La domanda fondamentale che ci pone il libro di Giusi Palomba la troviamo all’inizio della seconda parte ed è una domanda di bell hooks: “Come facciamo a rendere una persona responsabile di un torto commesso, e allo stesso tempo a restare in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi?”
Ma quando siamo arrivati alla seconda parte di questo strano libro siamo già passati per la prima parte e non è stato un percorso facile, anzi. Lo strappo racconta il percorso faticoso e pieno di contraddizioni dell’autrice che a Barcellona si ritrova nella sgomentante situazione di avere un caro amico improvvisamente accusato di violenza sessuale. Lo shock è ingigantito dal fatto che Bernat, l’amico, è un uomo molto conosciuto per il suo attivismo politico e sociale ed è una sorta di leader della comunità di riferimento della quale fanno parte anche Giusi e la donna abusata, Mar, che invece di denunciare lo stupratore e affidarsi alla giustizia statale decide di iniziare un percorso alternativo: lei è convinta di poter curare se stessa attraverso le relazioni di comunità e che ognuno (e quindi anche Bernat) possegga la capacità di trasformarsi e assumersi la responsabilità dei danni inferti.
Questa scelta implica un’altra convinzione: la violenza non è mai un fatto puramente privato ma sociale e culturale, e quindi politico. In questo specifico caso una comunità che probabilmente si sentiva indenne dalla violenza, proprio per i suoi caratteri politici di critica all’esistente, scopre di non essere un safe space e di produrre al suo interno violenza, tanto più scioccante proprio perché non prevista e inconsapevole.
Il percorso sarà molto faticoso e ingarbugliato, pieno di sentimenti contrastanti: rabbia, incredulità ma anche stanchezza e affaticamento che non risparmiano il lettore, che esce dalla lettura di questo capitolo come da sotto una coperta bagnata alla ricerca di aria. L’autrice giustamente frustra l’aspettativa del lettore che non sa cosa sia successo effettivamente, proprio per distoglierlo dagli automatismi del giudizio e del “prendere partito” e concentrare invece la sua attenzione sulle pratiche di riparazione e trasformative che, lungi dall’avere risposte certe, si mostrano onestamente in tutte le difficoltà e contraddizioni.
Il libro infatti è una ampia riflessione un po’ arruffata ma sempre appassionata volta a dimostrare che la violenza non è mai solo un fatto privato e individualistico ma ha sempre a che fare con relazioni di potere, di ingiustizia sociale e di genere che la giustizia dello Stato rinforza e riproduce. La critica forte di Palomba è quindi rivolta anche al femminismo punitivo dell’empowerment che si concentra solo sui due attori che corrispondono a due ruoli prestabiliti – vittima e carnefice – eliminando così le possibilità di mettere in crisi il modo in cui la società è fondata e produce e riproduce questi ruoli.
Palomba parla nel suo libro, ad esempio, della legge spagnola sulla libertà sessuale conosciuta come “Sólo sí es sí” voluta fortemente dalla esponente di Podemos Irene Montero, ministra dell’Uguaglianza. “La legge, promossa in seguito al processo, tristemente noto, ai cinque uomini della Manada[1], ed entrata in vigore in ottobre [del 2022], dice che ‘c’è consenso solo quando è stato liberamente espresso con atti che, date le circostanze del caso, esprimono chiaramente la volontà della persona interessata’: dunque tutte quelle condotte che attentano alla libertà sessuale senza il consenso dell’altra persona si considerano aggressioni sessuali, e cade la differenza tra aggressione e quello che era precedentemente considerato abuso (senza violenza o intimidazione).”
Dunque la legge inasprisce e introduce crimini che prima non c’erano e – secondo le voci femministe più critiche – non sarà comunque in grado di eliminare il problema della violenza.
Anche in Italia molti centri antiviolenza assumono, come agire privilegiato, il ricorso alle forze dell’ordine nei casi di violenza. Bisogna però dire che la stessa Palomba non esclude che a volte sia semplicemente necessario rivolgersi alla polizia.
Negli ultimi tempi mi è capitato spesso di leggere libri per lo più scritti da donne che hanno la stessa struttura di questo: ibridi con parti saggistiche mescolate alla narrazione, innesti personali e molta attenzione alle serie tv, una delle manifestazioni più incisive ma anche influenzate dalla cultura pop. Anche La trama alternativa ha questa struttura un po’ disorientante. In particolare il libro di Palomba affronta l’argomento bilanciandosi fra la ricerca sul campo con moltissimi riferimenti di organizzazioni base e comunità che hanno affrontato il tema della giustizia trasformativa (purtroppo quasi tutti gli esempi sono americani o anglosassoni) e molte citazioni tratte dalla cultura pop. In particolare si sofferma e usa la serie tv britannica I may destroy you (2020) della grandissima Michaela Coel con i suoi diversi finali possibili e alternativi in cui la protagonista riesce a liberarsi di ogni senso di colpa per non essere stata la “vittima” perfetta (al momento dello stupro era “fatta”), riconosce che il proprio stupratore non era definibile solo da questa violenza, che anzi riproduceva, essendo stato a sua volta abusato, ma anche dal desiderio di vendetta e accettare che la propria vita non possa essere definita da un evento per quanto terribile sia.
Una struttura disorientante si diceva, perché La trama alternativa cerca di dare una risposta concreta oltre che teorica a come si può praticare una giustizia che non si rivolga allo Stato e che vada oltre la “giustizia riparativa” per affrontare la “giustizia trasformativa”. La risposta non è data, non è semplice, non è un manuale di comportamento e non ha una soluzione teorica politica definitiva. Quindi la forma del libro corrisponde al tentativo di trovare risposte da diversi punti di vista.
Alcuni nodi critici sono indicati dalla stessa Palombo: l’obiezione che in questo modo lo stupratore viene di fatto “assolto”; che chi produce il danno potrebbe avere capacità manipolative derivate da una posizione di potere nel proprio percorso di trasformazione; o ancora l’autrice si chiede cosa sia una comunità capace di accogliere un simile processo trasformativo e che tipo di istituzioni dal basso alternative si possono e devono creare.
A queste e altre obiezioni che suscita la lettura di questo denso libro, necessariamente attraversato anche da un pensiero utopico, aggiungo le mie personali derivanti sicuramente dalla novità che un simile approccio mi ha suscitato. La questione delle zone sicure: come far sì che non si trasformino in una sorta di sorveglianza poliziesca che rischia di mettere sotto controllo anche gli aspetti rischiosi e conflittuali che sono costitutivi del desiderio quale potenza liberatoria, capace di scioglierci dai vincoli delle identità per metterci in relazione con l’altro.
Inoltre se non ho difficoltà a capire tutti i lati negativi, puramente repressivi e coercitivi della giustizia statale, mi chiedo che fine faccia in una giustizia trasformativa il principio cardine della responsabilità individuale e se una giustizia che vuole andare così in profondità nell’intimità del reo non rischi di diventare un “polizia dell’anima”. Esempi storici ce ne sono.
[1] Un episodio di violenza di gruppo in cui cinque uomini hanno violentato a turno una donna a Pamplona nel 2016. Un numero enorme di donne scese in piazza in Spagna per protestare.