Milano, Italia

Giuseppe Genna, Reality. Cosa è successo, Rizzoli Editore, pp. 320, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub

Il tempo non è più remoto in questo 2020 decrepito e gonfio di fuochi e respiri ansimanti o al limite di qualcosa che non è più vita ma salme prone e intubate nei luoghi dove il click delle macchine sovrasta lo sforzo d’infermieri e medici in lotta. È il tempo abitato dallo scrittore Giuseppe Genna, fuori di casa in una Milano stradale e deserta dove impera il coprifuoco. Lo scrittore “va e vede”, chino sul serbatoio della Vespa, e ricorda i poeti, mentre assalta barriere militari e nosocomiali in cerca della verità, in cerca del virus sconosciuto e nascosto ai nostri occhi, quell’organismo microscopico che uccide soffocando e non sa che la poesia dei poeti è invulnerabile ai suoi scopi. La poesia di Mario Benedetti, ucciso dal patogeno nella sua avanzata estesa e fredda, privo d’intelligenza ma abilissimo nel diffondersi e prosperare ai danni degli esseri umani. Mario Benedetti: in sua memoria inizia la cronaca dell’invasione scritta da Genna seguendo il proprio onorevole linguaggio poetico, quello che ha impresso nei romanzi e nei saggi pubblicati lungo gli anni. Nella sua prosa ha sempre trovato la salvezza delle cose che soltanto la poesia sa rendere a noi umani. Sempre seguendo gli accidenti di un’epoca deformata, di un’Italia in balia (e spesso serva) della catastrofe mondiale. Non c’è più posto per fantasia o invenzioni liriche nella massa mutata della società vista dallo scrittore durante le irruzioni notturne nell’intimo della metropoli a raggiera, lungo i Navigli e nelle insalubri strade intorno al Duomo e nelle vie del commercio.

L’epidemia, è certo, cambia il design novecentesco, lo trasforma in un reticolo infettivo simile a una Bangkok di colpo occidentale. Solo che i cittadini non sono abituati al buio che dalle vie risale le facciate e penetra negli intonaci e raggiunge le camere da letto e i polmoni e la psiche di chi crede d’essere preda di “quelli là”. Venuti da Wuhan, in compagnia di germi, virus, e chissà cos’altro. Genna non è stato mai in stand-by nei suoi libri, ha percorso e rievocato luoghi e non-luoghi, è riuscito a stracciare il “tempo devastato e vile”, non si è mai blindato dentro una ricerca linguistica irrispettosa della storia e della realtà, pur avendo profonde radici nella migliore discendenza dei poeti europei. Nemmeno in questo caso, nella commozione per la perdita di uno dei nostri poeti più importanti, si è affannato a grattare acrobazie metriche dotate di retrogusto mondano. Viaggiando per le strade milanesi, e negli anfratti ospedalieri, vede innanzitutto il valore perduto della libertà, se la libertà va messa da parte perché qualcosa bisogna pur fare per opporsi all’attacco. Vuole vedere tutto, e resistere ai propri bronchi infiammati, contrastare i soprassalti di raucedine, mentre le tangenziali scorrono alle spalle e i tabelloni ordinano di non viaggiare. Le uniche scritte visibili, nella città infartuata.

Nessuna invenzione distopica, questa volta, l’invasione avanza dalle regioni del pianeta azzurro, non da pianeti rossi o extra-sistema. L’alieno aveva già invaso il nostro DNA in epoche lontanissime, inimmaginabili, e non lo sapevamo. E ora, non pago, ha saltato la specie, ha saputo sfamarsi dilagando nelle folte schiere di esseri umani ignari e indifesi. Genna davanti alle tute bianche, intente a sanificare luoghi pubblici, rivede il tempo in cui Černobyl’ è stato sinonimo di nube radioattiva, verdure contaminate, chiusura dei bambini in casa, mentre gli isotopi micidiali raggiungevano gli angoli più remoti della Terra. Malattia dilagante, di veleni e di spettacolo, da decenni. Il respiro delle periferie ora è uguale a quello del centro, trapassando le zone nulla cambia. I luoghi aspettano il colpo di stato, forse è già in corso, e qualcuno nella Milano passata al vaglio pensa ai monatti. Qualcosa assedia, ma è troppo veloce per accorgersene. Lo scrittore vede, le file ai supermercati, e gli scaffalisti, un fuori e un dentro indifferenziato, sciatto e pauroso, in mezzo a arredi e oggetti coloristicamente slavati, come ripresi da telecamere vetuste, stile di un mezzo Novecento del tutto analogico. E poi: il ritorno improvviso di De Chirico, semplici piazze e archi e portici dove la metafisica è puro tempo impoetico. Nient’altro. La poesia sta altrove. E Genna lo sa. La conosce. Era amico di Benedetti. E di ulteriori. Mica dèi, solo poeti molto umani che stanno nelle loro città, come i concittadini, reclusi e intimoriti. Mentre lo scrittore percorre le strade in Vespa, giorno e notte, e vede. I giorni passano, e oltre un certo tempo sono scanditi dal conto dei contagiati e dei morti. Un orologio spaventoso che porta dritto nelle stanze di rianimazione dove l’inferno è certo. Qualcuno muore gridando “puttana!” in attesa d’essere intubato, qualcuno si addormenta nella sedazione per non risvegliarsi più.

