Questo libro potrebbe erroneamente sembrare una melanconica macchina del tempo che ci riporta agli anni ’70, a un’epoca molto lontana e diversa dall’oggi, in cui la cultura giovanile – un misto di libertarismo edonista e irenismo ribelle che si faceva largo a gomitate in un paese come sempre conservatore se non reazionario come l’Italia – era fatta soprattutto di musica. E la musica contava davvero allora: era parte di una visione collettiva del mondo che era politica, esistenziale, estetica. Un credo comune e un fattore di riconoscibilità per le nuove generazioni. Oggi la tassonomia successiva moltiplica le definizioni, parlando di Rock, Hard-Rock, Progressive, ma all’epoca, banalmente, la si chiamava tutta musica Pop. Un termine stupido e impreciso, certo, ma che gettava una linea netta e imprescindibile fra la musica “nostra”, quella dei ragazzi di allora – i cui fratelli maggiori erano stati i Beat e i “capelloni” degli anni ’60 – e la musica “loro”, quella dei genitori – che nel giovanilismo ipocrita e un po’ becero del decennio precedente erano stati definiti con l’innocuamente affettuoso neologismo di “Matusa” – ma soprattutto quella dell’autorità costituita, quella che ci veniva continuamente imposta per radio e per televisione, le odiate canzoncine conformiste e insipide del Festival di Sanremo che piacevano solo agli sbirri sempre pronti a sedare a colpi di manganello e candelotti lacrimogeni i disordini nei primi festival e concerti che timidamente cercavano di dare spazio a quel caotico e contraddittorio movimento che cominciava a chiamarsi Controcultura.
Underground si diceva anche: non tutti avevano chiaro di quale sottosuolo si trattasse, ma non importava. Molti di quei ragazzi troppo giovani per fare il ’68, avrebbero fatto il ’77: sarebbero diventati indiani metropolitani, frikkettoni, si sarebbero sfatti di canne, avrebbero flirtato con l’Autonomia, chi scivolando – in analoga, stolida deriva – nella lotta armata, chi nel misticismo pecoreccio degli Hare Krishna o degli Arancioni di Osho Rajneesh. Quasi tutti sarebbero stati marchiati dall’antidoto che il Sistema aveva introdotto con successo per distruggerli e neutralizzarli definitivamente: l’eroina. Eroina e repressione poliziesca avrebbero cancellato quel mondo: nel decennio successivo – gli anni ’80 composti e modaioli – già la situazione sarebbe stata normalizzata, il paesaggio livellato, l’Immaginazione, non più al potere si sarebbe accontentata del podere. Anche la musica Pop, che ora non si chiamava più così, sarebbe tornata ad essere una merce come un’altra.
E quella musica che si ascoltava nella prima metà degli anni ’70, prima che dal 1976 in poi deflagrasse la bomba anarchica del Punk, quella musica “pop” che oggi chiamiamo Progressive, abbreviato in Prog, derivava dagli esperimenti più avanzati del Beat – britannico molto più che statunitense – degli anni ’60, con i suoi gruppi più significativi – Beatles, Rolling Stones, Who, Kinks – che con l’apporto di massicce dosi di LSD erano diventati Psichedelia – Jimi Hendrix, Jefferson Airplane, Grateful Dead, Doors, Love, Pink Floyd, Traffic, Moody Blues – con l’aggiunta di profonde influenze dal Jazz e dalla musica classica sinfonica. Nel 1969 l’album capolavoro dei King Crimson In the Court of the Crimson King aveva dato l’abbrivio a un florilegio di nuovi gruppi di giovani decisi a sperimentare tutte le possibilità di una musica senza barriere: erano nati Genesis, Jethro Tull, Emerson, Lake & Palmer, Colosseum, Family, Gentle Giant, Yes, Soft Machine, Camel, Renaissance, Gong, ecc. Per l’appunto si era formato presso l’Università di Manchester anche il gruppo oggetto di questo libro: i Van Der Graaf Generator.
