Richard Powers, Modulazione, tr. Chiara Spaziani, La nave di Teseo, pp. 30, euro 1,99 epub
Impossibile non conoscere Richard Powers dopo l’ampio lavoro di pubblicazione (e ripubblicazione): e dopo un passato ormai lontano in Bollati Boringhieri e Fanucci, è Mondadori ad accorgersi del capolavoro Il Tempo di una Canzone del 2003 (edizione italiana del 2007), seguito da Il Fabbricante di Eco, Generosity e Orfeo, prima di giungere a La nave di Teseo con Il Sussurro del Mondo, Premio Pulitzer 2019, e con alcune ripubblicazioni.
Richard Powers ha una capacità narrativa straordinaria, riuscendo a consegnare a ciascuna delle sue opere una voce differente eppure riconoscibile, dando al lettore la sensazione di incontrare un vecchio amico di cui si sa molto, eppure capace di stupire con aneddoti tanto fluidi da apparire reali. Il Tempo di una Canzone ha consegnato alla storia un romanzo totalizzante dove i temi principali sono costituiti dalla musica, spesso al centro dell’analisi di Powers, il rapporto tra fratelli, il razzismo e l’evoluzione dello stesso lungo i decenni recenti della storia americana. La capacità analitica di Powers è unica e per quanto i temi possano sembrare distanti dalla vita del lettore, il suo magnetismo è in grado di farci abbandonare ogni ritrosia e trovarci avvolti nella sua storia.
Modulazione parla di musica, e le note a inizio di ogni breve capitolo fanno bella mostra dell’interesse precipuo dell’Autore, ma la musica resta semplicemente uno strumento modellabile per dare vita ad altro. Il racconto breve è diviso in più parti con protagonisti differenti: troviamo Jan Steiner, professore musicologo alla soglia della pensione, cosciente di aver toccato ogni tema della propria materia e senza più speranze di incontrare qualche nuovo linguaggio musicale da analizzare, annoiato dalla bulimia degli anni di accademia.
Toshi Yukawa è un ex hacker costretto dal Governo USA a dedicare la propria vita a stanare siti di scambio musicale pirata, dopo essere stato scoperto a frodare il sistema di vendita musicale online.
Mitchell Payne è un musicista elettronico con un glorioso passato e ora non più in vetta, eppure nel ruolo del vecchio leone in grado di sferrare zampate micidiali a colpi di musica digitale, virtuale, pur sapendo di poter crollare da un momento all’altro sotto i colpi delle nuove generazioni.
Toshi scopre che un virus si sta impadronendo di tutti i sistemi di riproduzione musicale in digitale, una sorta di virus che corre attraverso la Rete, attraverso il Web, a velocità inarrestabile; un contagio che non teme barriere virtuali. Tutto sembra portare in una direzione minacciosa, lasciano a Toshi lo sconforto di non avere risorse da opporre ai suoi vecchi alleati, agli hacker del mondo virtuale libero, dello scambio alla pari, della circolazione di idee e codici digitali.
L’estremizzazione cercata da Powers riesce a dare atto della superficialità con cui oggi si approccia il mondo della musica, con una quantità folle di materiale che gira non solo nella Rete ma anche nelle nostre menti, soggette a continui condizionamenti non voluti. Lo stesso dicasi del mondo dell’informazione web, del continuo sovrappopolamento di titoli, articoli, frasi, slogan e tutto ciò che il mondo virtuale ha creato per gli utenti, consapevoli o meno delle conseguenze di questo strumento. La brevità dello scritto non consente un approccio globale, lasciandoci però con qualche prezioso interrogativo.
Michael Cunningham, La zampa di scimmia, tr. Carlo Prosperi, La nave di Teseo, pp. 30, euro 1,99 epub
Michael Cunningham incontra il successo letterario a 47 anni, vincendo premi come il Pulitzer, il Pen/Faulkner Award e il Premio Grinzane Cavour per la narrativa straniera.