Dal 22 febbraio in poi morire è una fatica. La gabbia di Milano, fashion e spaccio, dovrà espiare. È il centro di qualcosa. Il virus preme. Genna lo avverte, parla con molti e le parole sono sempre le stesse. Capisce che dovrà fare slalom fra paesi satelliti e centrali del potere, inseguito dallo spillover giunto da Oriente, da quelle enormi città inserite in poche ore dentro una bolla. Ma è troppo tardi, il primo giorno è arrivato, e essere giornalisti non consente molto di più. Figurarsi scrittori. “Non è mica un lavoro”. Reality si trasforma in un quaderno degli eventi, un diario che capitolo dopo capitolo illumina i condannati a morire, le torture e le storture, il sistema che non dovrebbe ammettere errori mentre si assiste a martirio e morte. Sono in tanti dentro questo libro, una folla che si agita dentro la metropoli improvvisamente marcia di ruggine. Giovani e anziani avvicinati uno per uno, con le loro storie e gli ultimi giorni, in appartamenti silenziosi, pronto soccorso sovraesposti e strade trafficate dal clamore delle ambulanze. I detenuti si ribellano, sfondano, fuggono.

Lo sguardo di Genna vorrebbe scusarsi, ma continua a incrociare la parola con la visione della città che ha vicino altre città prede dell’epidemia. In Reality si respira l’odore acre del virus, la sua massa consistente e invisibile, mentre tutto si rovescia. Mentre uccelli neri sorvolano le piazze. E come a Černobyl’ la regione si chiude. Il virus non decade come il cesio, il virus si sfama di ciò che ha assaltato. Mentre Alberto Arbasino agonizza nel suo letto, il paesaggio non è più popolato di zombi ma di creature umane a cui viene tolto il respiro. Genna sa che il maestro aveva ragione a fustigare il paese senza, ma sa che in un paese disfunzionale leggerlo era pressoché impossibile. Viaggio al termine di qualcosa. Non serve rievocare le letterature del Novecento, questo secolo nuovo è già vecchio per dissoluzione, perché ha creato dentro di sé, per nostro tramite, la maniera perfetta di distruggersi. Il nostro secolo, inventato da noi umani, non il pianeta che si modifica difendendosi. Reality non è letteratura che pensa a se stessa, è la scrittura degli occhi che vedono in un corpo che fatica a respirare il viso disfatto dell’infermiera, simbolo resistente di tutti i resistenti richiusi dentro le mura coatte degli ospedali. L’immagine perfetta del tempo.

Wuhan ce la fa, Papa Francesco ce la fa, stanco nelle sue scarpe ortopediche e solitario per le vie di Roma e nella solitudine di piazza San Pietro circondata dai suoni incrociati delle sirene. Genna vede, nel crepuscolo di Roma, anche lui ce la fa ma è esausto, pensa alla carne del Cristo e alla carne fusa dei morti nel lavoro incrementato dei forni crematori. Ogni capitolo del libro una stazione, in ogni stazione l’odore acre del sudore, dell’urina, della fatica di morire e di proteggere. Chi coperto dai caschi e chi dalle mascherine. Genna ingoia il realismo, ma difende la poesia, l’amico poeta morto, esplorando le rughe fisiologiche e geografiche di un paese senza protezione. La poesia e il Papa si pongono frontalmente davanti al male, e nella lotta brucia la storia. Reality è una maledizione rivolta al virus, la traversata di Milano e di una nazione confinata nei suoi 35000 morti, fino alle soglie del dopo. Oltre la fine, scrive Genna, cominciarono tutti, incerti e storditi, a chiedersi cosa fosse successo.