Stabilito nella formazione canonica nel quartetto formato dal leader e compositore Peter Hammill (voce, chitarra, pianoforte), Guy Evans (batteria e percussioni), Hugh Banton (organo e tastiere), David Jackson (Saxofoni e flauto), il gruppo si distingueva sia per l’uso assai limitato della chitarra elettrica (strumento principe del rock, sostituito qui dai sassofoni elettrificati e muniti di effetto wah-wah di Jackson, capace di suonarne anche due contemporaneamente) e per il rifiuto degli assolo e dei virtuosismi solistici tipici del periodo: la musica dei Van Der Graaf è una musica d’insieme dalla compattezza solida e dirompente. Vicini ai King Crimson per raffinatezza stilistica ed estro sperimentale – il leader dei King Crimson, il chitarrista Robert Fripp, suonerà spesso insieme a loro collaborando a un intero loro disco, il capolavoro Pawn Hearts (1971) e a un pezzo nel disco precedente – si discostano però dal gusto fiabesco e medievaleggiante sia del gruppo di Fripp che di quello dei Genesis di Peter Gabriel, amici e compagni di etichetta discografica, optando piuttosto per una visione avveniristica, tecnologica e fantascientifica (già il nome scelto dalla band rimanda a una macchina generatrice di energia elettrostatica). Ugualmente respingono il formalismo tecnico di gruppi come Yes ed Emerson, Lake & Palmer: il loro approccio alla musica è viscerale tanto da fuoriuscire abbondantemente dal canone un po’ pomposo del progressive per anticipare il metal e addirittura il punk. Non è un caso che personaggi molto lontani dallo stile Prog li abbiano considerati maestri e ispiratori: Johnny Lyndon, o Rotten, che dir si voglia, ha più volte dichiarato che senza aver ascoltato Peter Hammill (in particolare il suo disco solo del 1975 Nadir’s Big Chance) non avrebbe mai formato i Sex Pistols; altrettanta devozione hanno manifestato Bruce Dickinson degli Iron Maiden e Mikael Akerfeldt degli Opeth, o passando dal metal all’art-rock addirittura David Bowie o Nick Cave.
Eppure, nonostante i riconoscimenti da parte dei colleghi più prestigiosi, a livello di pubblico sia i Van Der Graaf Generator che Peter Hammill da solo, non hanno mai oltrepassato un successo di nicchia soprattutto in patria. Solo in Italia, negli anni ’70 diventarono dei divi assoluti: un vero è proprio culto che stupiva loro stessi per primi li aveva accompagnati nelle tourneè trionfali nel nostro paese e nella vendita dei loro LP. Il non certo facile Pawn Hearts che andò malissimo in Inghilterra (per essere riscoperto e rivalutato solo decenni dopo…) raggiunse il primo posto nelle nostre charts e lo mantenne per diversi mesi e il 45 giri della loro versione del brano strumentale Theme One, composto da George Martin, produttore e arrangiatore dei Beatles e sigla dei programmi musicali mattutini della BBC che i ragazzi del Generatore ascoltavano al risveglio, divenne un vero e proprio inno (ora è la suoneria del mio cellulare…).
Il libro di Scaravilli (pur non privo di imprecisioni ed errori: madornale per un presunto fan sbagliare continuamente il titolo del solo di Peter Hammill Nadir’s Big Chance chiamandolo Nadir’s Big Change: qui pro quo degno dei giornalisti della stampa nostrana che avevano ribattezzato i Van Der Graaf Generator in Van Der Graaf Generation) ripercorre l’epoca d’oro dei primi ’70, il primo scioglimento del gruppo, la reunion del 1975, il cambiamento di formazione del 1976, lo scioglimento definitivo del 1977, la carriera solista di Hammill, la seconda reunion del 2005, la riduzione a trio del 2008 dopo l’abbandono del sassofonista Jackson, e l’attività fino ai giorni nostri: un terzetto di ultrasettantenni in splendida forma e ancora pienamente creativi (a riprova si ascolti lo splendido live del 2023 The Bath Forum Concert). Con una utile disamina di tutta la lunga discografia della band, il libro risulta tutt’altro che nostalgico e può orientare il lettore verso un ascolto mirato e approfondito facendo il paio con l’altro testo vandergraffiano di riferimento per gli appassionati: Van Der Graaf Generator: La biografia italiana (Arcana, 2013) di Paolo Carnelli.