Il romanzo Le ore (Pulitzer 1999 ripubblicato da La nave di Teseo nel 2020), ispirato alla sua amatissima Virginia Woolf, è un acclamato successo. Nel 2002 viene realizzato l’omonimo film diretto da Stephen Duldry, con le splendide Meryl Streep, Nicole Kidman e Julianne Moore. Non meno riusciti, per la capacità di disegnare relazioni tormentate come quelle che viviamo regolarmente, sono Carne e sangue (Bompiani, 2002), Una casa alla fine del mondo (Bompiani, 2003 e film diretto da Michael Meyer nel 2004), Al limite della notte (Bompiani, 2010).
Come avrà vissuto Cunningham l’emergenza sanitaria, che in pochi minuti ci ha spostati in un mondo parallelo? Cosa avrà scritto? Cosa avrà letto?
Abbiamo ironizzato sul fatto che la frase “non ho tempo per leggere” non avrebbe più retto.
Abbiamo cercato testi che rappresentassero quello che stavamo vivendo, forse per cercare un pizzicotto che ci svegliasse dall’incubo. Forse per riconoscere che era tutto vero e che era già successo in passato.
Abbiamo ascoltato il silenzio della mente, diventata piccola di fronte al dolore e alla paura. I nostri libri sono stati i canti dei merli, le margheritine che per un attimo felice hanno vinto i mostruosi decespugliatori.
“Un buon racconto è il metodo più efficace che esista per stabilire empatia con un altro essere umano, e fa sì che il lettore ne esca con una coscienza leggermente alterata, con la capacità di immaginare cosa possa essere la vita di un individuo totalmente diverso da lui. E se un numero sempre maggiore di persone intuisce cosa significa essere un altro, ci sono meno probabilità che qualcuno sia disposto a far saltare i propri vicini di casa in aria.” Questo dice Michael Cunningham, intervistato da Claudia Durastanti.
Questo noi cogliamo leggendo i due testi, “La zampa di scimmia” e “Omino”.
Sono estratti da un suo libro uscito nel 2016 sempre per La Nave di Teseo, illustrato da Yuko Shimuzo, che si intitola Un cigno selvatico. Il libro comprende dieci favole tradizionali, che ci riportano in quel mondo allegorico con cui speriamo di emendarci dal cinismo. Esercizi di restyling? Forse esercizi di onorificenza verso una narrativa fintamente scarna, invece ricca di scintille preziose.
In questo momento in cui siamo stati reclusi, La Nave di Teseo ha voluto mettere in ebook alcune perle dei suoi autori, già pubblicate in forma cartacea in periodi precedenti. Queste di Cunningham rappresentano un tuffo ancora più profondo nell’arcaico e nel simbolico, dove le mappe esteriori perdono consistenza e ci si muove al buio, meglio vedendo la luce di una sapienza fine della vita.
Quello che ci serve in questo momento.
Il racconto “La zampa di scimmia” di W.W. Jacobs era uscito nel 1902, e pubblicato in Italia nel 1960, all’interno dell’antologia Racconti del soprannaturale della collana Super Coralli di Einaudi, curata da Fruttero e Lucentini. Michael Cunningham ne riprende la trama.
Una famiglia ordinaria, povera, con equilibri chiari e perfetti viene sconvolta da una visita. (Quando qualcosa va molto bene, è sempre il momento di preoccuparsi). È un amico del capofamiglia, non lo si vede da decenni. Racconta la sua vita avventurosa e porta in dono un amuleto: la zampa di una scimmia, capace di soddisfare tre desideri. Ma nel momento in cui sta per cederlo, se ne pente e lo getta nel fuoco, raccontando la catastrofe dei propri desideri esauditi. Ma la scintilla della curiosità è accesa e non c’è fuoco che possa bruciarla. La moglie del capofamiglia tira fuori la zampa prima che venga distrutta e promette sobrietà di scelta.
