Il titolo innanzitutto: è tratto dal testo scritto da Mogol (Giulio Rapetti) per una canzone di Lucio Battisti, I giardini di marzo, del 1972. Funziona da richiamo alla colonna sonora degli anni Settanta, il decennio durante il quale si svolge la gran parte dei fatti narrati nel libro. Non si usavano gli auricolari allora, così dalla cucina la musica della radio si diffondeva nelle altre stanze. Nel caso di abitazioni piccole come quelle dei protagonisti di questa storia, coinvolgeva l’intera famiglia. Partiamo da questa immagine, quindi, per arrivare a una prima definizione del testo di Culicchia: è una storia di famiglia. Per la precisione di una famiglia allargata, quella di Elisabetta e Ada Tibaldi, due sorelle di Nole Canavese andate spose, rispettivamente, a Francesco Culicchia, residente a Grosso Canavese, e Guido Alasia, di Sesto San Giovanni. È il gruppo familiare che scopriamo in una foto a pagina 15, in un’istantanea scattata nell’agosto del 1968: ritrae nonni, genitori e figli, tutti intorno a un tavolo a capo della quale siede il patriarca, Giuseppe Tibaldi. Questa foto ritrae la felicità, quel particolare senso di avercela fatta che si respirava nelle famiglie operaie verso la fine del boom economico: la casa popolare, due settimane di ferie, l’utilitaria e la pensione. Potrebbe non sembrare granché, ma confrontiamolo con quel che avevano le generazioni precedenti fra campi e officine, la fame, la pellagra, l’emigrazione e la dittatura. Per di più ci sono famiglie come quelle ritratte nella foto che riescono a mantenere le proprie radici, così da unire al relativo benessere la consapevolezza di appartenere a un posto e una storia.
È una magia che non dura. Il decennio che arriva non porta solo le canzoni di Lucio Battisti. Sul finire dei Sessanta c’è la svolta, “sta per arrivare l’Autunno caldo. E con questo i cortei e gli scioperi, le stragi di Stato, la Strategia della tensione, le prime bombe, i primi morti”, due righe messe giuste giuste proprio sopra l’istantanea della comune felicità nell’agosto del ’68. Una delle vittime degli anni Settanta fa parte della foto di famiglia: Walter Alasia, cugino dell’autore, il “te” del testo di Mogol. Il libro è il tempo che Beppe Culicchia costruisce per vivere con lui, ucciso la mattina del 15 dicembre 1976 al termine di un’operazione di polizia contro le Brigate Rosse. Allora il libro di storie ne racconta due, nel loro tragico incastro, quella privata della famiglia seduta attorno al tavolo e quella pubblica della nazione. Andiamo a sfogliare la prima, cominciando dagli Alasia.
Guido, il padre di Walter e di suo fratello Oscar, è un operaio specializzato. Lavora alla Ortofrigor, una fabbrica di Sesto San Giovanni. Deportato a Mauthausen dopo l’8 settembre vive la schizofrenia tipica dei comunisti della sua generazione. La militanza, in sezione e nel sindacato, la si fa fuori di casa. Dentro, comanda lui. Una sera, per esempio, chiede alla moglie di cucinargli la pasta in bianco il giorno dopo perché ha dolori al fegato. Ma quando lei gliela serve si inalbera e pretende una carbonara, naturalmente negando di aver mai fatto la richiesta del giorno prima. Frequentatore di bocciofile e osterie, a volte alza il gomito e allora, quando torna a casa con la luna storta, per la moglie non è “facile averci a che fare”. Nei conflitti domestici si trova sempre di più a fare i conti con il figlio minore, Walter, immancabile alleato della madre con cui va d’accordissimo, mentre l’opposto gli succede col padre.
Se cerchiamo di cogliere il senso del percorso politico del giovane Alasia, lo scopriamo dominato dalla ricerca della coerenza fra parole e azioni. All’Istituto tecnico osserva con diffidenza i leaderini dei vari gruppi extraparlamentari (Avanguardia operaia, il Manifesto, Movimento studentesco) contendersi il consenso degli studenti nelle assemblee e nei cortei. Quando ha 17 anni, nel 1973, entra in Lotta continua, ma ci sta poco. Anche qui un divario enorme separa l’obiettivo dichiarato, la rivoluzione, dalla tattica, creare le condizioni per un governo di sinistra in Italia. Le Brigate rosse diventano per Walter il passo successivo. Quando lo fa? In un giorno del ’75. Chi lo recluta alla lotta armata è Renato Curcio, appunto evaso il 18 febbraio 1975 e arrestato nuovamente il 18 gennaio dell’anno dopo.
