La storia “naturale” di Giulio Mozzi, che ce lo rende esistente in questo mondo spesso occultato da questioni coordinate da enti famosi ma sconosciuti, giunge in questo piccolo libro (la definizione è dell’autore) la cui intenzione originale sarà pure “sopraffatta” ma per fortuna toglie di mezzo tutte le ostruzioni percettive che spesso albergano in recenti raccolte poetiche. Mozzi ha avuto a che fare con l’eternità messa in discussione da ciò che in vita non dà scampo, ma sempre è uscito vincente nello scrutare paesaggi e paesi, e le anime lì riunite in vicende abili nello scomparire ma che poi, grazie a un pensiero, a un’arte dello scrivere sapiente, ritornano al mondo come un’epica. È il caso di dirlo, gli oggetti privati, e tutto quanto concerne le famiglie, concorrono a mettere insieme le parole che nascono per essere dette e raccolte, durevoli per causa di coloro (scrittore, cantastorie, aedo, extraterrestre, antico contemporaneo o futuribile) le pronunciano per far apparire chi è esistito e non esiste più.
Un giorno l’amico poeta chiede a Giulio se scrive ancora poesie: di sicuro ha intravisto una possibilità, e forse tolto di mezzo un incaglio, un imprevisto nel rapporto con la lingua. Ma se il legame con la lingua è ferreo, persuadersi che l’antica voce dei ricordi possa tornare attuale non è difficile. Si impara a scrivere una volta per tutte, dalle amabili vocali alle antipatiche consonanti troppo simili fra loro. Mozzi racconta già nella prima poesia l’avventura delle dita intorno alla matita, la fatica che prepotente si annunciava. È la meccanica ossea che incarna l’altrettanto imperio dell’espressione mentale. E tutto inizia, è il caso di ricordarlo qui e ora. L’autore, classe 1960, ricorda la storia di molti, i dialetti riservati ai consanguinei ma non ai figli, perché si tratta di “una specie di buona educazione”, tale e quale al sedere a tavola composti. L’avvento della realtà non trova superstizioni dentro questo libro, la strada principale ha numerosi affluenti partecipi con la stessa indomita semplicità di oggetti ricchi di tracce, di discorsi mai interrotti del tutto e immersi nell’aria conservativa di cassetti e soffitte, armadi e stanze la cui porta non ha mai dismesso la chiave nella toppa.
Le poesie sono strani animali, hanno forma sfuggente, cariche di seduzioni e virulenze possiedono questa mania d’assumere le più svariate forme, e spesso gli uomini che l’hanno inventate faticano a collocarle in ciò che credono sia loro destinato. Per fortuna strazio e dolcezza talvolta s’affermano in oggetti irripetibili e l’oggetto poetico si ferma nelle nostre case: appare, racconta, e consiglia di fermarsi. Così come Mozzi si è fermato nelle vicinanze di fotografie nitide come ricordi, di ricordi nitidi come fotografie. Gli uni e le altre fragranti come cioccolata calda il giorno dello stipendio della madre insegnante (la bellissima dai capelli fini ritratta al centro del libro). O il ricordo delle varie fasi della vita paterna, biologia e passione per la matematica, difensore delle vaporiere ancora presenti sui binari padovani di Mozzi studente delle medie. Come da tema datato 15 novembre 1971. Si fa in tempo, nell’avventura memoriale del Mondo vivente a imbattersi in un Topolino piangente, dalle pagine del settimanale Epoca, per l’avvenuta morte del padre Walt Disney, e nella donna di trecentocinquanta anni del racconto di Philip K. Dick, Il pianeta impossibile: la tenace signora vuole essere riportata sul pianeta natale, Terra, ma un comandante senza scrupoli sceglie a caso fra le decine di sistemi planetari con caratteristiche simili a quelle richieste. Ricordi nei ricordi, dunque, e tracce di esistenze, vecchiaie e morti nello stesso sentimento dominante.
Il mondo vivente è ancora una volta, per l’autore e i suoi lettori, l’occasione di vedere riuniti anime e oggetti ben lontani da essere sostanza di culto ma stati di relazione affermati e irripetibili. Un intrico di tesori pudici, indicanti il primo segno che c’è, che esiste e siamo noi. È l’ultima frase del libro, la constatazione finale (ma presente fin dall’esordio) che la parola, la lingua adottata nell’infanzia, è fatta di un amore donato e costruito della fatica a maneggiare una matita, dalla prima elementare ai metodi adottati in dattilografia. Una piccola enciclopedia, come per tanti di noi fu Conoscere, corroborata anche dal discreto elenco dei libri citati. Non si abbia timore, forse è lì che tutto inizia.