Forse vale la pena ricordare che “de-siderare” significa letteralmente, “allontanarsi dalle stelle”. Fa bene lo scrittore Igor Sibaldi – quando illustra la Tecnica del 101 desideri – a insistere sulla necessità di formularli con parole esattissime
“Omino”, il secondo dei due racconti, è anche il più complesso.
Un goblin che vive nella foresta è stanco di essere solo e desidera un figlio. Sarà impossibile incontrare una donna che lo possa accontentare per ardore. Deve ingegnarsi. Aiuterà una fanciulla a non morire e a sposare il re, e le chiederà in cambio il primogenito.
La favola arriverà al bivio fatale. Dove si trova la terza strada? Che faremmo noi?
In attesa di narrazioni più lunghe da parte di Cunningham potremmo andare a cercarci l’intera antologia Un cigno selvatico. Da questi assaggi capiamo che il libro ci piacerà.
Petros Markaris, Poems and Crimes, tr. Andrea Di Gregorio, La Nave di Teseo, pp. 33, euro 1,99 epub
Con il sottotitolo “Due indagini del commissario Kostas Charitos”, La Nave di Teseo, che ha già pubblicato quattro opere dello scrittore greco Petros Markarīs, presenta due racconti selezionati da raccolte già presenti nel catalogo editoriale. Il primo, chissà perché presentato con un titolo in inglese, “Poems and Crimes”, era intitolato in originale “Tre giorni”, e prestava anche il titolo all’antologia, Tre giorni e altri racconti, tradotta in italiano come L’assassinio di un immortale e pubblicato dalla stessa casa editrice nel 2016.
Il commissario della squadra omicidi ateniese Kostas Charitos, che abbiamo imparato a apprezzare in origine nei volumi tradotti e pubblicati da Bompiani, si trova casualmente a trascorrere la serata in un locale dove si balla zeibèkiko e si canta il rebètiko, le musiche popolari che dall’Asia Minore si sono diffuse in Grecia dopo la rovinosa sconfitta nella guerra contro la Turchia degli anni Venti.
Il giorno successivo Charitos viene a sapere che uno degli avventori che egli ha visto danzare con i propri occhi, è stato ritrovato assassinato nel cortile del locale. Da questo spunto parte una breve indagine, che si conclude appunto nell’arco di tre giorni, e che come molta della narrativa di Markarīs è un punto di partenza per un’inchiesta di natura sociale sull’Atene di oggi. Nei primi romanzi di Charitos, quindi, un viaggio in una metropoli cresciuta a dismisura, afflitta da un traffico ingestibile, da un inquinamento impossibile e da una corruzione di standard mediterraneo; nelle avventure più recenti invece, soprattutto nella Trilogia della crisi (composta, pensa un po’, da quattro volumi), l’attenzione si sposta soprattutto sugli effetti della spaventosa depressione che ha colpito la Grecia quando il governo conservatore è stato costretto ad ammette di aver truccato i bilanci dello Stato. La cura imposta con inflessibile pervicacia moraleggiante dalle istituzioni economiche internazionali ha spinto al di sotto della soglia di povertà una parte consistente della società greca. Questa è adesso l’ambientazione delle indagini del commissario Charitos: gli effetti della congiuntura, gli ultimi, gli immigrati, la protervia delle classi abbienti, la divaricazione tra avere e non avere.
Il secondo racconto contenuto nell’eBook, “Senza scenografia”, è tratto invece dalla raccolta I labirinti di Atene (in originale “Atene capitale dei Balcani”, più consono al contenuto del racconto che antologizza indagini con protagonisti immigrati coinvolti in fatti di cronaca nera), ed è la breve e suggestiva storia di un immigrato sudanese che vede tradita la fiducia riposta in un collega di lavoro che in precedenza aveva sempre preso le sue parti. La particolarità del racconto, suggerita anche dal titolo italiano, è che è condotto esclusivamente mediante battute di dialogo, senza indicazioni su chi stia parlando né descrizioni d’ambiente. Tutto ciò che accade passa attraverso il dialogo diretto.
