzate dei tecno-pessimisti e dei tecno-ottimisti. È chiaro, insomma, che l’automazione non libererà l’umanità dal lavoro, all’interno di questo rapporto di forze. Né mi sembra che sostituirà il lavoro umano, anche se le grandi aziende tentano di sopperire in questo modo alla carenza di manodopera. La relazione tra lavoro umano e macchine è forse sempre stata più complessa di quanto ci hanno raccontato, quindi più che una liberazione del tempo o una sostituzione del lavoro temo dobbiamo guardare a una lunga convivenza fatta di forme di controllo più asfittiche e disciplinanti, di pressioni al ribasso del costo di lavoro, di ricatti: “ora che lo può fare una macchina, abbassa il tariffario”.
PULP: Il libro smonta anche un’altra narrazione, quella che spiega le “grandi dimissioni” esclusivamente con l’eccezionalità della crisi pandemica. Tu vedi invece nei lockdown il catalizzatore di una disaffezione diffusa, che la crisi economica aveva soltanto tenuto sotto schiaffo. Per la prima volta da decenni la domanda di merci ha sopravanzato l’offerta di lavoro, il risultato è l’inflazione che le politiche monetarie di Powell e Lagarde stanno bastonando, prendendo di mira il potere di milioni di lavoratori e lavoratrici. Finita la catarsi pandemica, rientreranno anche le grandi dimissioni? O vedremo un nuovo compromesso capitale / lavoro?
FC: È difficile immaginare un nuovo punto di equilibrio, un nuovo compromesso tra capitale e lavoro come è accaduto nell’epoca fordista. Quella era un’epoca di espansione, in cui la crescita faceva da traino all’occupazione e, di converso, all’istruzione di massa, al consumo e a tutto il resto. Oggi siamo chiaramente in un’altra fase e questo meccanismo si è inceppato. Inciampiamo tra crisi diverse: la crisi climatica, l’inflazione, la guerra, la pandemia, la minaccia di recessione. In questo contesto, la principale strategia messa in atto dalle istituzioni per contenere le fughe dal lavoro è stata sostanzialmente coercitiva: bisognava disincentivare le dimissioni con le buone o con le cattive. Negli Usa, la Federal Reserve ha alzato i tassi di interesse per ridurre il potere negoziale del lavoro, in un tentativo dichiarato di disciplinarlo –il Presidente della Fed Jerome Powell ne ha parlato in modo esplicito varie volte, come l’economista Larry Summers. La Banca Centrale Europea ha fatto seguito a ruota, sebbene con obiettivi assai meno espliciti, mentre il governo italiano ha riformato in senso restrittivo il reddito di cittadinanza nel tentativo di costringere a lavorare gli occupabili. È chiaro che questa situazione ci pone una domanda: può una disaffezione al lavoro che nasce da condizioni di lavoro massacranti e sottopagate essere risolta costringendo le persone a lavorare con la fame e la povertà? Direi di no.
PULP: In Italia le grandi dimissioni sono rimaste sottotraccia anche per la diffusione del lavoro nero, del “part time involontario”, delle partite iva di comodo, etc. Il quadro che emerge dalle interviste del libro – tra il personale dei supermercati, della ristorazione e le equipe mediche durante il lockdown – è eloquente. Paradossalmente in questi mesi abbiamo ascoltato più giaculatorie di ristoratori e padroncini che non riescono a trovare personale disposto a lavorare a condizioni inumane che iniziative di denuncia sindacale. Il sindacato sembra uno dei grandi assenti in questa storia…
FC: Non c’è dubbio che lo è. Per dirlo in modo sintetico si può parlare secondo me di doppio fallimento: il fallimento del tentativo di organizzare il lavoro anche a causa di pratiche di cooptazione, di criminalizzazione o di repressione antisindacale. E il fallimento del tentativo aziendale di disciplinare il lavoro. In questo contesto, andarsene non è una soluzione ma è il sintomo di una situazione di malessere che spesso è fuori controllo. E in cui è costretto ad andarsene spesso anche chi, giustamente, vuole tenersi stretto un lavoro, perché non ce la fa più. Per questo, spesso, l’idea che l’organizzazione del lavoro e la fuga dal lavoro siano due processi distinti e quasi contrapposti non è realistica, perché non di rado chi se ne va ha tentato in ogni modo di cambiare i luoghi di lavoro e se ne va quando perde le speranze di riuscire a farlo. Nel libro, tra chi dà le dimissioni ci sono anche delegati sindacali. È un fatto che, talvolta, la realtà è più complessa delle nostre categorie. E quello che questa realtà ci dice è che le fughe dal lavoro sono il sintomo di un bisogno viscerale di tornare a parlare di lavoro e di organizzazione del lavoro anche in quei luoghi in cui ogni spazio di discussione politica è stato troppo a lungo negletto, punito o criminalizzato.
