[…] Noi siamo il prodotto di 500 anni di lotte; prima contro la schiavitù, nella guerra di Indipendenza contro la Spagna capeggiata dagli insorti, poi per evitare di venire assorbiti dall’espansionismo americano, poi ancora per promulgare la nostra Costituzione e cacciare l’impero francese dal nostro suolo; infine la dittatura porfirista ci negò la giusta applicazione delle leggi della riforma e il popolo si ribellò dandosi propri capi. Insorsero allora Villa e Zapata, uomini poveri come noi … (Dichiarazione della Selva Lacandona (1993)
[…] Una storia simile si è svolta in Europa. È la storia dei Diggers per la difesa dei beni comuni in Inghilterra, della rivolta dei contadini in Germania nel 1525 in difesa della proprietà comune, e delle numerose sommosse disseminate nel sedicesimo e diciassettesimo secolo. C’è un retaggio che ha le sue radici in queste lotte; ma non è semplicemente l’espressione della resistenza contro il potere oppressivo, né un’anacronistica difesa di “come le cose sono sempre state” contro la necessità storica della modernità. In breve, esso è una diversa traiettoria della modernità.
Anche la rivolta zapatista è situata in una traiettoria diversa della modernità, che si intreccia con la ripresa delle abitudini e delle pratiche delle comunità indigene del Chiapas, nella Selva Lacandona. Sarebbe facile obiettare che questa tradizione è non solo gerarchica ma spesso anche discriminatoria verso le donne. A questo riguardo, è bene sottolineare che le stesse donne zapatiste hanno subito emendato la Prima Dichiarazione zapatista con una Legge Rivoluzionaria delle Donne (31 dicembre 1993) e hanno anche assunto il titolo di Comandante. In tal modo le donne indigene zapatiste hanno rivendicato il loro ruolo attivo nella lotta contro le gerarchie e le relazioni patriarcali nella tradizioni e nelle comunità indigene.
La tradizione non è la pura ripetizione del passato; piuttosto è una rete dinamica di pratiche che lega generazioni diverse in quella che si può considerare un’eredità comune. Si potrebbe dire che la vitalità di una tradizione sta nella sua capacità di cambiare per far fronte a nuove sfide.
Ciò significa che è aperta a esiti diversi; la sfida politica sta nel considerare il cambiamento come un campo di possibilità per l’apertura di traiettorie alternative della modernità – proprio come hanno fatto gli zapatisti, e come le donne zapatiste fecero nel maggio del 1994, a San Cristobal de las Casas, in un gruppo di lavoro dal titolo “I diritti delle donne con le nostre abitudini e tradizioni.” Il loro modo di affrontare la questione consiste in due importanti elementi. Primo, prende ispirazione dall’intervento di individui e gruppi, piuttosto che assumere le donne come soggetti passivi o vittime da proteggere e integrare nelle istituzioni – non meno violente – dello stato occidentale e nel suo sistema di diritti individuali. Secondo, assume il carattere dinamico della tradizione. Gli zapatisti, riferendosi alle tradizioni indigene, mostrano che la tradizione è un momento vitale che è in grado di legare un esperimento politico nel presente con forme di vita alternative alla traiettoria della modernità capitalistica. Evocando la tradizione indigena e la Rivoluzione messicana del 1910, gli zapatisti raccolgono energia per il loro esperimento attuale di democrazia per completare ciò che è stato interrotto nella prima rivoluzione messicana; autorità assegnata ai consigli locali e rapporti di proprietà configurati secondo “gli usi e costumi di ogni pueblo,” oltre la proprietà privata e la nazionalizzazione. In effetti gli zapatisti fanno riferimento a una storia che risale alla Rivoluzione messicana, alla riforma agraria, alla diffusione dell’ejido – una forma di comunità contadina istituzionalizzata dopo la Rivoluzione messicana – e alle comunità indigene. È una storia che, come un diverso strato temporale, ricopre la storia cominciata cinquecento anni fa con la conquista delle Americhe, la formazione dello stato nazionale e l’inizio del modo di produzione capitalistico. Per questa ragione, la Prima Dichiarazione rivendica una tradizione non di vittimismo ma di lotta per una traiettoria diversa della modernità. Essenziale nell’insurrezione zapatista è il richiamo a un’eredità come energia per re-immaginare il presente.
Gli zapatisti sanno di non essere soli – non tanto per la solidarietà internazionale di gruppi e associazioni ma, più importante, perché rivivono tentativi di liberazione che possono finalmente realizzare nel presente ciò che è stato represso nel passato. “I morti, i nostri morti, parleranno attraverso la nostra voce, così soli, così dimenticati, così morti e tuttavia così vivi nella nostra voce e nei nostri passi.” Nella lotta del presente i morti vivono di nuovo e prendono per mano i vivi come loro contemporanei, per portarli verso un mondo diverso. Questo è ciò che distingue l’universalità dall’universalismo: l’universalità non solo si riferisce allo spazio in modo differente ma va anche oltre il provincialismo del tempo che assolutizza il presente, confinando il passato nei musei, incurante di come lascia il mondo alle generazioni future.