Petros Markarīs possiede la cittadinanza greca solo dal 1974: è infatti nato nella comunità armena di Istanbul nel 1937 (il vero nome è Bedros Markarian), ed è rimasto apolide per diversi anni, durante gli studi effettuati a Stoccarda e Vienna. Poco prima dei trent’anni si stabilisce ad Atene, giusto in tempo per il colpo di stato dei Colonnelli che regalò alla Grecia sette anni di dittatura fascista. Oltre alla fortunata serie di indagini del commissario Charitos, Markarīs ha collaborato a lungo con il regista Theo Angelopoulos, ed è stato sceneggiatore di alcuni tra i suoi film più belli.
Questo breve assaggio può diventare un antipasto per proseguire con il piatto forte di altre opere di uno scrittore dallo stile molto equilibrato, riluttante a ammiccare ai lettori, ma in grado di trascinarli con i cinque sensi per le strade di Atene.
Tahar Ben Jelloun, Diario di un criminologo, tr. Egi Volterrani, La Nave di Teseo, pp. 24, euro 1.99 epub
Diario di un criminologo è un racconto di Tahar Ben Jelloun, poliedrico scrittore marocchino che vive a Parigi, autore di numerosi romanzi e saggi tra cui L’islam spiegato ai nostri figli (Bompiani, 2016) e Il razzismo spiegato a mia figlia (La Nave di Teseo, 2018).
Ben Jelloun, sempre impegnato sul fronte sociale e politico, anche qui riconferma questo suo interesse per l’attualità trattando un argomento particolarmente doloroso per l’Italia. Siamo in una Napoli sotto il giogo della Camorra, e il protagonista è un uomo giusto sotto i cui occhi scorrono immagini di indicibile violenza.
Faide tra ragazzini che sfociano in spietate esecuzioni pubbliche, lettere minatorie e cadaveri lasciati esposti in pubblica piazza. L’esperienza lavorativa si tramuta presto in un’analisi statistica dei decessi per Camorra: bersagli designati e innocenti al posto sbagliato al momento sbagliato. La sua promessa sposa lo aspetta a Torino e dopo aver ricevuto una lettera da una vedova di Camorra a cui lo Stato ancora deve rendere giustizia, prepara i bagagli e abbandona quella terra di paura e omertà.
Certo il mirino è puntato su di un quartiere preciso e l’intento non è quello di generalizzare e favorire il cliché dell’Italia pizza, mafia e mandolino bensì di sottolineare anche l’esistenza di questo aspetto, dare voce a persone che pretendono giustizia ed esigono la presenza dello Stato, spesso inesistente, invisibile.
“Michele Prisco, a cui sarebbe piaciuto parlare di Svevo o della Yourcenar, in ogni caso di letteratura, alza gli occhi al soffitto e dice: ‘Se Torre Annunziata è diventata quello che è, è perché la qualità dell’uomo non ha smesso di degradarsi. Con la chiusura delle fabbriche di pasta, la gente si è messa a fare altri traffici. È una degradazione di tutto, dell’anima e del volto della città. Non ci vado spesso. L’ultima volta che ci sono stato era per la sepoltura di un parente…’.
Si fa cenno anche a un caso di cronaca avvenuto alla fine degli anni Ottanta, l’omicidio del giornalista Giancarlo Siani, un caso irrisolto, un dossier rimasto senza risposte né colpevoli. Il nome di Siani è legato a un altro scrittore che Pulp Libri ha intervistato, Pino Imperatore, e che ci ha raccontato di come il lavoro di un uomo coraggioso assassinato per i suoi articoli lo abbia profondamente segnato.