È una curva, quella che porta Walter Alasia nelle Brigate Rosse, che si può spiegare come una sistematica presa di distanza dal modo di essere comunista del padre, dall’incoerenza del comportarsi da proletario che lotta in officina e da padrone dispotico a casa. E l’entrata in scena di Curcio avviene secondo i modi della sostituzione, più o meno come succede con gli zii nelle famiglie fortunate: un adulto che fa da padre vicario al giovane, senza avere addosso il carico di doveri, conflitti e competitività che appesantisce la figura paterna. Che di rimpiazzo si tratti lo si intuisce dal fatto che appena può Walter fa conoscere Curcio a sua madre. I tre insieme svuotano di armi e documenti una base brigatista diventata insicura. Dal che si capisce che Walter un gran guerrigliero urbano non lo è. Le regole della sicurezza impongono una separazione rigorosa fra la vita clandestina e quella privata. Parenti e amici devono star fuori dalla prima, anche nel caso di militanti che abbiano mantenuto la copertura della normalità, casa, lavoro e famiglia. È il principio che, nel 1944 ispira le riflessioni di Giovanni Pesce davanti ai membri di una banda di quartiere decisi a diventare gappisti: “Tutti amici, tutti vicini di casa. La cattura di uno porterebbe i fascisti diritti all’interno del gruppo […] questa gente rappresenta un pericolo per sé e per gli altri”.[1]
Per concludere la storia di famiglia, aggiungiamo che Walter è adorato dal cugino Beppe, di nove anni più piccolo. Non lo vede molto: a parte qualche sporadica riunione familiare, sono due le settimane che gli Alasia passano nel Canavese durante le vacanze estive. Eppure quel poco tempo basta per costruire un legame saldissimo. Walter è come un fratello maggiore, anche qui senza il peso delle rivalità che esisterebbero se lo fosse davvero. Beppe non sa niente, è ovvio, delle scelte politiche di Walter. Le scopre il 15 dicembre 1976, davanti alla fototessera in bianco e nero del cugino che durante il telegiornale irrompe sullo schermo della televisione di famiglia. Quel giorno la sua adolescenza “finisce prima ancora di cominciare”. Ma inizia anche l’impegno di scrivere la storia di Walter: ci vorranno più di quarant’anni per portarlo a compimento.
E veniamo alla seconda storia, quella della nazione durante gli anni Settanta. È dominata dallo scontro fra le ali estreme dello schieramento politico, con lo Stato che d’ogni tanto ci mette del suo. Culicchia la racconta come una continua manifestazione di una violenza cieca: è “la Signora con la falce portata sul grande schermo da Ingmar Bergman nel Settimo sigillo” che si mette all’opera. Colpisce nel mucchio, una volta a destra e una a sinistra, Ramelli, Varalli, i fratelli Mattei, Franceschi, Mantakas, Zibecchi e così via. Sono dieci pagine di testo che se vanno avanti in questo modo fino a concludersi con la morte di Walter Alasia. E l’inizio? cos’è che ha messo in moto la Signora con la falce? Non sembrano esserci dubbi, è la bomba di piazza Fontana, la strage di Stato. Nel libro lo si legge per tre volte, alle pagine 15, 18 e 103. L’ultima è la più chiara: “Nel cortile di quella questura, sette anni prima, poco dopo la strage di piazza Fontana, l’anarchico Pinelli è morto precipitando da una finestra: sono quella strage e quella morte ad avere dato il via al meccanismo che sta per divorare anche te (Walter Alasia)”. E perché la strage? La risposta non possiamo, è chiaro, trovarla nel lavoro di Culicchia, richiederebbe la scrittura di un altro libro, almeno. Però, se andiamo a rileggere la frase incastonata sopra la foto di famiglia a pagina 15, scopriamo una sequenza chiave: “l’Autunno caldo […] gli scioperi, le stragi di Stato”. La traccia sta lì. Il Sessantotto si svolge in Italia come un po’ dappertutto in Occidente, ma a separare la nostra storia da quella degli altri è l’innesto della lotta operaia sulla ribellione studentesca. Il 1968 passa fra tumulti e occupazioni di università, ma non è in Italia un anno più violento che in altre parti del mondo. Ci sono due morti, è vero, ma non nelle metropoli agitate dalla rivolta. Si chiamano Angelo Sigona e Giuseppe Scibilia e sono due braccianti in lotta per il contratto (l’aumento richiesto era di 300 lire, 15 centesimi di euro). Vengono presi a fucilate dalla Celere ad Avola, in provincia di Siracusa, il 2 dicembre 1968. Anche l’anno seguente il veleno lo porta nella coda. A un’ondata senza precedenti di scioperi operai risponde, il 12 dicembre, la bomba di piazza Fontana: 17 morti e 88 feriti. Lì, in quella risposta, c’è il salto dallo scontro sociale duro alla guerra civile a bassa intensità.