La modernità dominante ha il suo universalismo, che occulta le traiettorie alternative degli “spossessati della storia.” Dal punto di vista dell’universalismo dominante qualunque cosa possa indicare direzioni storiche altre viene marginalizzata come deviazione, come irrazionale o come arretratezza premoderna. Ma se abbandoniamo la filosofia della storia unilineare appare evidente che non ha senso classificare gli eventi in moderni o premoderni. Questi eventi esistono altrove rispetto alla modernità dominante; e questo altrove non è né spaziale né geografico. È soprattutto temporale. Gli eventi sono come traiettorie temporali che, nella loro differenza, condividono lo stesso esperimento. […]
Le differenze tra la linea dominante della modernità e quella della ribellione zapatista sono evidenti a vari livelli. Per gli indigeni e gli zapatisti, “democrazia non vuol dire semplicemente andare a votare”, riguarda anche l’autonomia delle forme di governo e delle autorità indigene in un contesto di “pluralismo legale.” È un sistema “molto diverso dalla democrazia rappresentativa.”
In questo contesto la partecipazione è centrale – non come individui soggetti di diritti sociali e politici prima dello stato ma come membri di comunità e di assemblee. La democrazia consiste nella responsabilità dei leader verso la comunità e – più importante – dei membri della comunità nei confronti della comunità stessa e dei suoi leader. Se nella democrazia occidentale moderna la decisione raggiunta dalla maggioranza spesso è solo la forma di una guerra sublimata per imporre la volontà del vincitore sul resto della popolazione, nella pratica indigena Maya, il consenso è fondato su un’idea di autorità che non impone decisioni. L’autorità richiama il senso etimologico originale di augeo, non tanto l’atto di accrescere quanto l’atto di fecondare, creare qualcosa di nuovo da un suolo fertile e di mediare il livello storico con un livello irrealizzabile, non a disposizione di qualcuno.
I detentori di autorità possono solo mediare tra questi livelli, ma non possono abolire la distanza tra essi e ciò che mediano, per cui non possono incarnare l’autorità; che è presente in ogni membro della comunità nella misura in cui ogni membro media ed esprime una verità comune da un punto di vista distinto e unico – e perciò essenziale.
Tenendo presente questo riferimento al significato originario di “autorità”, è chiaro che l’autorità della comunità di cui parliamo ha a che fare con un modo diverso di intendere il consenso. Esso non è la decisione che separa la maggioranza da una minoranza ma una pratica che connette i membri della comunità l’uno con l’altro e con le generazioni passate. Questa pluralità non deve essere intesa in senso liberale, come una pluralità di punti di vista all’interno di uno spazio circoscritto giuridicamente dallo stato. Si tratta di una pluralità che si allarga fino a includere le generazioni passate e future, ed è la condizione per mediare il livello storico del presente con il livello inattingibile della giustizia. Nella concezione individualistica occidentale individui formalmente liberi ed eguali contano come una massa per costituire una maggioranza; nella comunità indigena l’individuo conta in quanto esprime una prospettiva singolare e unica. Ogni individuo, nella misura in cui occupa una certa posizione nel mondo, ha una visione parziale del mondo. Di qui, la complementarità dei punti di vista si ritiene che abbia implicazioni politiche. Ogni visione, si potrebbe dire con le categorie platoniche, partecipa della stessa visione completa, la cui totalità rimane irraggiungibile. L’eguaglianza, in questa concezione, non è un punto di partenza ma un risultato basato sulla differenza. L’eguaglianza – rispetto alla totalità – eccede e trascende ogni prospettiva particolare. Ognuno partecipa a questa universalità in modi e forme differenti, tuttavia ciascuna complementare all’altra, al fine di avere una visione plausibile di tutto lo stare assieme. Se nella concezione giuridica occidentale gli individui sono astrattamente uguali, nella visione indigena gli individui sono eguali perché le loro differenze sono essenziali per la vita della comunità. Così, scopriamo una concezione che, precisamente perché assume la priorità della comunità sull’individuo, riconosce al massimo il valore delle differenze individuali.
[…] Volendo tracciare un parallelo con la storia costituzionale europea, le categorie utilizzate dagli zapatisti sono in risonanza non con le moderne teorie della rivoluzione ma piuttosto con le dottrine non-moderne dello ius resistentiae. In queste concezioni, forse ereditate dalle leggi proto-ispaniche e riconfigurate nel loro incontro con le forme giuridiche locali, la resistenza è il diritto e/o il dovere esercitato da altre autorità per restaurare un ordine che è stato ingiustamente violato dal tiranno, che è il vero sovversivo. Ciò che qui emerge è la tensione tra temporalità e traiettorie storiche differenti.
