Il taccuino sempre pronto sul comodino accanto al letto, Graham Greene era solito appuntare i sogni che popolavano le sue notti. Retaggio di antiche sedute psicanalitiche, conservò quell’abitudine l’intera vita, sul declinare della quale decise di affidare ai posteri una parte del ponderoso materiale raccolto negli ultimi venticinque anni, da lui stesso selezionata e con tanto di titolo, da pubblicare per espressa volontà dopo la morte. Come ricorda Yvonne Cloetta (compagna dello scrittore per oltre un trentennio, sua esecutrice testamentaria e autrice di un’illuminante biografia, In search of a Beginning: My Life with Graham Greene), era un progetto che “gli stava a cuore”, e che lo tenne occupato negli ultimi mesi della sua esistenza, prima di spegnersi a 86 anni il 3 aprile 1991 all’Hôpital de la Providence di Vevey, in terra elvetica.
Come si legge nel saggio introduttivo di Vittorio Lingiardi, ad appena sedici anni, “studente insicuro e bullizzato”, nel 1921 Greene venne mandato in analisi per sei mesi da Kenneth Richmond, junghiano con passioni letterarie, che gli fece acquisire l’abitudine di annotare i propri sogni su un quaderno, o anche di inventarli. Fu un’esperienza formativa, tanto che sessant’anni dopo, in Vie di scampo, affermerà che buona parte del lavoro del romanziere “proviene dalla stessa fonte dei sogni”. Da scrittore nato, del materiale onirico Greene apprezza soprattutto l’aspetto narrativo: “Sono come sceneggiati a puntate, vanno avanti per settimane. Alla fine formano un tutto”. Arrivò persino a sostenere, nel racconto Sotto il giardino, che “la realtà assoluta appartiene ai sogni e non alla vita”. E ancora, freudianamente, che “l’inconscio collabora a tutto il nostro lavoro: è un negro che teniamo in cantina per aiutarci” (gli si perdonerà la notazione poco consona in tempi di stringente politically correct).
Benché forse non sia il caso di dare peso eccessivo a queste affermazioni platoniche, ricche di echi shakespeariani, essendo l’opera di Greene profondamente radicata nella realtà storica, è comunque noto che egli faceva molto affidamento al ruolo dell’inconscio nella scrittura, a tal punto che in alcuni casi furono proprio i sogni a fargli superare delle impasse nella stesura di alcuni romanzi. Come che sia, per più d’un verso questo libro si staglia come un unicuum nella sua opera: non semplice raccolta di sogni, quanto piuttosto deliziosa sorta di delirio narrativo, immaginifico intreccio tra riferimenti a vicende reali e brandelli onirici, intessuti di pura creatività. Più che cercare di domarli, di interpretarli, Greene li rende materia di scrittura, percependo in essi una propensione alla ricerca e alla narrazione di storie peculiari della specie umana.
Si ha infatti l’impressione che da ognuno di questi brani – talvolta semplici spunti – possa prendere vita un racconto, una vicenda, se non un intero romanzo. Tra le righe si assapora l’atmosfera caratteristica della sua letteratura, il gustoso blending di temi a lui cari – il tormento interiore, il tradimento, la fede, l’incontro/scontro tra culture, la fatalità delle vicende storiche, ecc. – e il riaffiorare di esperienze infantili, di paure inconsce mai sopite, che conferiscono profondità a un’opera briosa da cui emana una sensazione di ilare libertà, seppur venata da nembi minacciosi. In queste note Greene dà “sfogo al suo desiderio di avventura o al gusto per l’assurdo”, poiché “sognare era come prendersi una vacanza da se stesso”, come ricorda nella prefazione Cloetta. E proprio come nei romanzi, si avverte il piacere dello scrivere, la quintessenza del mestiere del narratore: “invitare il lettore a entrare in una intimità realmente accaduta in ogni dettaglio, ma inesistente nella realtà”, per citare Domenico Scarpa, autore della postfazione. L’aspetto dialogico, quel certo strizzare l’occhio a un lettore che l’autore sente sempre presente, il mettersi a nudo con sorniona autoironia, il continuo rimando a temi e luoghi (fisici e dell’anima) della propria biografia e dell’opera romanzesca rendono dunque il libro estremamente gradevole e fondo di significati.
Il materiale è raggruppato per temi: felicità, guerra, scrittori, religione, viaggi, scienza, animali parlanti, malattia, morte e altri. Lo stesso autore, nell’introduzione, rileva che nella selezione da lui operata vi sono due grandi assenti: “il lato erotico della mia vita” e “l’incubo”. La prima ellissi deriva certo dalla discrezione: Cloetta ci ricorda che lo scrittore inglese “ha protetto la sua privacy con la stessa ostinazione con cui ha rispettato la privacy degli altri”. La seconda esclusione viene così spiegata da Greene: “Forse nella mia paura sono sempre stati presenti un elemento di avventura e una sorta di piacere, nel Mondo comune così come nel Mondo tutto mio”. Quel piacere dell’avventura che è stata la molla della sua esistenza turbolenta, che lo ha spinto a viaggiare in lungo e in largo per il pianeta, a visitare e fermarsi nei luoghi più pericolosi, nelle vesti più varie – agente segreto, inviato, scrittore, viaggiatore – ha dunque esorcizzato gli incubi più cupi che una natura così sensibile, tormentata e sinanco malata poteva certo partorire, e a cui magari soccombere.
Si tratta insomma di “un’autobiografia della propria irrealtà, piena di realtà” (Lingiardi), un dialogo svolto in forma narrativa tra la coscienza e l’inconscio, il lato diurno e quello notturno. E a stuzzicarne ancor più la lettura, v’è la considerazione che Un mondo tutto mio è l’ultimo lascito di Greene: scrittore prodigioso la cui opera è davvero supremo strumento di indagine conoscitiva degli inesplicabili abissi della storia e delle ancor più misteriose voragini della natura umana.