Walter Alasia muore sette anni dopo piazza Fontana. Brigatista a un passo dall’entrare in clandestinità dorme con una Luger a portata di mano. Sono le cinque del mattino quando sente i colpi della polizia alla porta di casa. Salta giù dal letto, afferra la pistola, apre la porta della camera e spara. Il vicequestore Antonio Padovani e il maresciallo Sergio Bazzega cadono colpiti a morte.[2] Torna dentro, si veste, apre la finestra e salta in cortile, un metro più in basso. Colpito da una raffica alle gambe rimane inchiodato lì. Passa una manciata di minuti poi, scrive Culicchia, “arriva un altro poliziotto, e [lo] fredda sparando[gli] un colpo al cuore”. La versione ufficiale sarà che all’arrivo dell’ambulanza Walter Alasia balza in piedi e riprende a sparare, questa volta contro i barellieri. Il fuoco di risposta degli agenti lo finisce. È una versione insensata (come avrebbe potuto alzarsi da terra Walter Alasia?) che i due barellieri, Sandro De Paolis e Vito Lo Russo, smentiscono pubblicamente quattro giorni dopo. Qualcuno ha sparato a raffica in cortile, ma era una messa in scena. È il poliziotto del colpo al cuore di Walter Alasia, che “per simulare una sparatoria esplode altri colpi”.
Da un punto di vista militare stretto, le azioni dei protagonisti di questa tragedia appaiono criticabili. Walter Alasia agiva ancora nella legalità e non era stato coinvolto in episodi di particolare gravità, in nessun fatto di sangue per essere chiari. Avrebbe dovuto tener presente che il primo dovere di un militante è preservare sé stesso. E continuare a lottare in carcere. Un attimo di freddo ragionamento, poi, gli avrebbe mostrato l’insensatezza del provare a rompere l’assedio a colpi di pistola. Ma se Walter Alasia fosse stato un vero combattente clandestino, non avrebbe dormito a casa sua quella notte. Non l’avrebbe fatto da un pezzo. Era un anno che la polizia lo teneva d’occhio. L’avevano individuato grazie a un paio di occhiali da vista da lui dimenticati in una base brigatista poi scoperta dagli inquirenti. Dagli occhiali erano risaliti all’ottico, da lì alla ricetta e da questa al paziente. Come aveva potuto Walter Alasia lasciare un paio d’occhiali da vista, quindi personalizzati, in una base clandestina? Ma ancora peggio, una volta commessa la dimenticanza, perché non si era reso conto della sciocchezza fatta e del rischio che correva e faceva correre ai suoi compagni? Non c’è risposta.