Valeria Parrella, Il verdetto, La nave di Teseo, pp. 23, euro 1,99 epub
Clitemnestra è una donna di Camorra. Non è protagonista di attività illegali. Non si trova in prima linea. Non è accusabile di niente. Semplicemente Clitemnestra, giovane ragazza dei quartieri borghesi, è la donna del boss, Agamennone. Un vero capo. Il più grande di tutti. Lei lo ama fino alla devozione e il suo amore è contraccambiato. Ma il capo deve anche fare i conti con la ragion di stato, con la tutela del gruppo dei suoi fedelissimi. Deve condurre guerre. E questo contempla anche delitti e morte, compreso quella di Ifigenia, figlia di Clitemnestra, il cui sacrificio, come è noto, nella tragedia Greca fu la condizione perché le navi degli Achei potessero partire alla conquista di Troia.
Mai Clitemnestra si allontana dal suo uomo. Mai tentenna o retrocede. Il suo amore prevede questo: stare accanto al suo boss fino alla morte. Ma allora perché ora le sue mani sono sporche del sangue di Agamennone? Perché lo ha ucciso? Un delitto d’amore. Un delitto passionale, direbbe il (buon) senso comune.
Clitennestra infatti è stata tradita da Agamennone che, per salvarsi, è fuggito sotto la protezione di un altro boss del quale ha sposato e messo incinta la figlia.
Ecco allora che Clitennestra deve essere giudicata. Per questo è posta di fronte a una giuria, a un tribunale di uomini e donne che facilmente ci rappresentano, come lettori e come esseri umani.
È un tribunale che assomiglia molto a quello che Marguerite Yorcenar chiama in causa per un suo testo, assai toccante, sempre sulla vicenda di Clitemnestra.
Cosa accade nel confronto tra la donna e il tribunale? Cosa è giusto e ragionevole aspettarsi dalla ricostruzione della vicenda?
Cosa mai si potrà vedere e capire? Un atto di rabbia? La vendetta di una donna tradita, l’ammissione drammatica della colpa? Molto di più. Clitemnestra parla e prova a spiegare. Non per giustificarsi, non per ricostruire i fatti. Clitemnestra ci invita a immergerci nel profondo della tragedia. Propone a tutti di accantonare le leggi degli uomini e dei tribunali. Prende per mano la stessa autrice e insieme a lei, a Valeria Parrella, inizia un cammino nella dimensione più profonda dell’animo umano. Dove non arriva il (buon) senso comune, dove non arrivano le leggi e neanche la morale, dove il bene e il male sono categorie confuse dall’agitarsi di passioni e sentimenti che hanno radici talmente profonde che nessuno li può estirpare.
È da qui che prende le mosse il testo della tragedia. Un canone a cui la contemporaneità ci ha disabituato perché tutto deve essere chiaro e semplice. E quindi superficiale. Perché il senso più profondo e incomprensibile delle cose non lo cerchiamo andando a scavare nel buio ma nella somma di eventi drammatici o illegali.
Approfittiamo allora dell’opportunità che ci viene data da questo testo che con piglio e grande libertà ricolloca la tragedia greca all’interno della vita quotidiana della Camorra. Vita violenta e illegale, ma anche vita condotta ai margini della società senza alcuna possibilità di legame con il mondo delle persone di buon senso. Proviamo a cercare nel senso profondo della nostra vita, del nostro essere al mondo, e ci accorgeremo che sia chi si salva, sia chi si perde affida il proprio destino a una forza intima e oscura di cui nessuno ha il controllo. E prende senso l’amara considerazione che per i destini segnati (i maledetti, gli ultimi, le persone perdute) la morte è un favore.
Durante lo svilupparsi della tragedia che prevede anche nella prima parte, un confronto con Agamennone (già morto) risuona come un monito una considerazione che può sembrare banale alla prima lettura ma a cui il contesto tragico conferisce una forza assai intensa: “Amaro è ‘o bene” sembra il motto di un percorso di vita. Come assume un’altra luce l’amore cieco e possessivo di Clitemnestra per Agamennone: “Io amavo Agamennone e se non era mio non poteva Essere.” Che emette un ruggito belluino che non parla più di una relazione tra esseri umani ma mette a nudo una ferita profonda non più rimarginabile.
