Patrice Nganang, La stagione delle prugne, tr. Marco Lapenna, 66thand2nd, pp. 352, euro 18,00 stampa
Secondo volume di una trilogia novecentesca del Camerun, La stagione delle prugne mostra per la prima volta dal punto di vista camerunese eventi che hanno forgiato il mondo, nel Novecento. È un progetto ambizioso e affascinante, adatto a nutrire la consapevolezza di lettori mondiali, grazie all’inestimabile lavoro dei traduttori. Fin dall’apertura del libro, Patrice Nganang vuole ribaltare gli stereotipi: M’bague, veggente del paese di Edéa, dice chiaramente che Hitler si è suicidato. È il 1940, la guerra ha appena bussato alle porte dell’amministrazione locale e nessuno è più disposto a credere a parole del genere, nemmeno nel cuore della foresta dell’Africa subsahariana.
Il grande merito dell’autore è di inserire i dettagli necessari a dissipare il qualunquismo terminologico che contraddistingue il discorso occidentale, secondo il quale ogni nero è africano e l’Africa è ancora un’unica nazione nebulosa, mitica, senza storia o cultura. In questo romanzo non solo i “fucilieri senegalesi” riacquistano le loro nazionalità, ma il lettore impara a conoscere le diverse etnie del Camerun, riunite casualmente dagli europei sotto una sola bandiera (prima tedeschi, poi inglesi e francesi). Un’unificazione che lacera ancora oggi il paese, diviso tra francofoni maggioritari e anglofoni minoritari, le cui proteste sono sistematicamente soppresse dal governo di Paul Biya, al potere dal 1983, che ha incarcerato e mandato in esilio Nganang come dissidente nel dicembre 2017.
La stagione delle prugne è ricco di parole ed espressioni in lingue diverse (francese, dialetti bassa e persino italiani) e la lingua è uno dei temi importanti che attraversa il testo. Due fra i protagonisti e personaggi storici, infatti – Louis-Marie Pouka e Ruben UmNyobè – nel 1940 lavorano come assistenti indigeni per l’amministrazione francese e vivono tra le lingue, mediando e traducendo. Pouka è colmo di un’ammirazione servile per la grandeur francese, desideroso di assimilazione. UmNyobè (futuro attivista, ucciso nel 1958), invece, fa suoi concetti politici e filosofici e si domanda come utilizzarli per il bene del suo popolo, da liberare dal giogo della potenza straniera. Vede che le culture si sono ibridate ed è impossibile tornare indietro; al contempo parlare francese non significa per forza rimanere per sempre figlio minorenne alle dipendenze della nazione europea. Una riflessione oggi ancora molto attuale, che Nganang rivolge ai propri compatrioti.
Un progetto che ha impegnato Nganang per molti anni, spesi su chilometri di testi e pesanti tomi, riuscendo a esprimere una prospettiva letteraria originale e innovativa. Tuttavia, per me la lettura è stata difficile e mi sono trovata a vivere due sentimenti opposti: un fortissimo interesse razionale per quello che leggevo, da un lato, tanto quanto una enorme insoddisfazione emotiva dall’altra. Il narratore commenta spesso, introduce nozioni saggistiche e, soprattutto, critica i personaggi, cosa che, a volte, fa venir meno il gusto di leggere. E talvolta mi è sembrato che non solo il mio interesse razionale prevalesse sulla narrazione, ma anche quello dell’autore. Uscita dalla lettura, ho una maggiore consapevolezza della Grande Storia, ma non ho percepito quanto speravo della piccola umanità.