Sempre dal punto di vista militare, non convince nemmeno l’agire della polizia. Nella guerra a un’organizzazione clandestina, la cattura di un combattente è un successo inestimabile. Perché equivale a impadronirsi di una miniera di informazioni sul nemico, le sue strutture, i suoi piani. Se lo si uccide si chiude l’accesso alla miniera. Nel caso specifico di Walter Alasia, l’uccisione del prigioniero suscita ancora più dubbi perché non è avvenuta negli istanti che seguono un confronto armato, quando gli animi sono surriscaldati, ma dopo quattro, cinque minuti. C’è quindi stato il tempo per pensarci su, con tutta probabilità per discuterne con autorità più alte di quelle presenti sul terreno, in vista anche del fatto che il comando del gruppo operativo era stato gravemente menomato dall’attacco di Walter Alasia. Teniamoci per ora questi dubbi sulla ragionevolezza militare di quanto accaduto a Sesto San Giovanni quarantacinque anni fa e vediamo di scioglierli con l’avanzare della discussione.
Con il racconto della morte del cugino, Culicchia ha narrato l’incontro fra le due storie, una familiare e l’altra nazionale, oggetto del suo libro. Ma l’atto conclusivo di questo incrocio è un fatto di una gravità inaudita. Culicchia ci ha appena detto che la polizia di Stato ha giustiziato a freddo un prigioniero, un cittadino colpevole di reati gravissimi, ma che le era affidato in custodia dal corpo sociale. E della cui incolumità era responsabile. È da notare come tre firme di una certa importanza che hanno recensito Il tempo di vivere con te, all’esecuzione di Walter Alasia abbiano preferito girarci attorno. Giampiero Mughini, sull’HuffPost, se la cava scrivendo che, dopo la raffica che inchioda al suolo Walter Alasia ferendolo alle gambe, “passarono alcuni istanti e si sentirono altri colpi d’arma da fuoco”.[3] Non minuti quindi, come nel racconto di Culicchia, ma istanti e soprattutto, poi, un’evidente censura: chi ha sparato e a chi? Culicchia lo dice, il suo recensore no. Enrico Palandri, su Doppiozero, è ancora più sintetico. Dopo aver ucciso i due poliziotti Walter Alasia salta sul marciapiede “dove viene a sua volta ammazzato”.[4] Come e da chi? Chi legge la recensione non può saperlo. Ma la soluzione più raffinata la trova Pierluigi Battista, di nuovo sull’HuffPost: Walter Alasia è “il brigatista rosso raggiunto dai proiettili della polizia all’alba del 15 dicembre 1976”.[5] Geniale! Concediamoci un siparietto e proviamo a immaginare un dialogo fra padre e figlio:
“Papà cos’è successo durante la Prima Guerra Mondiale?”
“Sono morti più di mezzo milione di italiani.”
“Davvero? E come?”
“Erano andati a stare sul confine con l’Austria-Ungheria. In posti come la valle dell’Isonzo, il Carso, e l’altopiano di Asiago.”
“E allora? Perché sono morti?”
“Sono stati raggiunti da granate, shrapnel, gas asfissianti, tiri di cecchini, raffiche di mitragliatrici, rivoltellate dei loro ufficiali.”
“Ma qui non ci possono raggiungere quelle cose lì vero?”
“Certo che no, stai tranquillo.”
Le acrobazie verbali per sterilizzare il racconto degli ultimi minuti di vita di Walter Alasia ci dicono che qui sta il nocciolo della storia. Torniamo a interrogare la zona oscura della vicenda, là dove eravamo arrivati prima di farci distrarre dalle recensioni, ovvero l’apparente incoerenza fra la logica militare e le azioni dei protagonisti. Cominciamo dalla polizia, questa volta, e torniamo a chiederci perché decida di uccidere Walter Alasia. Nessun senso sul piano investigativo, ma in una guerra, anche se a bassa intensità, non conta solo l’intelligence. Altri motivi possono spiegare un’azione. Ammazzare Walter Alasia in quel modo lì, che tutti capiscono com’è andata ma nessuno può dire niente, assume un enorme valore simbolico. Tanto grande da superare di slancio il danno arrecato dalla distruzione della fonte di informazioni rappresentata dal prigioniero. Il colpo al cuore di Walter Alasia è simbolo del potere, della sua smisurata potenza. Noi siamo così dice il simbolo e voi quella cosa là stesa in cortile. E uno lo capisce al volo, senza bisogno di verbalizzare, come si fa appunto coi simboli, tipo la croce o la bandiera, per citarne due fra i più comuni.