La moderna temporalità rivoluzionaria è orientata verso un futuro da realizzare e, una volta realizzato, fornirà la base per giustificare la pratica rivoluzionaria che vi ha portato. Se i rivoluzionari vincono, questa storia sarà scritta al tempo futuro: i rivoluzionari saranno legittimati dalla nuova costituzione che attueranno e saranno glorificati come eroi per aver spodestato il governo precedente. Se vince l’esercito federale, la stessa storia sarà raccontata come in un riflesso nello specchio: il governo sarà riconsolidato e giustificato per aver spazzato via chi minacciava l’ordine pubblico. […] La temporalità restauratrice invece guarda a un ordine che è stato violato e deve essere recuperato. Ma questo non significa un ritorno all’ordine passato, come si sarebbe tentati di dire se si applicano le categorie occidentali moderne. Piuttosto, l’ordine da restaurare si situa nella dimensione inaccessibile di un ordine originario a cui dobbiamo costantemente di nuovo volgere lo sguardo per modificare uno stato esistente imperfetto. In altre parole, nel primo caso, la pratica dei rivoluzionari è legittimata ex post facto; nel secondo caso, la giustificazione è in riferimento a un’autorità e una pratica in cui la costituzione è una parola viva, continuamente richiamata per essere interpretata e aggiornata alla luce delle nuove sfide ed esperienze di democrazia.
[…]
L’esperimento zapatista, come altre numerose esperienze nelle rivolte dell’America latina, è un esperimento con il tempo e le istituzioni. È una forma di temporalità assunta dal mondo indigeno, in cui passato, presente e futuro non sono dimensioni giustapposte nel vettore unilineare del tempo storico: sono, invece, intrecciate. Questo intreccio rende possibile immaginare e praticare un tempo in cui la vita quotidiana si mescola con il tempo della rottura e della tradizione, dando origine nel presente all’anticipazione di nuove forme di vita. Le teorie politiche occidentali della rivoluzione hanno operato diffusamente sulla rottura storica e la distruzione delle istituzioni esistenti, ma spesso si sono rivelate impotenti quando si trattava di dare forma a un nuovo tessuto istituzionale. Nelle pratiche insurrezionali zapatiste, invece, la rottura non viene vista in termini distruttivi ma come costruzione di nuove istituzioni che reinventino forme tradizionali autonome, autogoverno e accesso collettivo alla terra.
[…] L’esperimento zapatista prende forma nella società, che non è il deserto di atomi individuali prodotto dallo stato e teorizzato dalla filosofia politica moderna; è invece piena di unità raggruppamenti, comunità, associazioni e forme di vita in comune. Quando la marea del potere statale si ritrae, non rimane il deserto, resta una pluralità di forme di vita. Gli zapatisti si rivolgono a questa pluralità. La Sesta Dichiarazione invita tutti i popoli indigeni, lavoratori, campesinos, insegnanti, studenti, massaie, vicini, piccoli proprietari, negozianti, piccoli imprenditori, pensionati, disabili, religiosi e religiose, scienziati, artisti, intellettuali, giovani, donne, anziani, omosessuali e lesbiche, ragazzi e ragazze – a partecipare direttamente, individualmente o collettivamente, insieme con gli zapatisti alla CAMPAGNA NAZIONALE per la costruzione di un altro modo di fare politica, per un programma di lotta nazionale della sinistra e per una nuova Costituzione.
Ciò che unisce questi diversi strati di società civile non è la semplice opposizione alla modernità neoliberista. Un’identità costruita in opposizione a un nemico comune non sarebbe un altro modo di fare politica – un nemico che comunque sarebbe difficile da identificare. Un altro modo di fare politica comincia quando temporalità differenti non sono sincronizzate violentemente da un partito o del mercato globale, ma sperimentate nella pratica di diverse forme di vita e di coesistenza. […] L’Altra Campagna è stata mal compresa in diversi modi dalla sinistra. La sinistra marxista ortodossa ha considerato irrilevante il contributo “arretrato” della popolazione indigena, e vago il riferimento interclassista alla società civile, se non addirittura politicamente sospetto. Mentre la sinistra postmoderna ha prontamente abbracciato l’apertura alle differenze e, a volte, anche la cosmologia indigena, ma senza mettere in discussione i rapporti di proprietà e lo stato rappresentativo. Questi due aspetti della sinistra – postmoderna e dogmatica- sebbene apparentemente opposti, sono come le due facce di una stessa medaglia. Durante un’assemblea con le associazioni indigene, un rappresentante della Nación Purépecha ha colpito nel segno quando ha detto che “la sinistra non ha capito del tutto il movimento indigeno: è analfabeta in termini di autonomia e sul fatto che come popolazione indigena noi siamo essenziali nella lotta contro il capitalismo.” Questa affermazione è indirizzata ai due versanti della posizione di sinistra: l’uno non riesce a comprendere l’autonomia indigena e l’autogoverno; l’altro non è in grado di mettere insieme la cultura indigena, la pratica delle differenze e la critica delle relazioni di proprietà. Gli zapatisti, invece, combinano questi aspetti nella pratica: autonomia, pluralità, regime di proprietà. […]
(L’estratto manca delle note a pié di pagina, ciò non inficia il senso del testo. ndr)