PULP: Per restare in Italia, il saggio evidenzia come il Reddito di Cittadinanza (RdC), ha semmai alleggerito i costi per il datore di lavoro di quel 20% di percettori che hanno un impiego. Il RdC, che universale non è, ha fatto balenaare agli italiani l’idea di un basic income e forse per questo è oggi al centro dell’attacco delle destre. Nel libro proponi un sussidio di disoccupazione esteso alle dimissioni volontarie, quale è esattamente il tuo punto come sociologa ?
FC: Nel libro scrivo che servono forme di welfare universalistico anche per consentire alle persone di rifiutare un lavoro. Oggi la Naspi è l’ammortizzatore sociale che viene corrisposto a chi si trova in condizioni di disoccupazione a prescindere dalla sua volontà. Ne consegue che la Naspi non può essere corrisposta a chi si dimette, a meno che non siano dimissioni per giusta causa. Il datore di lavoro, tuttavia, può negare l’esistenza della giusta causa e costringere il lavoratore ad agire in giudizio perché questa venga riconosciuta. La giusta causa, purtroppo, non è sempre semplice da dimostrare. Per questo è necessario che vi sia una forma di welfare universalistico, per chi giustamente desidera rifiutare un lavoro non congruo. Si parla tanto di libertà di scelta, ma spesso i luoghi di lavoro sono gli unici al cui interno non si può dire no, e questo è un problema.
PULP: Il caso di Viola, che chiude il libro, riguarda il mondo dell’editoria che è anche il nostro, come Pulp Magazine. Un mondo che sforna 32.000 titoli all’anno ma fa spesso da apripista alla precarietà delle professioni creative, dove il sogno di un “lavoro bellissimo” si trasforma nella disillusione che Raffaele Alberto Ventura ha descritto in Teoria della classe disagiata. Anche la generazione dei Millennials, degli attuali 30-40enni, quando il discorso tocca le professioni creative, appare più ricattabile, la logica che prevale sembra ancora: “già ti pubblico, vuoi anche essere pagat*?!?”. Qual è la tua sensazione?
FC: Il caso di Viola ci consente di discutere dei cosiddetti cognitive working poor, quella parte del lavoro intellettuale che è sempre più sfruttato e sottopagato. Si è detto varie volte in passato che in questi casi è più difficile dis-indentificarsi con il lavoro perché tu sei il tuo lavoro. A me sembra che, in alcuni casi, ci siamo innamorati di narrazioni controproducenti, in modo nemmeno tanto comprensibile.
Fammela dire con Marcel Duchamp. “Lei rifiuta di essere chiamato pittore, così come rifiuta di essere chiamato scrittore”, gli ha chiesto una volta una giornalista.
“Perché è così essenziale classificare le persone?”, ha risposto lui. “Che cosa sono io? Forse lo so? Un umano, semplicemente, una persona che respira”.
Talvolta mi chiedo: se Duchamp era una persona che respira, perché mai dovremmo definirci altrimenti noi?