Il 15 dicembre 1976, a Sesto San Giovanni, non è la polizia la prima ad agire simbolicamente. Lo aveva già fatto Walter Alasia. La sua decisione, militarmente poco saggia, la si può spiegare solo così: farsi simbolo, morire come Dante Di Nanni. A ciò si aggiunga il sovrappiù di significato che a Walter veniva dal suo salire a simbolo sul palcoscenico domestico, davanti al padre da sfidare/sostituire e la madre da difendere. Il seguito dei Settanta dimostrerà quanto fosse caro alle Brigate Rosse l’agire sul piano simbolico, fare a gara con lo Stato nel produrre simboli della propria forza. Competizione persa in partenza, ovvio.
I simboli non si mettono in questione. Uno non si chiede che relazione ci sia fra l’essere italiano e una striscia verde sulla bandiera. Che se fosse blu sarebbe francese. Così l’uccisione a freddo di Walter Alasia funziona simbolicamente perché non sono ammesse domande. Tutti sanno com’è andata, fin da subito. Lo devono sapere. Anche se nessuno lo può dire a voce alta perché quel simbolo carica con sé l’ingiunzione a tacere. È un meccanismo che, sette anni prima, con la morte di Pinelli, non aveva funzionato. Ma questa volta sì. Anche se Alasia immobilizzato da una raffica alle gambe che salta su per sparare a dei barellieri è tanto poco credibile quanto il balzo suicida di Pinelli. E ancora oggi ci tocca leggere che quel giorno a Sesto ci sono stati dei proiettili che hanno raggiunto un tizio steso in un cortile.
Culicchia smonta tutto rimettendo il racconto con i piedi per terra. Scende dall’altezza dei simboli e ci fa vedere cos’è successo al livello del selciato. Soprattutto, e qui fa la mossa decisiva, nega la natura simbolica di Walter Alasia. Che non è più il terrorista ma il cugino di Beppe. Diniego che vale anche per l’altro simbolismo, quello del combattente clandestino. Walter non è nemmeno l’eroe proletario, è di nuovo solo un cugino. Con la conseguenza che un terrorista lo si può giustiziare e un eroe si può immolare, mentre a un cugino non può accadere né l’una né l’altra cosa. Lo si può solo ammazzare, commettendo però un crimine. Rimasto impunito, nel nostro caso.
Non finisce qui il libro, però. C’è ancora un’appendice. È l’elenco, tratto da Wikipedia, delle vittime delle Brigate Rosse, 84 in tutto fra il 1974 e il 2000. Subito dopo viene un’altra pagina, l’elenco dei brigatisti uccisi dalle forze dell’ordine. È bianca perché su Wikipedia quella lista non c’è. Non è un dato da poco, perché quante persone leggano Culicchia non lo so, ma sicuramente la cifra è niente confronto a quanti nel mondo consultano Wikipedia. Torniamo un attimo a quel bambino che voleva sapere quanti italiani fossero morti nella Prima guerra mondiale. Immaginiamo che sia diventato grande, faccia la quinta liceo e per la maturità debba scrivere una tesina sugli anni di piombo. Non ha molta voglia di far ricerca, così le informazioni se le trova su Wikipedia. E che problema c’è? Appunto.
[1] Giovanni Pesce. Senza tregua. La guerra dei GAP. Milano: Feltrinelli, 1974.
[2] Il sostituto procuratore Emilio Alessandrini dirà alla madre di Walter, Ada Tibaldi, che uno dei due agenti uccisi era stato vittima del fuoco amico dei colleghi (131).
[3]“Giuseppe Culicchia dentro la libidine delle ferocia degli anni di piombo”, HuffPost, <https://www.huffingtonpost.it/entry/giuseppe-culicchia-dentro-la-libidine-della-ferocia-degli-anni-di-piombo_it_601521e8c5b6bde2f5bfaa45>.
[4] “Tra la P38 e l’eroina”, Doppiozero, <https://www.doppiozero.com/materiali/tra-la-p38-e-leroina>.
[5] “Walter Alasia, il sangue del terrorismo, Yoghi e Bubu”, HuffPost, <https://www.huffingtonpost.it/entry/walter-allasia-il-sangue-del-terrorismo-yoghi-e-bubu_it_60471021c5b6a973f9544dc3>