Graham Greene: il treno della vita e della Storia

Graham Greene, Il treno per Istanbul, Sellerio, euro 14 a stampa, euro 9,99 epub

“In natura, tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo fato, e comico nella sua esistenza”. Questo aforisma di George Santayana compare come esergo di Il treno per Istanbul di Graham Greene, che vide le stampe nel 1932, di recente riproposto dall’editore Sellerio nell’ambito della lodevole iniziativa di ripubblicazione della sua opera. La frase sintetizza la visione del mondo del grande scrittore inglese, e molto ci dice di questo romanzo, il quarto della sua produzione e primo successo commerciale. V’è in essa un movimento intrinseco, uno slittare di aggettivo in aggettivo, di significato in significato, che richiama quello del treno evocato nel titolo, il mitico Orient Express, che attraversa l’Europa in un paesaggio gelido e innevato, carico di personaggi vari per nazionalità e classe sociale, i cui destini s’intrecciano nel solcare un vecchio continente inquieto, ribollente in ogni frontiera, una polveriera colma di odî nazionalistici, del veleno mefitico dell’antisemitismo e del razzismo, di cui Greene coglie con preveggenza tutta la carica di morte.

È questo il primo, fondamentale dato che emerge dalla lettura: l’acutezza profetica dello sguardo dell’allora ventottenne scrittore, per il quale vale ciò che egli scrive di un suo personaggio, la giornalista Mabel Warren: “Del presente [le] bastava cogliere un’espressione, un sintomo di malattia visibile in una ruga, un tono di voce, un gesto”. Del presente Greene coglie lucidamente i segni premonitori di un tragico futuro, le pustole che affliggono l’Europa e che sfoceranno nel nazismo e nel terrificante secondo conflitto mondiale, grazie a una straordinaria capacità d’inferenza, alle sensibilissime antenne che sanno captare gli umori più varî della Storia, all’abilità di estrapolarli e farne materia narrativa su cui innestare una commedia umana intessuta di trame ora drammatiche ora comiche, di rappresentare quell’immaginifico teatro dell’assurdo che chiamiamo vita.

Per far questo, il giovane autore in cerca di successo opera una scelta radicale rispetto ai lavori precedenti: staccarsi dall’adorato, Joseph Conrad, provare a rendere invisibile l’autore e gettare l’onere della narrazione sui personaggi, il cui reciproco intreccio di sguardi determina il moto della trama e il progressivo, vicendevole autosvelamento. A questa tecnica ne affianca un’altra, sperimentale all’epoca, una modalità oggettiva che rende voci e brani di conversazioni in modo quasi automatico, una registrazione dal vivo comunicata apparentemente senza mediazioni, unita a un passo narrativo già consapevolmente cinematografico (Greene è tra i primi ad assumere nella scrittura i ritmi e le tecniche della settima arte, qui presente anche con notazioni metanarrative). Ed ecco venire alla luce un magnifico intarsio, che dimostra la notevole maestria precocemente raggiunta.

Un intarsio costruito per lo più mediante coppie, figure e vicende intrecciati due a due: tramite il loro mutevole incontro/scontro Greene mette a fuoco di volta in volta un tema e il relativo personaggio, con autentici duelli verbali, emotivi, ermeneutici, ideologici: Myatt/Coral, Mabel/Janet, Mabel/Savory, Mabel/Czinner, Janet/Savory, Coral/Czinner e così via. Costrutti binari che illuminano le personalità e le vicende dei protagonisti, costituendo l’impalcatura del romanzo, che nella loro proliferazione trova profondità e dimensione corale.

Alcuni critici trovarono questi personaggi troppo stereotipati nella caratterizzazione: il dottor Czinner, l’agitatore rivoluzionario, l’idealista che crede fermamente nella causa “dei poveri di tutto il mondo”, che all’innocente domanda “Che cosa ha fatto?” risponde: “Ho cercato di cambiare le cose. Sono un comunista”. La cinica giornalista Mabel Warren, che pone le domande “quasi senza ascoltare le risposte”, donna egoista e invidiosa, impenetrabile all’idealismo e in lotta con l’universo maschile, tramite la quale si affronta il tema scabroso dell’omosessualità femminile, della disonestà intellettuale di certo giornalismo d’assalto. Il ricco commerciante ebreo Carleton Myatt, del cui sguardo “altro” Greene si serve per descrivere con ironia un’umanità borghese meschina, capricciosa, puerile e compiaciuta, salvo poi rivelarsi egli stesso non troppo diverso. La ballerina di avanspettacolo Coral Musker, ragazza di umili origini, ingenua e senza esperienza, vittima sacrificale nelle trame di individui facoltosi e lascivi. Quin Savory, in Greene immancabile figura di scrittore, uomo vanesio e insicuro, dalla cui bocca escono solo luoghi comuni (“La giovane generazione va cresciuta con tradizioni sane”) e risibili topiche (“Come giudica la letteratura moderna? Joyce, Lawrence e via dicendo?” gli chiede Mabel Warren. “Passeranno” risponde “con la concisione di un epigramma”). L’altrettanto vanesio Josef Grünlich, il delinquente incastonato nel meccanismo della trama con la precisione di un personaggio di Agatha Christie. La bella e affascinante Janet Pardoe, equivoca dama di compagnia, suscitatrice di brame lussuriose che passa con indifferenza dalle donne agli uomini, a seconda del proprio calcolo.