Giorgio Scerbanenco, Stazione Centrale ammazzare subito, La nave di Teseo, pp. 33, euro 1,99 epub
Anche due brevi racconti come quelli contenuti in questo ebook, tratti dalla celeberrima raccolta Milano calibro 9 (Garzanti, 2016), sono in grado di mostrare l’intero universo letterario contraddittorio e amaro di Giorgio Scerbanenco. “Stazione centrale ammazzare subito” e “Bravi ragazzi bang bang”; due capolavori di sintesi da cui il maestro del noir italiano avrebbe potuto ricavare un romanzo.
Dentro queste storie sono condensati tutti gli elementi che rendono eccezionale la scrittura di Scerbanenco. Innanzitutto la collocazione urbana, la precisione degli ambienti, il rigore nella conoscenza della città, Milano, con i suoi ritmi del lavoro e della vita notturna, con l’attenzione alle persone che la abitano. Il lettore che conviveva con i racconti, durante il boom industriale e imprenditoriale, poteva cercare i locali, gli incroci, i distributori di benzina, gli alberghi dove l’autore aveva immaginato gli incontri, gli agguati, gli appostamenti, le sparatorie.
Ma, soprattutto, come per altri suoi contemporanei, come per il milanese nomade Carlo Emilio Gadda del Pasticciaccio, la cognizione che il crimine è intrinsecamente tessuto nella povertà, nelle illusioni, nell’insoddisfazione per il ruolo che la fulgida società capitalista ha ritagliato per ognuno di noi. Un lavoro insignificante o la mancanza di un lavoro sono molle naturali che spingono al crimine, o la mancanza di un titolo di studio che, anche durante il boom economico, opera una selezione. E allora, nella parte più semplice e ingenua della società, ci si illude che trasgredire la legge consenta, come nel caso di questi due racconti, una fuga, anche momentanea, dalla modestia della vita onesta.
Perché muoiono i nostri protagonisti? Uno per una breve fuga romantica fatta di piccoli lussi, gli altri per una puntata a Viareggio, in riviera, per fare la bella vita, anche solo per pochi giorni. Entrambi i racconti mi hanno ricordato “La paga del sabato” di Beppe Fenoglio, forse il più amaro dei racconti sulla Resistenza, la stessa disperazione e la stessa ingenuità, e, insieme, la stessa visione profonda che mette a fuoco la condanna del lavoro onesto e della sua inevitabile conclusione nella marginalità.
Se per alcuni aspetti Scerbanenco eguaglia Georges Simenon, anche se l’occhio di quest’ultimo è più rivolto verso la piccola borghesia che ha flirtato con l’occupazione nazista, lo scrittore italiano è maestro nello sfuggire alla trappola della morale, ha una maggiore conoscenza di alcuni meccanismi che scattano nelle persone più semplici. Così come sa descrivere la polizia sempre collocandola in un piano di superiore conoscenza professionale soprattutto psicologica.
In “Bravi ragazzi bang bang” il Commissario è consapevole dalle prime righe che la situazione che la ragazza sta descrivendo è tra le peggiori, sa che se dei bravi ragazzi stanno per compiere un’azione criminale la loro mancanza di esperienza porterà a uno spreco inevitabile di violenza e di morte. La regia occulta del racconto non risiede nella sfortuna ma in quell’accecamento dei veri “rischi del mestiere” che la prospettiva della bella vita porta a nascondere. Un vero fuorilegge, sopravvissuto a tante azioni illegali, ha imparato a non eccedere, una persona onesta, al contrario, improvvisa e genera la tragedia assoluta, quella in cui le conseguenze eccedono drammaticamente gli scopi. Scerbanenco, che aveva lette migliaia di lettere ai giornale che, soprattutto da donne, venivano inviate ai rotocalchi che dirigeva, aveva imparato a riconoscere le potenzialità nere che quelle vite semplici di segretarie, operai, disoccupati, sarte covavano nell’anima. Un po’ la cifra di molti film dei fratelli Cohen.