Se v’è stereotipizzazione, è funzionale ai nuclei tematici del romanzo: il conflitto di classe, le ingiustizie e la povertà che affliggono il mondo, l’antisemitismo e l’odio per il diverso ben vivi e radicati nella civilissima Europa, lo stereotipo che ingabbia donne e uomini in soffocanti ruoli codificati, l’ambiguità dei desideri e dei rapporti umani, la vanità, il fallimento degli ideali nello scontro con la realtà. Ma a ben vedere, i personaggi di Greene appaiono di rado unidimensionali, tormentati come sono da problemi morali che si fanno essi stessi trama, attorta a quella incalzante degli eventi. Gli eroi non sono mai davvero tali: Czinner, il personaggio che suscita maggiore empatia nel lettore insieme a Coral, uomo tormentato “da una vera e propria sete di rettitudine”, non è esente da macchie (“Lui stesso non era del tutto onesto”) o da gravi errori: la cecità di fronte al reale, determinata dal suo accesissimo idealismo; la vanità, che gli fa credere che il proprio sacrifico possa avere una qualche risonanza. No, in Greene non ci sono eroi romantici o figure prive di profondità: lo scavo etico e psicologico cui sottopone i suoi personaggi li rende individui in carne e ossa, con i loro segreti inconfessabili, le loro virtù, debolezze, fragilità.

In realtà, il vero protagonista dell’opera è proprio il treno: il viaggio di autoscoperta che i personaggi intraprendono è simbolicamente fuso con quello del treno, la cui voce – il clangore metallico, lo sferragliare delle ruote sui binari, il cigolio dei vagoni – compare sempre nei momenti topici, sovrapponendosi a quella degli umani, spezzando dialoghi, sommuovendo sentimenti, stimolando riflessioni, descrizioni. Quel treno che con i suoi sussulti rende instabile il passo, col continuo ondeggiare concilia sonni, disturba sogni, muta azioni, determinazioni, muovendosi nella dimensione temporale oltre che in quella spaziale, “come se stesse divorando il tempo, non i chilometri”. Quel treno della vita con i suoi incontri, i suoi imprevisti, i suoi amori e i suoi risentimenti, attorno al quale ognuno si stringe: “Si avvinghiavano a quel treno tutti quanti, e con tutti gli stratagemmi in loro potere”.

Eppure, apparentemente a rompere la claustrofobia degli spazi angusti del treno, i nodi della vicenda vengono sciolti nella stazione d’una cittadina serba, Subotica, in una notte di tregenda degna del King Lear, in una terra dove “ci si poteva aspettare di trovare ancora vivi antichi odî ormai superati nel resto del mondo” (non sfuggirà lo spunto ironico, in un romanzo denso d’umorismo e d’ironia). Ed è lì che Greene sperimenta una soluzione narrativa che ricorrerà di frequente nella sua opera (basti pensare a quella spettacolare de Il console onorario): la caccia all’uomo, la trappola per topi, la scena claustrofobica dove si consuma un mortale conflitto. Come a dire, dalla morsa della vita non si esce.

La quinta e ultima parte, ambientata anch’essa giù dal treno, a Istanbul, è una sorta di lungo anticlimax in cui si svelano i destini borghesi degli altri personaggi, quasi un arrendersi esausto dopo i fuochi pirotecnici delle pagine precedenti. Ma il nucleo più vero e autentico delle vicende rappresentate sul fondale livido e corrusco della Storia sta nella raffigurazione di un’Europa malata, scissa e dilaniata, immersa nel panorama di morta civiltà industriale che sfila dai finestrini del mitico treno insieme a figure d’ombra che paiono anime di dannati, nell’evocazione della violenza sotterranea, dell’odio virulento e del sentore di catastrofe imminente che venano il testo. E qui riposa la sconcertante attualità di questo lucido e profetico romanzo.

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